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RECENSIONE


mar 29 giugno 2021

“LIBERI DI OBBEDIRE”

L’ultimo saggio di Johann Chapoutot, “Nazismo e management – Liberi di obbedire”, ci racconta come una determinata concezione dell’organizzazione sociale e del lavoro dominante oggi, basata sulla fine del conflitto tra capitale e lavoro, prenda piede e si diffonda durante il Terzo Reich.

Nazismo e management, potrebbe essere un corso di studi insegnato all’Università da Jack Gladney, il professore di Studi Hitleriani protagonista di quel capolavoro paranoico che è Rumore Bianco di Don De Lillo. O potrebbe essere uno spin off dell’ucronia visionaria La svastica sul sole di Philip K. Dick, che immagina un mondo dove in nazisti hanno vinto la Seconda guerra mondiale. Invece, e purtroppo, è un serissimo saggio dello storico francese Johann Chapoutot, appena pubblicato per Einaudi.


Nazismo e management – Liberi di obbedire (Johann Chapoutot, Einaudi 2021, pp. 128) nelle parole dell’autore, non vuole «affermare che il management ha origini naziste […] e neppure che è intrinsecamente criminale», ma raccontare invece come una determinata concezione dell’organizzazione sociale e del lavoro dominante oggi, basata sulla fine del conflitto tra capitale e lavoro, prenda piede e si diffonda, grazie a un’enorme produzione teorica e una rigida messa in pratica, proprio durante il Terzo Reich.

Il passaggio dalla “amministrazione” (Wervaltung) alla “età manageriale” (Menschenfuhrung) è infatti una caratteristica dell’organizzazione del lavoro proprio durante il nazismo, come scrive lo storico Dieter Riebentisch. E Chapoutot rileva un potente sostrato antropologico e filosofico in questo passaggio. Ideologi e giuristi del nazismo cercano infatti la giustificazione alla loro organizzazione in quel passato vitalista delle tribù germaniche, asservito alle leggi della natura, indomito a farsi irreggimentare in una struttura statica come lo Stato, pieno di fardelli burocratici, nemico della natura e del libero sviluppo dello spirito del popolo.

Lo Stato bismarckiano, mantenendo in vita attraverso il welfare sociale chi non sarebbe in grado di sopravvivere, si oppone alla selezione naturale, dicevano i teorici del nazismo. E la stessa cosa sembrano volerci ricordare oggi gli imprenditori che si scagliano contro i sussidi e il reddito di cittadinanza.

D’altronde sono stati in molti nello scorso secolo a considerare il Terzo Reich come il punto di sviluppo più avanzato del capitalismo industriale. A partire da Zygmunt Bauman, che in Modernità e Olocausto legge il nazismo come un’organizzazione politica e una struttura economica assolutamente contemporanea, basata sulla logistica dei campi di lavoro, i cui crimini non sono frutto di arcaica barbarie ma di sconvolgente modernità. O da Giorgio Agamben, che in Homo Sacer vede nel “campo” il paradigma del controllo sociale e della struttura giuridica della democrazia neoliberale. O da Gotz Aly, che per primo forse utilizza termini come “manager” e “tecnocrati” per riferirsi agli ufficiali nazisti responsabili dei più atroci crimini contro l’umanità.

L’antesignano di questi manager nazisti per Chapoutot è Herbert Backe, prediletto di Himmler, ministro dell’Agricoltura che teorizza e mette in pratica il “piano fame” che prevede di nutrire il Reich prelevando il grano da est e affamando così i territori conquistati, provocando la morte di almeno 30 milioni di persone. Backe non teorizza solo la carestia per la gloria del Reich, scrive infatti diversi manuali sull’efficienza dell’organizzazione, gli obiettivi, lo snellimento della burocrazia: utilizza parole come “risorse umane”, “elasticità”, “flessibilità”, “efficienza”, “obiettivo”, “missione”, così simili a quelle utilizzate oggi anche dalle presunte sinistre socialdemocratiche.


Ma il vero protagonista del saggio è senza dubbio Reinhard Hohn, giurista di diritto pubblico, che Chapoutot definisce senza remore «una sorta di Josef Mengele del diritto». Prima allievo di Carl Schmitt, poi suo più fiero avversario, proprio in nome del necessario abbattimento dello Stato in quanto nemico della comunità, degli eletti della razza e del popolo germanico, Hohn è il grande teorico della “comunità” e dello “spazio vitale”. Popolo eletto contro il complotto dello stato che vuole corromperne le origini, anche questo suona alquanto familiare al giorno d’oggi.

Amnistiato nel 1949, Reinhard Hohn diventa adepto del cerchio magico di Konrad Adenauer – primo cancelliere della Germania post-bellica – e nel 1953 direttore della società tedesca di Economia politica. È uno dei consiglieri economici più ascoltati da politici e imprenditori durante la ricostruzione e il boom. Nel 1956, Hohn comincia a insegnare all’accademia di Bad Harzburg, cuore pulsante del pensiero neoliberale tedesco che diventerà il modello di una vera e propria scuola di pensiero. Dal nucleo di quell’università, adagiata sulle montagne della Bassa Sassonia, usciranno infatti tutti i nomi chiavi dell’economia, del management e del marketing tedesco del secondo Novecento, nonché i quadri dirigenti di tutte le grandi compagnie come Audi, Bmw, Bayer, Krupp, Thyssen, Opel.

L’ex SS-Oberfurher Professor Dr. Reinhard Hohn assume paradossalmente ancora più potere e visibilità di quando era un altissimo funzionario del Reich e il suo modello di “management per delega di responsabilità” è studiato in tutto il mondo occidentale. Tra il 1945 e il 1995, Hohn scrive una cinquantina di testi, tra libri, saggi, manuali, compendi con titoli come Il pane quotidiano del management, La direzione di una società a responsabilità limitata, Tecnica del lavoro mentale, Gestire la routine, amare la creatività, ma anche La segretaria e il suo capo, nei quali lo spirito ideologico del nazismo è ancora più che presente.

Il metodo di Bad Harzburg è quello della “collaborazione” tra padrone e salariato, tra borghesia e proletariato, all’interno di una cornice assolutamente gerarchica e piramidale, un paradosso che Chapoutot non esita a definire “perverso”, come tutto ciò che era stato immaginato dal nazismo. È chiarissima, infatti, la matrice reazionaria di questo pensiero: «in opposizione alla società della lotta tra classi si trattava di realizzare l’avvento della comunità dei compagni di razza (Wolksgenossen)», come scrive Chapoutot.

Quello che preme a Hohn è la fine del conflitto tra capitale e lavoro, la pacificazione della guerra tra le classi in nome di uno scopo e una visione ideologica comune: la sostituzione del rapporto tra stato e cittadino con la comunità di popolo. L’ideale nazista da mettere in pratica non più con la guerra ma con i manuali di management. Le risorse umane al posto della Luftwaffe.

Non a caso tra i primi allievi di Hohn, in pieno Terzo Reich, c’è il giovane studente Hanns Martin Schleyer, poi capitano delle SS e nel dopoguerra grande dirigente d’azienda. Fino a diventare il capo della Confindustria tedesca. Noto per il rapimento e l’omicidio da parte della Rote Armee Fraktion, Schleyer è ancora oggi considerato l’eponimo della riorganizzazione della struttura del Terzo Reich nella Germania Occidentale nel secondo Novecento.

Poi arriverà la “terza via” clintoniana e blairiana, e parole d’ordine – accolte anche e soprattutto in Italia – come “elasticità”, “flessibilità”, “efficienza”, “obiettivo”, “missione” diventano patrimonio anche della nuova sinistra neoliberale. Fino a oggi, quando la logistica dei magazzini ci rimanda addirittura, con tutta la sua violenza, all’idea di “campo” come perfetta organizzazione del lavoro.
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