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RECENSIONE


mer 14 ottobre 2020

PRIMA CHE QUALCUNO VOLASSE SUL NIDO DEL CUCULO

“Ratched”, l’ultima fatica di Ryan Murphy (“American Horror Story”), racconta la genesi della spietata infermiera di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, tra grandi rimossi sul tema della salute mentale e rovesci oscuri dell’american dream. E se nella messinscena della serie tutto è perfetto, logico, misurato e intellegibile anche nella sua crudezza, là fuori, nella realtà che si racconta sana ed equilibrata, le cose non sembrano andare così bene.

“Angelo della misericordia” è un buffo soprannome, soprattutto se a portarlo è Mildred Ratched, il mefistofelico personaggio dell’infermiera di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Scaturito nel ‘62 dalla penna di Ken Kesey, poi approdato sul grande schermo nel ‘75 con l’attrice Louise Fletcher a interpretare l’infermiera e per la regia di Milos Forman, la celebre pellicola vince 5 oscar che contano: miglior film, regia e sceneggiatura, nonché miglior attore e attrice protagonista. Un bottino che nella storia del cinema è riuscito soltanto a Frank Capra con Accadde una notte (’34) e – molti anni dopo – a Jonathan Demme con Il silenzio degli innocenti (’91).

È dall’inizio dei Sessanta, quindi, che il personaggio di Mildred Ratched – la dark lady in candida uniforme, disumana e insensibile caporeparto dell’ospedale psichiatrico di Salem – terrorizza una generazione dopo l’altra, guadagnandosi a pieno titolo un posto tra i personaggi più temibili di sempre.

Del resto, si è ormai cristallizzato nell’immaginario collettivo il ruolo sadico di chi ha a che fare con la presunta cura degli indifesi: dal recentissimo personaggio che tutti abbiamo amato odiare della zia Lydia (The Handmaid’s Tale, la serie) alla magistrale interpretazione di Bette Davis nel ruolo di governante capace di trasformarsi da mite vecchina votata ai pargoli a spietato mostro omicida (The Nanny, 1965).

La “cura”, dunque, che si rovescia nell’orrorifico esercizio del potere. Ed è proprio il capolavoro di Seth Holt – Nanny, la governante – che ha contribuito a forgiare l’interpretazione della Mildred di Milos Forman nei lontani ’60 a partire da un romanzo in cui il concetto di follia viene (appunto) ribaltato di continuo. E alla cara Mildred reca omaggio anche Quentin Tarantino quando sceglie di far vestire i panni di un’infermiera-killer a Daryl Hannah in Kill Bill.

Insomma un must, un personaggio così potente da stuzzicare la creatività pop di Ryan Murphy che – con la serie Ratched – racconta le origini della spietata tiranna in un prequel che ha come protagonista Sarah Paulson (attrice della fortunata serie American Horror Story). La genesi risale al 1947, quando Ratched arriva nella California del Nord: ha trovato lavoro in un ospedale psichiatrico, una clinica in cui si effettuano esperimenti inquietanti sulla mente dei pazienti.

Si legge nella sinossi diffusa da Netflix: «In missione segreta, Mildred si presenta come un’infermiera modello, ma le cose cambiano velocemente, e lei si ritrova sempre più invischiata nelle dinamiche del sistema psichiatrico e delle persone che vi operano». Eppure i segreti sono sempre stati una specialità per Mildred, che grazie all’interpretazione della Paulson ci presenterà un personaggio inedito e glamour, dotato di un fascino assoluto, da aggiungere alle sue spietate capacità.

A coadiuvarla nella messinscena, tra i tanti talenti, ritroviamo una Sharon Stone da antologia e l’ex “palla di lardo” (Full Metal Jacket) Vincent D’Onofrio, governatore incompetente e misogino i cui disastrosi deficit sono compensati dalle machiavelliche doti dell’addetta stampa Briggs (Cynthia Nixon). Fedele al suo personaggio, la caratteristica principale di questo giovane “angelo della misericordia” è l’abilità manipolatoria, il saper agire sulle debolezze e sui sensi di colpa altrui: una burattinaia implacabile protetta da un viso al tempo stesso etereo e inquietante, quasi di ceramica.

Una burattinaia dei corpi e delle emozioni, una burattinaia delle esistenze. Ammantata di una fotografia patinata, musiche hitchcockiane e lussuosi costumi d’epoca in cui predominano le sfumature di verde (ancora un ribaltamento di senso nel colore delle piante, del vigore e della speranza), la nuova serie creata da Ryan Murphy – e scritta quasi per intero dall’esordiente Evan Romansky – affascina per la sua straordinaria perizia nella ricostruzione storica e nella simulazione di una casa di cura di lusso di fine anni Quaranta, ma soprattutto nel restituire l’altra faccia del brillante modello societario made in Usa: su cui aleggiano abilismo e ferocia.

Nella clinica, emblematica allegoria della società, tutto ciò che non è convenzionale – dall’orientamento sessuale all’indole personale – è aberrazione. Così i bambini “fantasiosi” vengono sottoposti a lobotomia per contenerne gli eccessi creativi; terapie ipnotiche vengono utilizzate per sedare l’animo di chi mostra troppe personalità; e si assiste agli albori della “terapia di conversione”, applicata alle donne che amano le donne (da donne e uomini che non le amano).
È l’esercizio del potere sui corpi e sulle menti, ben noto a quell’occidente che si è sempre propagandato very democrat, in auge ben prima che qualcuno volasse sul nido del cuculo e in voga ancora oggi – benché sotto mentite spoglie.

Con una protagonista/antagonista femminile a condurre la narrazione, l’ultima fatica di Murphy – pur non raggiungendo le vette di American Horror Story – veste come un abito sartoriale e gli va riconosciuto il merito di far riflettere sul grande rimosso (in tema di salute mentale) della società occidentale e sull’altra faccia (oscura) dell’american dream. E se nella messinscena di Ratched tutto è perfetto, logico, misurato e intellegibile anche nella sua crudezza, là fuori, nella realtà che si racconta sana, le cose non sembrano andare così bene.
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