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RECENSIONE


lun 18 gennaio 2021

THE UNDOING SVELA QUELLO CHE SAPEVAMO GIÀ [NO SPOILER]

Non c’era bisogno di riportare l’America alla sua grandezza passata, perché l’America è sempre stata e sempre sarà prigioniera delle sue manie di grandezza. Questo è stato l’errore più grande di Donald Trump. Questo sembra dirci, involontariamente e suo malgrado, una serie tv come “The Undoing”.

Non c’era bisogno di riportare l’America alla sua grandezza passata (Make America Great Again) perché l’America è sempre stata e sempre sarà prigioniera delle sue manie di grandezza. Questo è stato l’errore più grande di Donald Trump. Questo sembra dirci, involontariamente e suo malgrado, una serie tv come The Undoing (Le verità nascoste, da noi su Sky e Now Tv), già tra le più viste di sempre, ma sopravvalutata come quattro anni di presidenza Trump.

Peccato, perché le premesse per un prodotto di altissimo livello c’erano tutte. Forse non nella regia a tratti leziosa e didascalica di Susanne Bier, premio Oscar per il miglior film straniero con Hævnen (2010) e dietro la macchina da presa in The Night Manager (2016), la serie tratta da un romanzo del compianto maestro John Le Carré. Ma almeno per la sceneggiatura di David E. Kelley, che ha scritto Big Little Lies (due stagioni, 2017 e 2019), il ferocissimo e meraviglioso melodramma a stelle strisce cui The Undoing cerca di aggrapparsi, invano.

Qui infatti non bastano gli splenditi abiti di Nicole Kidman, disegnati dalla costumista Signe Sejilund, i meravigliosi appartamenti dell’Upper East Side newyorchese, gli interni di design e gli esterni che vorrebbero richiamare quei dipinti di William Turner su cui le telecamere indugiano pesantemente nelle scene con Donald Sutherland. Mancano completamente l’intelligenza, il mordente, la cattiveria e la ferocia di Big Little Lies. Tutto è ridotto a pura descrizione. E quanto c’è di interessante è proprio quanto manca, quanto non si riesce a mettere in scena, restando prigionieri della proprie manie di grandezza.

Nonostante i grandi nomi dietro le quinte – Bier e Kelley, appunto – e i grandissimi nomi davanti – Nicole Kidman, Hugh Grant, Noma Dumezweni, Donald Sutherland, tra gli altri –, tutto si riduce al solito pastiche midcult, al prodotto patinato e ben confezionato, come gli arredamenti indossati dai protagonisti, che serve a titillare la boriosa e presunta intelligenza della piccola borghesia intellettuale. Salvo però non azzeccare il finale, cosa su cui nemmeno la petite bourgeoisie è disposta a lasciar correre. Vedi le contrariate e infastidite recensioni su «The Guardian» e «The New York Times».

No spoiler. Anche se qui ci interessa poco della trama, di chi sia l’assassino (l’omicidio avviene dopo dieci minuti della prima puntata) e di come venga svelato nel finale. Se da un lato bastava sapere che la serie era tratta dal libro You Should Have Known di Jean Hanff Korelitz o ascoltare la canzone cantata nella sigla da Nicole Kidman (Dream a Little Dream of Me) per avere un’idea della soluzione del mistero, non c’è dubbio che questa sia presentata nel peggiore dei modi e abbia uno spiacevole effetto retroattivo: la recitazione dei protagonisti da egregia si trasforma in macchiettista. Ma, come già detto, non è questo il punto.

Più che «Le verità non dette» del titolo italiano, ci interessa qui il non detto della trama e della mise en scene. Tutto quello che è rimasto fuori, che non si è riuscito, potuto, voluto includere. L’inconscio inespresso e inesprimibile di una serie tv che è stata vista da decine di milioni di spettatori nel mondo assurgendo allo status di cult. È nel “non detto”, nel “non visto”, che tutto si spiega, e assume senso: The Undoing è la perfetta rappresentazione di uno spettacolo occidentale che era e sarà sempre trumpiano, oltre Trump, nonostante Trump.

Il cuore del melodramma è sempre stato la lotta di classe, come aveva perfettamente compreso Reiner Werner Fassbinder. I capolavori di Douglas Sirk, Billy Wilder e Joseph L. Mankiewicz erano violentissimi pamphlet economici e sociali scritti da persone che scappate dagli orrori della dittatura nazista si trovavano intrappolati nell’orrore della Hollywood maccartista: la recitazione, i costumi, gli arredi, la fotografia, la posizione della telecamera, tutto serviva a rendere la pericolosa claustrofobia dei presunti valori borghesi democratici, non così distanti da quelli da cui erano fuggiti.

In The Undoing invece questo lavoro di critica sociale è talmente pedante ed eccessivo – è pieno di frasi esplicite sull’ipocrisia della vita borghese, sul vivere costretti nelle apparenze, sulla sofferenza che deve essere taciuta e sulle contraddizioni che devono essere pacificate, sulla famiglia che deve restare unita nonostante tutto – che si smonta da solo. Come anche la rappresentazione dell’altro da sé, in termini di classe e di linguaggio: il pietismo con cui è messa in scena la famiglia povera, l’indugiare pruriginoso sulle forme e sul desiderio carnale del proletariato, risultano patetiche e involontariamente comiche. Ma ad essere seppellito da un risata è The Undoing stesso.

È questo che ci racconta, suo malgrado, questa acclamata serie tv. Che le ingenuità più grandi di Donald e Ivana Trump, ovvero di Jonathan e Grace Fraser, ovvero di Hugh Grant e Nicole Kidman, non sono stati tanto l’incapacità politica, le psicopatologie fasciste, i deliri di impotenza, i muri innalzati, i bimbi separati dalle madri nei campi di concentramento per migranti, le affinità elettive con il KKK.

No, il loro unico errore è stato dire che avrebbero riportato l’America alla sua grandezza di un tempo, quando all’America, e all’occidente, le manie di grandezza non sono mai passate. Neppure per un attimo.
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