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lun 25 gennaio 2021

STATI UNITI AL BIVIO: RESTAURAZIONE O RIVOLUZIONE

Ritorno agli accordi di Parigi sul clima, via il “muslim ban”, stop al muro anti-immigrazione. La raffica di decreti presidenziali del neo-eletto ha voluto segnare immediata discontinuità con l’era Trump. Ma Joe Biden lo sa, non basterà crogiolarsi nell’evidenza di essere migliore del peggior presidente di sempre, o vaneggiare di riportare ancora gli Stati Uniti a un’età dell’oro sconfessata dai fatti. Se sarà ricostruzione, occorrerà ricominciare da nuove fondamenta.

Donald Trump leva il disturbo sull’elicottero presidenziale e nel giro di poche ore l’America che piace e si piace riprende il possesso degli appartamenti presidenziali di Washington.

Nemmeno Aaron Sorkin, che meglio di chiunque altro ha alimentato il mito mediatico degli States nell’epoca della serialità mainstream, avrebbe potuto sceneggiare un finale di stagione più evocativo: il vecchio miliardario newyorchese alt right che batte in ritirata tra le palme della Florida e il vecchio “Average Joe” Biden che riprende il filo della grande epopea a stelle e strisce.

Ed è subito florilegio di «Let’s Get Loud» portoricani, sermoni e poesie in quota Black Lives Matter e appelli per un ritorno alla «decency» perduta, che tanto aveva accomodato la maggioranza dei White-liberal fino agli sgoccioli dell’amministrazione Obama.

Ma la débâcle del 6 gennaio, l’assalto armato del parlamento portato da migliaia di “patrioti” bianchi trasmesso in mondovisione davanti a un pubblico attonito, ha rappresentato un’epifania troppo grande per essere spazzata sotto al tappeto del solito entusiasmo very Democrat.

Nonostante lo stesso Biden abbia ripetuto costantemente che «this is not who we are», “noi non siamo così”, non è più possibile negare l’evidenza della cancrena. E non è auspicabile, secondo molti commentatori, rimandare ancora l’indagine delle cause profonde: occorre fare esami e andare ad agire non più solo sui sintomi, ma sulla malattia.

Scrive Osita Nwanevu su «The New Republic»: «La nostra storia, come Paese, è stata sanguinosa e litigiosa. Violenza e divisioni sono stati la norma. La tranquillità domestica degli anni fino ai primi Settanta è stata solo uno strano interludio, apparentemente arrivato alla fine. […] Abbiamo un’economia costruita su straordinarie e abominevoli iniquità di ricchezza e potere, che lascia nelle fredde mattine di gennaio migliaia di persone nella nostra capitale e nelle nostre città in tutto il Paese alla ricerca di calore. Occorre riordinarla. Affrontiamo una crisi ecologica che sconvolgerà e destabilizzerà la vita americana dieci volte più che altri dieci anni di Donald Trump. Facciamoci i conti. Siamo governati da istituzioni politiche distorte che, appositamente, garantiscono ad alcuni americani più potere che ad altri. Rifondiamole».

Il tutto sullo sfondo di una pandemia che negli Stati Uniti ha fatto scorribande senza eguali: quattrocentomila morti, il bollettino parziale, e una crisi economica e occupazionale da far impallidire il crack del 1929.

Che la ricomposizione di tale disastro sia ora affidata al settantottenne cattolico Joe Biden ha un che di biblico. E, per una volta, in qualche modo giustifica l’infarcimento di riferimenti cristiani che scandisce la liturgia del giuramento presidenziale americano, formalmente la più grande democrazia laica del mondo.

Più che all’obbligatoria benedizione divina del Paese e delle truppe a fine discorso, dove riecheggia ancora il Dio tifoso e condottiero dell’Antico Testamento, l’architettura retorica del presidente Biden sembra rifarsi a più tarde autoanalisi del pensiero cristiano: tra le righe, si scorgono i precetti della Teologia della Croce che Papa Benedetto XVI riassumeva nella «rinuncia alla propria superiorità e scelta della stoltezza dell’amore».

La stessa stoltezza che Biden non nasconde in uno dei passaggi dedicati all’unità perduta: «So che parlare di unità potrà sembrare ad alcuni una stupida fantasia in giorni come questi».

Con quattro decenni passati tra i banchi del senato, Biden incorpora alla perfezione l’uomo pio, mite e delle larghe intese che una parte di Stati Uniti ritiene sia necessario per un mandato all’insegna della restaurazione.

Ricucire il tessuto sociale dilaniato da quattro anni di euforia intollerante trumpiana e, al contempo, rammendare la rete di alleanze internazionali riposizionando gli Stati Uniti al centro della galassia atlantista.

Dal lato interno, gli Stati Uniti affrontano una disgregazione mai così palese dalla Guerra Civile. Come maneggiare una materia tanto incandescente e inedita nella storia recente americana è un dilemma che indica percorsi mai intrapresi all’interno dei confini USA.
Anne Applebaum, sul The Atlantic, fotografa la frattura con tre dati: «Nel mese di dicembre, il 34% degli americani ha detto di non credere al risultato delle elezioni del 2020. Più di recente, il 21% ha detto di sostenere o di sostenere fortemente l’attacco al Capitol. Fino alla scorsa settimana, il 32% diceva ancora ai sondaggisti che Biden non era il vincitore legittimo [delle elezioni]».

Secondo Applebaum, due poli contrapposti talmente distanti tra loro che difficilmente potranno essere riavvicinati applicando ricette “americane”. Sarebbe meglio farsi un bagno d’umiltà e provare a ispirarsi a qualcosa di diverso, fino a oggi nemmeno immaginabile.

E invece: «Ecco un’altra idea: lasciar perdere il tema [dell’unità nazionale] e cambiare argomento. Questo è il consiglio contro-intuitivo che sentiremmo da persone che hanno studiato l’Irlanda del Nord prima dell’accordo di pace del 1998, o la Liberia, o il Sudafrica, O Timor Est – Paesi dove gli oppositori politici si consideravano a vicenda non solo nell’errore, ma malvagi; Paesi dove la gente aveva genuinamente paura quando l’altra parte saliva al potere; Paesi dove non tutti i dissidi possono essere risolti e non tutte le differenze appianate.
Negli anni prima e dopo l’accordo di pace in Irlanda del Nord, per esempio, numerosi progetti di “peacebuilding” non provavano a organizzare discussioni politiche civili tra cattolici e protestanti, non parlavano proprio di politica. Invece, hanno costruito dei community center, hanno messo su le luci di Natale, hanno organizzato incontri di formazione del lavoro per i giovani».

Più realisticamente, il rischio della dottrina contro-intuitiva del parliamo d’altro potrebbe riversarsi sull’agenda estera, sovrapponendosi alla ridefinizione degli equilibri geostrategici degli Stati Uniti. L’incognita più urgente continua a essere l’Iran, difficilmente riconducibile entro le maglie del programma di denuclearizzazione iniziato dall’amministrazione Obama e totalmente smantellato da Trump.

Dal buon esito degli sforzi diplomatici in tal senso, ampiamente anticipati dalla stampa americana, dipenderà molto l’approccio con cui Biden cercherà di riposizionare Washington al centro delle trame politiche dell’Asia Occidentale, specie rispetto allo scellerato “Deal of the Century” tra Usa, Israele e petrolmonarchie della penisola araba.

C’è poi sul piatto il rapporto con la Cina, destinata a emergere ancora più incontrastata come forza egemone economica e geopolitica in un mondo post-Covid tutto da ricostruire, in una partita che gli Stati Uniti non possono osservare da spettatori.

Se la tentazione di limitarsi a un reboot del Paese ritornando al “glorioso” passato pre-Trump è forte, sperperare l’operazione di denuncia dei mali atavici degli Stati Uniti portata avanti in questi anni da Black Lives Matter e dagli ambienti radicali antifascisti è l’errore più grande in cui l’amministrazione Biden rischia di incappare nel futuro prossimo.

La raffica di decreti presidenziali con cui Biden ha inaugurato la propria presidenza – ritorno agli accordi di Parigi sul clima, via il «muslim ban», stop al muro anti-immigrazione, tra gli altri – ha voluto immediatamente segnare la discontinuità con l’era Trump.

Ma, e Biden lo sa, non basterà crogiolarsi nell’evidenza di essere meglio del presidente peggiore di sempre o riportare gli Stati Uniti a un’età dell’oro sconfessata dai fatti.

Se sarà ricostruzione, occorrerà ricominciare da nuove fondamenta.
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