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RECENSIONE


mar 6 dicembre 2016

IL SERVER È UN CAMPO DI BATTAGLIA

Non sarete tanto ingenui da credere che quella telematica sia una democrazia? Ogni server è un campo di battaglia. Distribuito in Italia da Bim e appena uscito in sala, "Snowden" non racconta la storia di un hacker o di un hacktivist alla Anonymous, benché il richiamo etico a divulgare gli arcana imperi costituisca una corrispondenza significativa. Il mettere in comune conoscenze interdette ai più consente di forzare i paragoni e associare Snowden a quell’Aaron Swartz che violò l’archivio del MIT condividendo liberamente materiale scientifico a pagamento e che scelse il suicidio davanti alla repressione giudiziaria di cui era stato fatto oggetto. Al di là delle associazioni più spregiudicate, di certo Edward Snowden non è la versione non fiction di un sovversivo alla Mr. Robot. Non odia le multinazionali e non vuole rovesciare l’ordine costituito

«Non sarai tanto ingenuo da credere che viviamo in una democrazia, vero Buddy?» chiede il mitico Gordon Gekko al giovane trader Bud Fox in Wall Street di Oliver Stone.

Correva il 1987, il vento gelido del reaganismo aveva spazzato gli States da una costa all’altra piegando la resistenza della working class, mentre a Manhattan si compiva la nuova accumulazione finanziaria e la produzione di dollari a mezzo di dollari diventava un’attività a ciclo continuo. Erano i giorni ruggenti dello yuppismo e degli status symbol, delle macchine di grossa cilindrata, delle banconote nel naso e delle teste piegate su autostrade di polvere bianca. Erano i giorni sfavillanti narrati da Jay McInerney ne Le mille luci di New York.

Quasi trent’anni dopo, quella domanda si ripropone: diversa nei termini, uguale nella sostanza. Questa volta in gioco non ci sono i meccanismi finanziari che disintegrano l’economia reale e non si tratta più dell’insider trading della Wall Street targata anni Ottanta.

Ma sempre due sono: un maestro e un apprendista. Solo che ora nei panni del perfido mentore Gekko c’è  Corbin O’Brian, cinico istruttore della Central Intelligence Agency, e al posto di Bud Fox troviamo Edward Joseph Snowden, classe 1983, ex-programmatore informatico e agente della cybersicurezza per conto della CIA e della NSA, la potente Agenzia per la sicurezza nazionale.

C’è un’altra differenza: Wall Street era fiction, altamente realistica e fortemente critica, ma pur sempre fiction. La storia di Edward Snowden, invece, è vera dall’inizio alla fine e già racconta nella chiave del documentario da Laura Portias con Citizenfour (2015).

Poi c’è una costante: oggi come ieri, dietro la macchina da presa c’è  sempre Lui, il vincitore di due premi Oscar, il regista di Platoon che, con Nato il quattro luglio e JFK, ha sondato gli abissi più cupi del Novecento americano: William Oliver Stone.

Un altro elemento che non cambia è la posta del narrare: ovvero, quel filo nero che dal complotto per uccidere Kennedy alle forme di controllo pervasivo d’inizio secolo, passando per i dispositivi finanziari del reaganismo, stringe un cappio intorno alla più importante democrazia del pianeta Terra, sollevando inquietanti interrogativi sulla natura stessa della libertà.

La questione in ballo è sintetizzata alla perfezione da Corbin: «La maggioranza degli americani non vuole la libertà, ma vuole la sicurezza». Security: ecco la parola magica che, da una parte all’altra dell’Atlantico, in Europa e in America, evoca esplicite – o sotterranee – ridefinizioni della costituzione materiale nei sistemi democratici: tanto sulle dorsali della rete telematica, quanto nelle pieghe più profonde della società.
Distribuito in Italia da Bim e appena uscito in sala, Snowden non racconta la storia di un hacker o di un hacktivist alla Anonymous, benché il richiamo etico a divulgare gli arcana imperi costituisca una corrispondenza significativa. Il mettere in comune conoscenze interdette ai più consente di forzare i paragoni e associare Snowden a quell’Aaron Swartz che violò l’archivio del MIT condividendo liberamente materiale scientifico a pagamento e che scelse il suicidio davanti alla repressione giudiziaria di cui era stato fatto oggetto. Al di là delle associazioni più spregiudicate, di certo Edward Snowden non è la versione non fiction di un sovversivo alla Mr. Robot. Non odia le multinazionali e non vuole rovesciare l’ordine costituito.

La frattura di cui narra il film di Stone è interna alla cultura conservatrice degli USA. Snowden è «un conservatore intelligente», come lo definisce la fidanzata Lindsay di orientamento progressista e ostile all’amministrazione di Bush The Second, l’esportatore della democrazia in Afghanistan e Iraq.

Edward nasce a Elizabeth City, nello stato del North Carolina, in una famiglia americana che da tre generazioni onora e serve il Paese. Incarna un sincero patriottismo che lo spinge, prima, ad arruolarsi senza successo nei corpi speciali e, poi, a diventare – in virtù delle sue straordinarie doti intellettuali – un quadro informatico per le strutture d’intelligence.

Ma sulla vita di Edward si allunga l’ombra degli aerei di linea che, la mattina dell’undici settembre  2001, solcarono a una quota troppo bassa il cielo di New York, mentre gli Stati Uniti sembrano dispersi nella nube che – quello stesso giorno – risucchiò Manhattan. La ferita di 9/11 sanguina ancora. L’Emergenza regna. Il nemico incombe. Snowden è convinto di dare il suo contributo alla causa. Corbin lo dice chiaramente. «Tocca a voi evitare che si ripeta un altro undici settembre» è il senso della lezione che impartisce alle reclute. Lo dice, sì: ma non ci crede.

Edward, invece, ci crede davvero che ogni server è un campo di battaglia e che ogni informazione acquisita preventivamente possa evitare una strage. Ci crede finché non scopre che la guerra al terrore è solo la cortina dietro cui opera la mega-macchina del controllo totale, un gigantesco ingranaggio che può trovare tutto ciò che vuole, quando vuole, setacciando chat e mail o impossessandosi di webcam anche a computer spento, violando dettami costituzionali e garanzie a tutela del cittadino.
«La segretezza è sicurezza e la sicurezza è vittoria» recita il motto dell’intelligence.  Ma la vittoria di chi? E contro chi?
Se le polveri del dubbio sono poste, c’è bisogno di una scintilla perché deflagrino e trasformino la crisi in azione, e il rovello in gesto di disobbedienza. L’innesco dell’esplosione è la consapevolezza che neppure la discontinuità politica rappresentata da Barack Obama è in grado di fermare – o contenere – il programma di sorveglianza di massa. La diserzione di Edward nasce anche dall’inquietante riproporsi di una domanda che risuonò al secondo processo di Norimberga: «Cosa succede quando applichi gli ordini pur sapendo che quegli ordini sono sbagliati?»

La sottile relazione tra i funzionari del regime nazista dopo la caduta di Berlino e gli uomini dell’intelligence americana all’indomani dell’undici settembre suscita diversi dubbi in merito alla tenuta della democrazia negli anni Zero.

Mettendosi in gioco per dare la possibilità ai cittadini di avere ancora una scelta, aprendo il dibattito pubblico sulla sorveglianza di massa imposta dal Governo, Edward Snowden diviene il tipo di personaggio a cui Oliver Stone ha dedicato gran parte del suo lavoro: un americano capace di ribadire i principi costituzionali del Paese in cui crede e non del Paese in cui vive.

Si perde un’occasione a leggere Snowden soltanto come denuncia di quei meccanismi di sorveglianza capillare che sembrano realizzare le previsioni distopiche dell’Orwell di 1984. Non basta limitarsi alla presa d’atto che BIG BROTHER IS WATCHING YOU. Non è sufficiente interrogarsi sulla pervasività del controllo esercitato dalle strutture di pubblica sicurezza. Occorre estendere l’interrogativo alle pratiche di costruzione del consenso al tempo degli algoritmi, dei big data, dei codici sorgenti proprietari e della retorica sulla democrazia diretta a colpi di clic. Al di là dell’uso delle tecnologie da parte del potere, è lo statuto stesso della politica a perdere i suoi connotati di autonomia e a ridefinirsi in un rapporto sempre più stretto con le tecnologie informatiche e digitali, i social network, la comunicazione virale, il ruolo degli influencers e le pratiche di marketing non convenzionale. Se la guerra era la continuazione della politica con altri mezzi, oggi la politica è la continuazione dell’agire comunicativo in altri ambiti. Senza cedere a posizioni apocalittiche, occorre ricordare che le rete è un luogo ambivalente, in cui alle pratiche di resistenza, liberazione e condivisione orizzontale corrispondono sempre, per contrasto, precise gerarchie di potere.
Non sarete tanto ingenui da credere che quella telematica sia una democrazia?

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