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RECENSIONE


ven 17 gennaio 2020

KEN LOACH CONTRO IL LAVORO

L’ultimo film di Ken Loach, “Sorry, we missed you”, è l’ennesimo atto d’accusa al sistema capitalistico. Ma stavolta, rincarando la dose di “Io, Daniel Blake”, il regista britannico dipinge un contesto societario impietoso nella sua irreversibilità, all’insegna del system failure e in cui è impossibile persino intravedere un orizzonte progressivo di conflitto e rivendicazione. Forse.

UK, oggi. Ricky, Abby e i loro due figli – l’adolescente Sebastian e l’undicenne Liza Jane – vivono a Newcastle, dove Andy Capp non abita più. Abby fa assistenza a domicilio per persone anziane e disabili, Ricky ha fatto il muratore, l’idraulico, il giardiniere e un’altra mezza dozzina di impieghi.

Entrambi si sbattono senza respiro, eppure i soldi per comprarsi una casa rimangono un miraggio. Almeno fino a quando Ricky non sembra aver trovato la svolta giusta: “mettersi in proprio” lavorando come corriere per una società di logistica. Maloney, il capo, al colloquio gli ha spiegato che da loro funziona tutto in completa autonomia, scegliendo turni e disponibilità, e soprattutto che arricchirsi è solo una questione di risolutezza: più consegne fai, spaccando sempre il minuto, più guadagni.

Ricky allora convince Abby a vendere la loro unica macchina per comprarsi il furgone, torna da Maloney, e comincia. Ma prima di partire, il gesto di un collega che gli allunga una bottiglietta di plastica vuota sussurrandogli «ti servirà», suona come la sirena di un miserabile destino.

Ricky scoprirà presto di non avere neanche il tempo per pisciare, che se vuole saltare un turno deve trovare prontamente un sostituto o gli scaleranno i soldi dalle provvigioni, e che consegnare merci nell’epoca della gig economy è un fottuto Vietnam.

L’ultimo film di Ken Loach, Sorry, we missed you, è l’ennesimo atto d’accusa al sistema capitalistico. Ma stavolta, rincarando la dose di Io, Daniel Blake, il regista britannico dipinge un contesto societario impietoso nella sua irreversibilità, all’insegna del system failure e in cui è impossibile persino intravedere un orizzonte progressivo di conflitto e rivendicazione.

La ragione di Maloney

Il personaggio del direttore di Ricky, un Kapò al servizio delle big platform, è l’emblema di un mondo in cui la ragione neoliberista si è saldata ai nuovi dispositivi di controllo, il tutto suffragato dalla retorica della gamification.
Scrive Roberto Ciccarelli nel suo ultimo libro Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (DeriveApprodi, 2018):

«la violenza prodotta dall’alienazione della forza lavoro (oggi) è rovesciata in un impensabile opposto: il gioco. Pur essendo sempre più povero, e sganciato da una retribuzione continua, il lavoro è inteso come un passatempo, un’erogazione aristocratica del tempo di vita senza fini di lucro, una formazione continua in vista di un reddito che non arriverà mai».

E ancora:

«il lavoratore è associato alla figura del giocatore, non a quella del prestatore d’opera o del cittadino titolare di un contratto di lavoro, diritti e tutele. Questa mentalità si è riversata nel lavoro concreto e in quello produttivo e ha modificato le stesse nozioni di lavoro produttivo/improduttivo. [...] La ludificazione del lavoro è un altro modo di occultare l’esistenza di un rapporto di lavoro, legittimando l’espropriazione del valore prodotto da un’attività produttiva. Nel lavoro-gioco il datore di lavoro vince sempre e il lavoratore perde due volte».

La ragione di Maloney ha vinto, Ricky è destinato a perdere.

I figli

Isolati nelle lotte e deprivati a livello sistemico di ogni spirito di solidarietà, siamo dunque destinati a soccombere? Forse no.
È nei personaggi del giovane Seb e della piccola Liza Jane che Loach lascia intuire un barlume di speranza. Il primo è un adolescente all’apparenza problematico, si dà ai furtarelli e al graffitismo per esprimere forme di protesta che sembrano essere ormai fini a sé stesse. La seconda è una bambina che, nello strenuo tentativo di mediare una crisi familiare irrecuperabile, ricorre a trucchetti quali nascondere le chiavi del furgone al padre.

Tuttavia, nel progressivo darsi di un contesto logoro e delirante – in cui Ricky si indebita e auto-sfrutta a ritmi massacranti nella pia illusione di monetizzare i suoi sforzi, e Abby deve fare i conti con un disumano smantellamento del welfare state sentendosi dire dai suoi datori di lavoro che ogni minuto dedicato in più ai bisognosi è un punto in meno sul fatturato –, ecco che i due figli si manifestano agli occhi dello spettatore tutt’altro che problematici, e al contrario gli unici detentori di un briciolo di saggezza.

La chiave rubata da Liza Jane e la replica di Seb che – richiamato a un fatuo senso di responsabilità – obietta dicendogli che non ha alcuna intenzione di fare la fine del padre, rappresentano un’istanza di sottrazione ferrea e inoppugnabile dalle logiche di un sistema imbarbarito e schiavizzante. È la ragione dei figli, che oppone sabotaggio e rifiuto del lavoro a quella di Maloney.

Sono le generazioni del Fridays for future che, al netto delle contraddizioni insite in ogni movimento, come dice Bifo dimostrano di aver scoperto che «non c’è nessun modo di invertire la tendenza verso il soffocamento se non quello di abolire la fabbrica, il processo che genera il soffocamento. Un processo identificabile nella successione crescita-competizione-profitto».

Quei furgoni bianchi

Tra le scene iniziali del film ce n’è una che è un’incredibile mise en abyme della deriva distopica su cui si stanno rimodellando le odierne megalopoli. Ricky sta passando in rassegna un’interminabile schiera di furgoni bianchi, con l’obiettivo di acquistarne uno, per lavorarci.
Una fotografia asciutta e inesorabile ritrae un protagonista semi-imbambolato – su cui sembra gravare una sindrome di Stoccolma in stato avanzato – nell’atto di scegliersi la sua futura prigione ambulante. Sullo sfondo, dei palazzoni a vetri che richiamano le city dell’alta finanza e, a fianco, un’immensa gru con la sua catena penzolante nel vuoto.

In effetti la pellicola proseguirà immergendo lo spettatore nella folla corsa al “last mile”, cioè la competizione forsennata delle società di delivery che sta riplasmando le metropoli, sotto tutti gli aspetti. I magazzini della logistica combattono per avvicinarsi il più possibile ai “centri” delle città, per accaparrarsi gli itinerari privilegiati sui cui viaggiano i “pacchi prioritari” che fruttano di più. E le conseguenze di queste perverse accelerazioni sono sotto gli occhi di tutti: condizioni lavorative terrificanti, congestionamento del traffico pervasivo.

Giocando col titolo del film, nella recensione di Carmilla si legge: «Sorry, Maloney doveva essere gambizzato». Se da una parte non si può dar torto a chi rivendica la necessità di un ritorno radicale al conflitto, dall’altra forse l’inedita assenza di organizzazione e lotte nell’immaginario working class delle ultime fatiche di Loach ci suggerisce che combattere, oggi, è anche e soprattutto sottrarsi e mettere in discussione, in senso ontologico, lo stesso lavoro, auspicandone la fine.
#ken loach#sorry we missed you#gig economy#lavoro

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