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RECENSIONE


lun 7 ottobre 2019

Joker: sarà una risata che li seppellirà

Tutto è una maschera, tutto è ambiguo. Come la risata. E anche la comicità viene letta come un artificio codificato: è la società che ha scelto per voi come dovete ridere. Ma il Joker di Todd Phillips non può farlo, non può ridere a comando, perché non possiede i “tempi comici” dettati dalla farsa in cui viviamo.

Il volto si trasforma, il viso si deforma. I dodici muscoli necessari si contraggono e si allentano in una laboriosa opera di alterazione fisiognomica. D’un tratto si distorcono, tremendi. Sulla faccia appare dapprima un sorriso, poi un ghigno. Infine irrompe la risata.

Il corpo smunto, smagrito, tumefatto e sfigurato di Joaquin Phoenix si sublima in questa risata liberatoria, allo stesso tempo docile e aggressiva, che ci accompagna per tutto il film.
Non si può ridere, ammonivano i monaci benedettini che celavano – nelle viscere della loro labirintica biblioteca – il secondo libro della Poetica di Aristotele, che del riso e del suo potere trattava. Non si può ridere perché la risata trasforma il corpo, lo rende indocile, non più sottomettibile. La risata si fa beffe dell’ordine costituito e lo sovverte.
La risata è l’arma più potente da scagliare contro i padroni e contro gli dei. Come apprende la popolazione di Gotham City in questa furiosa e scomposta presa di coscienza di classe che fa di Joker (Todd Phillips, 2019) un film per niente populista e per molti versi rivoluzionario.

Il popolo non è un significante vuoto, da riempire a piacere, è una classe sociale soggiogata dal “fascista” Thomas Wayne – qui nel ruolo di padre che il protagonista Arthur Fleck non ha mai avuto, rimanendo un ragazzo dalle origini oscure, senza passato e con un futuro negato. Arthur scoprirà che “Happy”, grazioso soprannome datogli dalla madre, è solo una maledetta bugia. E solo indossando una maschera, potrà avere davvero consapevolezza di sé.
La maschera di Joker, con quella risata dilaniata e dilaniante, è il passamontagna delle rivolte urbane: dal ‘77 italiano ai riot di Hong Kong.
La rivoluzione non è un pranzo di gala, è un immenso carnevale, osceno e sacrilego. La maschera di Joker è la maschera di Joaquin Phoenix, che non ha bisogno di indossarne nessuna per recitare la morte al lavoro sull’attore, che è l’essenza del cinema.

Perennemente inquadrato, è l’unico corpo del film. I suoi lineamenti distorti e tragicamente clowneschi, sono l’unica verità in un mondo dove non esiste nessun altro. Non ci sono uomini: solo freaks e mostri, poliziotti e fascisti. Non ci sono donne: solo psichiatre e madri castratrici. Ci sono forse un altro uomo e un’altra donna ma sono più probabilmente allucinazioni, individuali o collettive. C’è forse un bambino, il suo nemico. Ma potrà mai un bambino essere un nemico?

Il corpo del bambino è il corpo del supereroe a venire. È il corpo fermo, immobile, serio. Non ride mai. Il corpo di Joker è il corpo danzante e il corpo martoriato, il corpo comico e il corpo tragico. È il corpo di Charlie Chaplin e il corpo di Buster Keaton. È un corpo ambivalente come lo è il carnevale: gioia e dolore, vita e morte.
Il carnevale, che è “la festa della morte e del rinnovamento”, per Joker diventa “la speranza che la morte abbia più senso della vita”. Perché la vita è la maschera della morte, la risata del pianto, la felicità della disperazione. E viceversa. Una risata che vi seppellirà.

Tutto è una maschera, tutto è ambiguo. Come la risata. E anche la comicità viene letta come un artificio codificato: è la società che ha scelto per voi come dovete ridere. Ma il Joker non può farlo, non può ridere a comando, perché non possiede i “tempi comici”. Ha dunque un disturbo della personalità, il Joker, o è semplicemente l’ultimo degli innocenti in un mondo dominato da nuovi odiatori?

Il suo volto è reale o artefatto? La maschera esiste o è Arthur l’unico ad esserne privo? Tutto si gioca intorno al tema dell’artificio, dove anche i ruoli di “eroe” e “antieroe” si mescolano e sovrappongono, finché svaniscono i confini in cui far rinascere la figura dell’eroe tragico, rediviva maschera del contemporaneo. Tutto è maschera e c’è una maschera per tutto.

È una maschera la televisione, che ogni cosa riprende e tutto sussume. Tutto decide e indirizza, come un immenso social network che proietta la New York/Gotham degli anni ‘70 in una smart city che più attuale non si può. La “città-panottico” è un gigantesco ospedale psichiatrico. La società dello spettacolo è la maschera del reale, perché è l’unica realtà che ci è data conoscere.

È una maschera il cinema, un inganno, un travisamento. Una bugia. È il racconto di tutti i racconti che ci sono già stati in un turbinio di citazioni cinefile che partono da L’uomo che ride di Paul Leni e arrivano agli zombie di George Romero, attraverso la metropolitana dei Guerrieri della Notte e i corridoi di Carpenter, i piani sequenza di De Palma e gli specchi di Taxi Driver. I riferimenti a Hitchcock e Kubrick. Gli omaggi a Nolan e Tim Burton, che questo Joker hanno immaginato e preparato.
È maschera il cattivo, l’antagonista. In un mondo in cui i supereroi sempre positivi possono solo essere la maschera individuale che nasconde e cela l’ambizione e il narcisismo, la maschera del loro nemico è quella collettiva del popolo che si risveglia e prende coscienza di sé. È la maschera dei mille nomi e dei mille volti del protagonista di Q di Luther Blissett, che agita incessante insurrezioni in quello stesso medioevo in cui i monaci benedettini proibivano la risata.

La maschera collettiva indossata per svelare l’inganno del potere. La maschera collettiva indossata per assaltare i palazzi del potere. Fuoco e caos, spazzatura e violenza appaiono dai finestrini resi traslucidi dalla pioggia, mentre il protagonista si guarda intorno perdendo per un attimo il suo perenne senso di solitudine e inadeguatezza, chiosando con un liberatorio «non è bellissimo?».

La maschera della risata sublime e deforme, violenta e disarmante. La maschera tragica sempre mostrata, esibita, ostentata. La maschera del mostro. La maschera che ride. La risata che trasforma e deforma. La risata che sovverte. La maschera cristologica, inchiodata tre volte sul cofano di un’auto della polizia. La maschera della pietà michelangiolesca mutuata in un cristo pop e warholiano, colorato e danzante, nuova sindone del sorriso. Ma poi, Gesù, rideva?
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