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TREDICESIMO-PIANO


mer 6 maggio 2020

IL BIVIO: RESTAURAZIONE O RIVOLUZIONE

Philip Wade ha sessant’anni, una cattedra di Storia contemporanea al Birkbeck College di Londra, il celebre istituto di ricerca di Eric Hobsbawm, e ha vissuto molte vite. Figlio della working class di Liverpool, studente di letteratura a Oxford, allievo di Federico Caffè a Roma, oggi è incline alla malinconia: sogna ancora un mondo animato dai lumi della ragione e dai principi di uguaglianza. Approfittando della (temporanea) fine del lockdown siamo tornati a trovarlo e, durante una passeggiata in un parco romano, abbiamo discusso con lui delle teorie dell’equilibrio di Joseph Schumpeter, di come sarà investita l’enorme liquidità già messa in circolo per la ricostruzione e di quale impatto avrà sul futuro di questo nostro fragile pianeta.

Approfittando della (temporanea) fine del lockdown, siamo tornati a trovare il professor Wade – protagonista de La fine del tempo, l’ultimo libro di Guido Maria Brera edito da La nave di Teseo – e, durante una passeggiata in un parco romano, abbiamo discusso con lui delle teorie dell’equilibrio di Joseph Schumpeter, di come sarà investita l’enorme liquidità già messa in circolo per la ricostruzione e di quale impatto avrà sul futuro di questo nostro fragile pianeta.


Professore, a ben vedere l’annunciato public spending legato alla pandemia non ha precedenti nella storia recente, l’ultimo esempio è forse il New Deal americano dopo la Grande Crisi del ‘29. Come sarà impiegata l’enorme liquidità di denaro immessa dalle banche centrali e dagli stati colpiti dal virus? Chi ne beneficerà?
Quando la potenza del virus finalmente calerà, si aprirà una fase determinante, che avrà un impatto decisivo sul futuro. Come verranno impiegati i miliardi che saranno riversati nell’economia del pianeta sarà un fattore decisivo, i cui effetti avranno un’influenza superiore alla pandemia stessa.

La questione è critica, e di fondamentale importanza. Gli aiuti saranno infatti chiesti da tutti per restaurare le proprie attività, che saranno giustamente reclamate come vitali per la ripresa economica e per il benessere della collettività. Se non del pianeta. Ma la maggior parte delle attività economiche, finanziarie e industriali che reclameranno gli aiuti sono quelle che hanno una concausa con lo sviluppo della pandemia.


Che cosa intende?
Se gli aiuti andranno alle big tech, tra le aziende più inquinanti che ci siano, alle grandi multinazionali alimentari, responsabili degli allevamenti intensivi che hanno distrutto il fragile equilibrio dell’ecosistema, ai fabbricanti di armi, alle grandi compagnie che estraggono e producono gas e petrolio, ai costruttori di infrastrutture inutili che bucano montagne e deturpano paesaggi, gli effetti della grande ricostruzione saranno più devastanti del virus stesso.

Inoltre, il paradosso è che le grandi industrie che inquinano il pianeta – responsabili dello spillover che ha provocato la pandemia – sono anche quelle che danno più lavoro, o meglio che sfruttano di più il lavoro, e per questo hanno il rapporto più stretto e duraturo con le banche. Per assurdo, quindi, saranno sicuramente loro i primi beneficiari degli aiuti. Perché le banche – che come sempre fungeranno da tramite tra capitali pubblici ed economia privata – veicoleranno la liquidità verso questi presunti porti sicuri e conosciuti. Ma tali industrie, lungi dall’essere la cura, si sono già dimostrate essere la causa dell’infezione.


Esiste quindi il rischio concreto di tornare in tutta fretta a quella “normalità” tossica che ha contribuito a portarci nella situazione in cui ci troviamo ora?
I proiettili del bazooka che dovrebbero salvarci potrebbero ucciderci definitivamente. Salvare aziende alla fine del loro ciclo di vita naturale significa bloccare il futuro, regredire a un passato che era già finito. Anche Schumpeter, cantore della distruzione creativa, spesso male interpretato dai vati del liberismo e del darwinismo economico, si rivolterebbe nella tomba.

Questa presunta soluzione della crisi rischia di tramutarsi in una restaurazione, dove ogni sforzo sarà volto a tenere in vita un sistema di sviluppo che è già morto. Saranno migliaia di aziende e di industrie inutili e dannose a beneficiare della retorica lavorista della politica occidentale, una retorica capace solo di mascherare la tossicità di questo sistema produttivo con la garanzia di offrire un’apparente pace sociale fatta solo di lavori inutili.

In un sistema che procede a tappe forzate verso la completa automazione, oggi è indispensabile la redistribuzione di un reddito universale e garantito. Non è possibile intraprendere l’ennesima operazione di maquillage ecologista che permetta invece la sopravvivenza economica di questo sistema nocivo. Una sopravvivenza che durerà comunque solo per un altro giro, e a costi sociali e ambientali altissimi.
Una sorta di conversione green dell’economia sembrava già in atto. Tutti si riempivano la bocca con la parola magica della transizione ecologica, e un vero e proprio capitalismo verde era già realtà prima della crisi. Come evolverà tutto questo nel post-pandemia?
La crisi potrebbe essere una enorme opportunità per curvare la storia economica del pianeta verso una consapevolezza ecologica senza precedenti, così come potrebbe far collassare definitivamente il globo, se in virtù di un effimero salvataggio economico continueremo ad abbeverare il mostro inquinante che è il nostro sistema produttivo.

E non sarà di certo l’ennesimo greenwashing la novità, lo scarto auspicato. Il capitalismo verde è in atto da anni, e non ha avuto nessun effetto perché pretende di risolvere il problema con la formula del win-win. Ossia, nessun vecchio interesse viene toccato, ma è inserito nel processo capitalista un nuovo bacino di estrazione: l’ecologia. Ma si tratta di un’ecologia declinata come business e non come reale riequilibrio ambientale.

Sembra veramente di essere a uno dei bivi della Storia?
Certamente, se saremo capaci di smantellare e lasciar morire interi settori dell’economia inquinante, potremo dire che la ricostruzione avrà anche lasciato un’impronta benefica. Ma se, come sembra più probabile, questo modello di sviluppo sarà tenuto in vita artificialmente, il virus non avrà fatto altro che accelerare la catastrofe che era già iscritta nei geni di questo sistema.

La sfida ora è gigantesca, le pressioni restauratrici enormi. La politica deve liberarsi dal dominio dell’apparato economico finanziario, e può farcela solo tornando a essere centrale nella vita delle donne e degli uomini, spezzando una volta per tutte il legame tra la sopravvivenza dell’umanità e quella di un determinato modello di sviluppo.

È arrivato il tempo di interpretare le parole di Schumpeter in un modo nuovo: distruzione creativa non può più significare liberarsi dei diritti, ma deve voler dire crearne di nuovi, deve significare adattare il sistema produttivo alle nuove esigenze di vita. E non viceversa.

Anche perché, e concludo, se dopo una guerra ci sono da ricostruire case, strade, aeroporti, dopo una pandemia paradossalmente tutte le infrastrutture rimangono in piedi, e bisogna ricostruire gli essere umani e le loro relazioni affettive.
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