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RECENSIONE


ven 6 gennaio 2017

PATERSON: CAPOLINEA USA

Paterson è il referto autoptico dell'America. Nella poesia di Jim Jarmusch non si salva nessuno: l’amore finisce, la vita si consuma. Non si tratta di un viaggio-fuga, ma del racconto di una deriva.

È finita la poesia. È finito il lavoro. A un certo punto l’autobus si rompe, è obsoleto, non funziona più. Ma non si trasformerà in una palla di fuoco come sognano gli abitanti della cittadina del New Jersey. Sarà semplicemente sostituito da un altro autobus, altrettanto obsoleto, destinato fermarsi al ciglio della strada che l’umanità passeggera percorre alla deriva.

Nessun approdo è possibile, come Jarmusch raccontava in Stranger than Paradise (1984) e Mistery Train (1989). Il viaggio, a bordo di una Cadillac o di un treno, diretto alle nevi del Michigan, al sole della Florida o a un motel Memphis, non è la fuga verso gli spazi infiniti della frontiera americana. È il racconto di una deriva. Alla guida del bus che quotidianamente conduce verso il nulla attraverso le vie della cittadina di Paterson, New Jersey, l’autista Paterson, interpretato magistralmente da Adam Driver, ascolta frammenti di vita quotidiana e scrive poesie sul taccuino.

L’autista/poeta Paterson, come il passeggero Eric Packer nella limousine di Cosmopolis (2012), che David Cronenberg adatta filologicamente da Don DeLillo, non conduce il mezzo, ne è imprigionato mentre attorno a lui tutto crolla. Il poeta/autista Paterson attraversa l’esistenza senza viverla, non si lamenta come il collega ogni mattina quando segna il suo nome sulle tabelle della partenza, non reagisce alla perdita di senso e di poesia che lo circonda. Indolente, si sveglia ogni giorno avendo introiettato il ritmo biologico del ciclo di produzione, la sveglia del suo orologio è silenziosa, e osserva inerte il passare del tempo, lancette in dissolvenza al lavoro per estrargli plusvalore.

Nella poesia di Jim Jarmusch l’amore finisce, la vita si consuma. Solo le grandi cascate del Passic River, appena dietro il deposito dei bus, dove il protagonista si reca malinconico ogni giorno in pausa pranzo a scrivere poesie, resistono immutabili nella loro bellezza.

L’amore impossibile tra Everett e Marie, teatralmente consumato nei riferimenti a Romeo e Giulietta nel pub dove ogni sera Paterson «osserva felice il fondo del boccale di birra», è il pretesto per l’unica scena di violenza dell’intero film: Paterson, da una foto sul comodino apprendiamo essere stato un marine in una delle mille guerre americane per la libertà infinita, disarma Everett della sua pistola. A salve. Il Travis Bickle di Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976) non abita più qui. L’autista oggi non si ribella, né tantomeno cerca redenzione. Sopporta passivamente la crisi dei subprime.

Per questo è molto più doloroso l’amore corrisposto per la sua compagna Laura «come la Musa di Petrarca» (Golshifteh Farahani), disoccupata con sogni di gloria da reality show – Divento famosa come cuoca, no, come cantante – persa in un delirio psicotico a dipingere di bianco e nero la casa, i vestiti, se stessa. È un amore tenero quanto indolente, disinteressato. Apatico come la vita quotidiana in questa cittadina periferica della rust belt dove il lavoro è finito.

Se in The Limits of Control (2009) Jarmusch ci aveva raccontato i dispositivi di controllo biopolitici e in Only Lovers Left Alive (2013) il fallimento della città di Detroit, ridotta a ghost town notturna, centro commerciale dagli scaffali vuoti per vampiri eterni consumatori in crisi, nella periferia interna dell’Impero l’autista Paterson non costruisce, come la working class costretta agli straordinari per sopravvivere forse ancora un giorno che incontriamo tra i passeggeri dell’autobus. Paterson trasporta i lemming del New deal verso il dirupo.

L’amore finisce, l’esistenza si esaurisce in un istante, come il fiammifero della sontuosa scatola Ohio Blue Tip declamata nella poesia di apertura (tratta, come le altre che scrive il protagonista, dall’antologia di Ron Padgett) bruciato nella ripetitività dei gesti quotidiani, trattati dal regista con un affetto che non è elegia ma neppure compassione.

«Ho sognato che avevamo due gemelli», dice Laura a Paterson. Nelle sette pagine del taccuino – da lunedì a domenica – su cui il regista scrive con il consueto minimalismo calligrafico la pellicola, il protagonista incontra ovunque gemelli, doppelganger. Evocazioni di un’altra vita che forse è quella reale. Revocato ogni potere salvifico alla nostalgia, da sempre e ancora oggi male interpretata come il tratto distintivo del cinema di Jarmusch, l’armoniosa e indulgente cittadina di Paterson dove resistere non serve a niente è in realtà l’incubo del doppio di Twin Peaks. E anche a David Lynch, infatti, Fredric Jameson imputa postmoderni cedimenti al pastiche non cogliendone le potenzialità sovversive.

«Sembra di essere tornati al ventesimo secolo», esclama Laura rivolta all’indolente Paterson all’uscita dal cinema dopo la visione di The Island Of Lost Souls (Erle C. Kenton, 1932). E invece no. Paterson e l’America non torneranno mai indietro agli antichi indici di produzione e consumo. Le foto delle celebrità che Doc, il proprietario del pub, appende dietro al bancone, i resoconti della stampa locale sul concerto che Iggy Pop tenne in città negli anni Settanta, non sono nostalgia del paradiso perduto. Sono omaggi del regista al suo universo, come il cane Marvin, motore immobile del film, lo è al club dei sosia The Sons of Lee Marvin di cui, oltre a Jarmusch e Iggy Pop, fanno parte personaggi tutti più o meno presenti nella sua filmografia.

La politica sovversiva della poesia concreta di Jarmusch è sublimata nella scena del dono del poeta giapponese (interpretato da Masatoshi Nagase, “ahaaaa” il ragazzino di Mystery Train) che da Memphis, dove inseguiva il simulacro di Elvis Presley, giunge trent’anni dopo a Paterson per regalare all’autista un nuovo taccuino dalle pagine bianche e intonse, dove è raccontato che sono finiti i beni rifugio nella città di Lou Costello, Allen Ginsberg e William Carlos Williams. Nessun rimpianto di bei tempi mai esistiti. Bisogna scrivere nuove pagine.

E se Doc riassume la rassegnazione al declino della cittadina Paterson quando afferma: «Non cercare di cambiare le cose, se no fai peggio», Jarmusch contrappone il fuoco di un fiammifero che non si consuma. Negli occhi della bambina sola – la gemella è via, altrove, forse su Second Life – che ricorda Emily Dickinson, scrive poesie e ne legge una per Paterson. Nei discorsi di due ragazzini sul bus – Kara Hayward e Jared Gilman, protagonisti di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson –, che ricordano come a Paterson sia vissuto l’anarchico Gaetano Bresci, e sia partito un giorno per tornare in Italia a uccidere re Umberto I e vendicare così i lavoratori che chiedevano pane e furono massacrati dal generale Bava Beccaris.

È finita la poesia. È finito il lavoro. «Io non ho ucciso Umberto. Io ho ucciso il Re. Ho ucciso un principio», dice Bresci dopo l’arresto. Nella cittadina di Paterson, principio dell’immobilità caduca, simulacro di un presente rassegnato a perpetuarsi all’infinito, il passato non tornerà mai e non ha senso rimpiangerlo, gli antichi modi di produzione sono superati e nulla sarà mai regalato, né il reddito garantito né la giustizia sociale.

Per questo Jarmusch scrive un altro lunedì nel film, un letto vuoto, un taccuino intonso su cui aggiungere nuove parole: una fiamma tiene accesa la speranza di un mondo migliore, una poesia anarchica.

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