Decodificare il presente, raccontare il futuro

RECENSIONE


mar 7 marzo 2017

JACKIE, IL TRAMONTO DEI MITI KENNEDIANI

Il film Jackie di Pablo Larraín certifica la debolezza della narrazione democratica, l’incapacità di costruire un immaginario incisivo, in grado di non scoprire il fianco agli attacchi populistici più decisi e brutalmente condotti, come quello di Trump. A cinquantaquattro anni dall'omicidio di Dallas, dei miti della Camelot kennediana restano solo vuoti simulacri e presenze fantasmatiche, così come dei sogni clintoniani non rimangono altro che macerie.

Il 16 giugno 2015, alla Trump Tower, il tycoon annuncia ufficialmente la sua candidatura alle presidenziali Usa del 2016. Lo fa con uno slogan dal populismo tanto pomposo e reazionario, quanto accattivante: «Make America Great Again», che gli darà – come sappiamo – ragion d’essere su ogni altra ipotetica, e utopica proiezione. Un mese prima, nel maggio 2015, dall’altra parte dell’oceano, a Cannes, il regista Pablo Larraín annuncia che le riprese di Jackie – il film su Jacqueline Kennedy (Natalie Portman), uscito in questi giorni nelle sale italiane e distribuito da Lucky Red – «termineranno entro la fine dell’anno». Il cinema, con l’avvento del post-moderno, ha perso la sua funzione – prettamente novecentesca – di propaganda tout court, e tuttavia sarebbe sconsiderato negare che il grande schermo persiste nell’assorbire gli elementi di retorica (finanche propagandistici) che sono iscritti nella costruzione di un immaginario in un dato momento storico. In questo senso si può leggere Jackie anche dal punto di vista del ruolo che ha avuto, e che avrà, all’interno della narrazione democratica il cui limite è sempre più tangibile: ovvero l’incapacità di costruire un immaginario (politico, e non solo) credibile e incisivo, in grado di non scoprire – o meglio: offrire – il fianco agli attacchi populistici più decisi e brutalmente condotti, come quello di Trump. Al netto dell’autonomia con cui vengono pensati e realizzati determinati prodotti culturali, la loro incidenza sulle narrazioni di un determinato periodo può essere emblematica, in quanto – come ci spiega Fredric Jameson – ben oltre l’intenzionalità dell’autore conta l’inconscio politico che soggiace alla produzione di un’opera e che, attraverso l’analisi e la decostruzione della stessa, può essere portato a galla. A nulla, forse, sono valse le profetiche considerazioni del regista Michael Moore che con il documentario Trumpland (2016) porta in superficie un’America profonda volutamente ignorata dalla campagna democratica.
Un biopic fantasmatico

Il film di Larraín racconta i giorni immediatamente successivi all’omicidio di John Fitzgerald Kennedy centrando il focus sul vissuto della moglie Jackie. La pellicola è costruita attraverso una serie di linee narrative che si intrecciano tra loro. In quella principale, la first Lady racconta la storia di quel momento – lo shock, il dolore, l’allestimento del rito funebre ispirato, per volontà della stessa Jackie, ai funerali del 16° presidente degli StatesAbraham Lincoln – al giornalista (nel film non viene esplicitato, ma la figura si rifà chiaramente a Theodore H. White) che ne ricaverà un sontuoso reportage per la rivista «Life». Le altre linee tracciano la “memoria televisiva” della tragedia (attraverso i notiziari che si intravedono nei vecchi televisori a tubo catodico) e – in generale – del mito kennediano (attraverso una fedele ricostruzione del documentario del ’62 A Tour of the White House with Ms Kennedy, in cui Jackie illustra al pubblico gli interni della Casa Bianca). A queste linee si aggiungono i flashback di alcuni momenti felici con il marito JFK quando erano insediati alla Casa Bianca e – vertigine al contrario – quelli del momento dell’attentato, ripetuti in drammatico loop nel corso di tutto il montaggio. Chiude la struttura narrativa un lungo e compassato dialogo con un prete a cui Jackie confessa i suoi dilemmi affettivi ed esistenziali.

Ci sono almeno due elementi basilari che segnano l’operazione narrativa di Pablo Larraín. Il primo è legato alla “astoricità” del film: la messinscena appare (quasi) totalmente avulsa dalla Storia, a eccezione dei notiziari che si intravedono nei televisori – e di una sola battuta di Bob Kennedy sulla crisi missilistica e l’embargo cubano – tutti i personaggi e le situazioni, vestiti e scenografie a parte, sembrano vivere un lungo momento sospensivo, privo di qualsiasi connotazione o riferimento storico. Il secondo elemento riguarda il modo con cui il regista rideclina i limiti del biopic che, per definizione, è un “genere cinematografico basato sulla ricostruzione della biografia di un personaggio realmente esistito”. Nel film, la biografia di Jackie, ma anche – in senso più ampio – quella dei Kennedy, è pressoché assente ed è vagamente filtrata dalle riflessioni esistenziali della protagonista, o resa fantasmatica e lasciata alle intuizioni dello spettatore mediante l’indugiare della camera su dettagli di carattere simbolico. Su tutti: il vestiario di Jackie, dalle mise che cambia in modo compulsivo dopo la tragedia all’abito – una specie di contrassegno sindonico – macchiato dal sangue del marito. Questi due elementi, l’astoricità della fiction e la riformulazione del biopic, se da una parte fanno cogliere il senso e l’ambizione del regista, volta a raccontare come alla biografia dei Kennedy si sia sostituita in modo sistematico una mitizzazzione della stessa, dall’altra rischia di ammantare di trascendentalità un momento la cui portata storica è stata decisiva nel segnare l’immaginario democratico dell’ultimo cinquantennio. Può valere, in tal senso, anche per le operazioni finzionali di ricostruzione storica, l’ammonimento di Foucault: «storicizzare al massimo, per lasciare meno spazio possibile al trascendentale».
L’altra “trinità” di Camelot, non contemplata

C’è un altro punto focale, a proposito di costruzione del mitokennediano, in Jackie. È quello in cui la narrazione insiste (attraverso più scene – Jackie che mette sul giradischi la famosa traccia di Richard Burton, i balli “regali” dentro la Casa Bianca, la citazione esplicita durante la confessione con il prete –) sul topos arturiano di Camelot, una corte in cui, parafrasando la protagonista, «uomini qualunque cercarono di cambiare il mondo». Ecco, al netto della presunta intenzionalità del regista di far comprendere come le biografie e la storia di quei personaggi pubblici siano state fagocitate da un processo di mitizzazione, ciò che manca è la controparte, il contraddittorio narrativo rispetto a come la protagonista e il mondo hanno vissuto e costruito questo mito. Tra le pagine di American Tabloid di James Ellroy, proprio a proposito di Camelot, si legge: «la vera Trinità di Camelot era Piacere, Spaccare il culo e Scopare. Jack Kennedy è stato la punta di diamante mitologica di una fetta particolarmente succosa della nostra (quella americana, ndr) storia. Spandeva merda in modo molto abile e aveva un taglio di capelli di gran classe. Era Bill Clinton senza l’onnipresente scrutinio dei media e qualche rotolo di grasso». Le zanne affilate del “demon dog” del Noir e la crudezza dei suoi affondi, allora, possono valere da efficace e affilato contrappunto per squarciare una volta per tutte il velo (falsamente innocente?) che tiene a riparo la mitizzazione della parentesi kennediana (e clintoniana) e ricomporre la frattura – provocata dalla stessa “tecnicizzazione del mito”, per dirla con Furio Jesi – tra presente e Storia.
Il corpo del mito

La scelta di Larraín volta a ridisegnare completamente l’icona di Jackie, spogliandola del glamour che ben oltre la sua morte ne ha caratterizzato l’indubbio fascino, e che ha costretto a un inarrivabile confronto tutte le successive first lady, si scontra in maniera fatale proprio con quel tailleur rosa di Chanel, che la Portman è costretta a indossare senza eleganza, curvando le spalle e insistendo sull’esibizione del sangue del marito.

Il vestito – che viene messo sotto teca presso l’Archivio nazionale e che vanta una sua personalissima pagina Wikipedia, essendo stato citato da cinema e televisione (da Reese Witherspoon ne La rivincita delle bionde a Marge Simpson) – è un abito della collezione Autunno Inverno 1961 firmato dalla leggendaria Coco Chanel, il genio della moda che, in netta rottura con Christian Dior, voleva liberare le donne da un bon ton eccessivo giocando sul crinale del formale. Quel rosa borghese è “indossabilissimo” per Jackie – la tv è ancora in bianco e nero – e si appunta su una rivoluzionaria silhouette rompendo tutti gli schemi. Il destino aggiunge il suo tocco e ne fa il tailleur più famoso della Storia. Dietro a quel capo per anni si sono diffuse letture femministe e anti-femministe: il rosa, colore preferito da Mamie Eisenhower (non a caso la storica statunitense Karal Ann Marling parlò di “Rosa Mamie”) contrapposto alla scelta della cattolica Kennedy di indossare una creazione della donna più libera e disinibita di Francia. Nonostante i tentativi decostruttivisti di Larraín, la complessità stilistica resta una metafora perfetta di quello che era (e sarebbe diventata) Jackie Kennedy. Qualcosa di sospeso tra modernità e aristocratico distacco. In Morte di un presidente di William Manchester (in Italia edito da Mondadori, 1967) vengono sviscerati tutti i retroscena possibili del giorno in cui è morto il presunto sogno americano. Pare che JFK avesse espressamente chiesto informazioni sul vestiario della moglie per quella parata nelle strade di Dallas: «Ci saranno tutte quelle ricche donne repubblicane a quel pranzo… Che indossano pellicce di visone e diamanti. E tu devi apparire meravigliosa come ognuna di loro. Sii semplice: mostra a quelle texane cosa sia davvero il buon gusto». “Sii semplice” dice John prima di finirle in grembo esanime, un invito alla sobrietà pronunciato dallo stesso uomo che si perdeva dietro le giunoniche forme e gli abiti a strass di un’altra icona dei Sessanta: Marilyn Monroe, imperdonabilmente assente dalla pellicola, benché la scelta sia in linea con lo stile in “sottrazione” di Larraín. La donna pop per eccellenza, serializzata da Warhol più di una zuppa, e che con Jackie non condivide solo l’uomo ma anche il famoso marchio della maison Chanel, semplicemente non c’è.

In un’intervista l’attrice, interpellata su cosa mettesse indosso prima di andare a letto, dichiara: «Due gocce di Chanel N°5», facendo schizzare le vendite del profumo alle stelle. Ancora e sempre Chanel. Scontro tra titani, anzi: tra un filo di perle e un barattolo di zuppa. Nulla di semplice sotto il cielo, nulla di comune visto che la Jackie di Larraín sceglie di ideare una cerimonia funebre capace di far impallidire André Bazin, che riteneva la rappresentazione insistita della morte al cinema un’oscenità assoluta. E mentre la Portman gira per la Casa Bianca, quella che ora deve abbandonare, in preda a singhiozzi isterici e l’assente Marilyn piange per suo conto, il vestito resta lì, negando ogni possibilità di riscrittura postuma. Solo nel finale la regia accenna alla “jackizzazzione” degli States con tanto di manichini che riproducono una first Lady, ormai “ex”, in una serialità senza volto.

Pablo Larraín tenta di costruire il suo film lavorando in sottrazione, ma proprio l’inconscio politico dell’opera ci può ammonire su come colmare il vuoto di una mancata e puntuale storicizzazione di alcune cruciali fasi politiche del passato, per capire e interpretare meglio il presente. La Storia è lì in agguato come l’abito di Jackie, come il profumo di Marilyn, e non c’è niente che si possa fare per nasconderla.

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