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RECENSIONE


sab 28 maggio 2016

IL CAPITALISMO È MORTO. ANZI NO

Robot e intelligenza artificiale ci renderanno più liberi e uguali. Ma siamo certi che il sistema sia morto o saprà rigenerarsi? In «Postcapitalismo» Paul Mason immagina il futuro

7 APRILE 2016 – Appena pubblicato in Italia da ilSaggiatore, Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro del giornalista d’inchiesta Paul Mason intreccia acutezza di analisi, abilità divulgativa e sguardo prospettico, sollevando cruciali interrogativi in merito all’innovazione tecnologica, alla sua funzione di motore della crescita, agli effetti che essa produce sul lavoro e – più in generale – alla tenuta del sistema capitalistico. L’eloquente titolo non lascia dubbi sullo sforzo dell’autore di tracciare un orizzonte di superamento degli attuali rapporti di produzione a partire dalla più avanzata frontiera tecnologica – quella dei robot e dell’intelligenza artificiale – e dalle più intense contraddizioni che attraversano l’“economia della condivisione” (sharing economy). Mason si muove tra le macerie del tardo-capitalismo, del great crash di fine anni Zero e della crisi, utilizzando un bagaglio teorico che spazia dal socialismo utopistico ottocentesco all’hacktivism, passando per il cosiddetto “post-operaismo” (ad esempio e nello specifico, le acquisizioni di Michael Hardt e Toni Negri sul “comune”). In principio, però, c’è la teoria delle “onde lunghe” elaborata dall’economista sovietico Nikolai Kondratiev e basata sull’individuazione di quattro grandi cicli storici corrispondenti alla rivoluzione industriale delle macchine a vapore, all’età delle ferrovie e del telegrafo, alla stagione del management scientifico e dell’ingegneria elettrica, all’era dell’automazione industriale e della rivoluzione informatica. Il modello in oggetto spiega l’alternarsi, nella storia del capitalismo, di periodi espansivi e fasi recessive. Il pensiero di Kondratiev – “professore rosso” e “compagno di strada” della rivoluzione russa, poi vittima dello stalinismo – è stato letto tanto da sinistra a destra quanto da destra a sinistra, avallando conclusioni opposte. Sul versante degli economisti conservatori, lo si è utilizzato per sottolineare gli effetti dell’equilibrio dinamico del capitalismo, capace di procedere per crolli e boom, fratture e ricomposizioni, estendendo sempre e comunque le forme del proprio dominio. Nelle pagine di Postcapitalismo viene impiegato per individuare il momento in cui lo schema si inceppa. Come se la massima estensione dello spazio economico del capitalismo fissasse le premesse oggettive del suo superamento. Un approccio che – in passato e anche prescindendo da Kondratiev – ha finito per ispirare formulazioni predittive di diversa natura tra cui la cosiddetta “teoria del crollo”.
Così, secondo Mason, gli elementi di superamento del capitalismo sono già posti, proprio sul rifluire della quarta onda. Cioè: oggi, in questo tempo, allorché le nuove tecnologie consentono forme sempre più pervasive di estrazione di valore estendendo al contempo – come in un’inevitabile contrappasso – pratiche di condivisione, scambi non mercantili, esempi di neo-cooperazione e libera riproduzione di contenuti. Ed è su questo crinale che ci si disporrebbe all’attesa di una quinta onda: la grande mareggiata in grado di colmare le secche della stagnazione affinché i capitali possano surfare nuovamente, oppure – all’inverso – un’inondazione che sospinga il genere umano fuori dal sistema capitalistico.

Sarebbe troppo semplice derubricare il lavoro di Mason a favola o profezia, proiezione visionaria o vagheggiamento tecno-utopista, magari rilevando come lo scrittore non riesca a prescindere linguisticamente dal sostantivo “capitalismo”, preceduto dal prefisso “post”, per delineare ciò che sarà. In realtà, Postcapitalismo è da considerarsi – in prima istanza – una lucida immersione nella realtà, nel “qui e ora”, nel pieno delle contraddizioni tardo-capitalistiche. Così, nel volume viene descritto con grande maestria quel modello di accumulazione che, sulle macerie della grande fabbrica e del fordismo, ha sussunto ogni aspetto della vita umana marginalizzando il ruolo del lavoro nella creazione di valore. Risuona l’eco del Marx dei Grundrisse, e di quanti hanno ragionato sul ruolo della conoscenza accumulata nel capitale fisso, nelle macchine. Da queste premesse, il ragionamento prende in esame le occasioni di liberazione che la tecnologia ha posto in essere, modificando alla radice i modi di produzione e consumo, sovvertendo leggi antiche come quella che lega domanda e offerta o principi all’apparenza intoccabili  come la proprietà privata, la formazione dei prezzi attraverso il mercato, la condizione di scarsità, per lasciare spazio all’intelligenza sociale, all’attività in rete, al surplus d’informazioni, all’abbondanza, alla libera condivisione, al tempo liberato dalla prestazione d’opera, in un’esplosione di creatività e gioia inventiva. Così Mason descrive gli embrioni di società nuova e sviluppa una ricognizione sul campo che, addentrandosi «nelle nicchie e negli angoli più nascosti del sistema di mercato», dal Regno Unito alla California, da Shanghai a Rio De Janeiro, prende in esame «monete parallele, banche del tempo, cooperative e spazi autogestiti».
Tuttavia, l’autore di Postcapitalismo non si lascia sfuggire le risposte con cui il capitale intercetta la potenza della cooperazione sociale: sia sul versante dei saperi sia su quello delle relazioni. Uber e Airbnb sono casi esemplificativi di un processo di accumulazione che si impone attraverso la sproporzione muscolare dei capitali disponibili, la privatizzazione delle conoscenze, la proprietà intellettuale, l’affermarsi di condizioni di monopolio che caratterizzano la “società dell’informazione”. Si pensi al ruolo dei grandi motori di ricerca nello spazio della rete telematica. Mason è consapevole di questa situazione. «Uber non è un sistema equo, al contrario: è una piattaforma di self impoverishment, spinge alla competizione e allo sfruttamento. Io ho in mente Wikipedia: il peer-to-peer, la rete paritaria, elevata a potenza, un modello basato su competenze diffuse e collaborazione» ha dichiarato di recente in un’intervista rilasciata a «la Repubblica» (27 marzo 2016). L’ambivalenza dei processi è la principale caratteristica di questa congiuntura collocata tra l’esaurirsi della quarta onda di Kondratiev e l’alba di un mondo nuovo, in un momento che è “transizione”, limbo tra un “non più” e un “non ancora”, e che Mason restituisce attraverso brillanti incursioni nella letteratura. Non a caso, nel libro abbondano rimandi a Shakespeare, il grande cantore del passaggio dal feudalesimo al primo capitalismo mercantile, così come nelle pagine de Il capitale nel XXI secolo Thomas Piketty utilizza Jane Austen e Charles Dickens per descrivere l’universo dei rentiers ottocenteschi. La letteratura e l’arte, del resto, sono solite presagire i cambiamenti delle epoche. Ma come in ogni tumultuosa fase di passaggio, se è certo ciò che ci si lascia alle spalle, non è altrettanto certo ciò che si ha davanti. E quando l’immagine dell’avvenire pare troppo nitida, sorge il dubbio che a renderla tale provveda un inganno prospettico. Ovvero, quel “reincantamento del mondo”, figlio di un certo feticismo tecnologico, di uno storytelling intriso d’ottimismo e di una concezione “mitico-utopica” dei paradigmi scientifici, che può ottenebrare persino il pensiero critico. Gli approdi, infatti, non sono mai perfettamente visibili all’orizzonte, anche se lo sguardo lungo e la lettura tendenziale paiono accorciare le distanze.

Eventuali elementi di divergenza con le teorie dello studioso britannico vanno trovati – in primo luogo – nell’annosa questione della tendenza: in quel collocarsi nel punto più avanzato dello sviluppo. Proprio nell’esplorazione tendenziale di un territorio sfuggente è consentito discostarsi dagli assunti di Mason, muovendo dalle contraddizioni individuate: Uber vs Wiki, sharing economy vs general intellectself impoverishment vs peer-to-peerplatform companies vs platform cooperavitism, concentrazioni monopolistiche vs forme di mutualismo. In queste dicotomie, è possibile leggere precisi rapporti di forza che l’autore di Postcapitalismo crede sia possibile superare in modo quasi lineare, mediante la pianificazione tecnologica e la diffusione virale delle pratiche di autogestione e autorganizzazione. Nella sua lettura tendenziale, Mason pone l’accento sulle chance di liberazione, invece di sottolineare come la tecnologia sia stata anche creatrice di diseguaglianze e causa di deflazione. Si pensi alla violenza con cui le corporation – capaci di operare in perdita grazie all’enorme quantità di capitali – hanno disintegrato la concorrenza sotto-capitalizzata. E non a caso, proprio sotto il vessillo che garrisce al vento della sharing economy, le piattaforme tecnologiche usano la clava di immensi capitali offshore, spesso elusi al fisco e investiti in nuove piattaforme, per colonizzare altri settori di servizi. La fiscalità globale, inoltre, non è ancora in grado di produrre una tassazione omogenea e –  molto spesso – i monopoli tecnologici riescono a garantire prezzi migliori rispetto a soggetti “tradizionali”, oberati da carichi fiscali assai più pesanti.
A voler rovesciare l’analisi di Mason, si potrebbe dire che il capitalismo non solo è ben lontano dall’essere superato, ma ha addirittura individuato nuove forme di estrazione di valore, arrivando a convertire la marginalizzazione del lavoro, determinata dallo sviluppo tecnologico, in distruzione di lavoro vivo. Come se si mettesse in conto che l’eccedenza sfuggita alle maglie delle nuove reti di cattura possa essere semplicemente annientata. E d’altronde il capitalismo assomiglia a un essere vivente provvisto di una straordinaria capacità di adattamento, al punto che le teorie più o meno “crolliste”, o quelle che ne hanno annunciato l’imminente fine in chiave economicista, si sono rivelate auspici di lunga vita più che sentenze di morte. Come se l’allungarsi delle grandi onde fosse un procedere senza fine o come se – dal punto di vista dell’estrazione di valore – il capitale avesse inventato quella macchina del moto perpetuo che nessuna intelligenza umana è riuscita a creare smentendo il secondo principio della termodinamica. E per tornare alla metafora organica, il sistema capitalistico è un organismo complesso dalle eccezionali doti metamorfiche, in grado di adattarsi a un’incredibile varietà di habitat ed ecosistemi. Con questo non si intende predicare una diffidenza nei riguardi della tecnologia, all’insegna di un luddismo 2.0, bensì cogliere l’ambivalenza dell’interpretazione tendenziale di Mason e di alcuni aspetti della sua analisi sulla transizione. Ad esempio, vale la pena rilevare come la “composizione tecnica” individuata in Postcapitalismo – ovvero il precariato cognitivo al tempo dell’austerity, i white wire people, la classe dei “sempre-connessi” – sia parente dei knowledge workers di cui, fin dagli anni Novanta, si è proclamata la centralità sul terreno produttivo. Ed è forse un film come Her di Spike Jonze a fornire una delle più vivide immagini di questa “composizione” attraverso la storia di un lavoratore, vero e proprio Cyrano de Bergerac in salsa informatica, impiegato in una web base company con la mansione di scrivere lettere d’amore, che finisce per innamorarsi di un sistema operativo. Eppure, è noto come proprio il cognitariato sia stato investito da forme di sfruttamento terribilmente pervasive, con redditi compressi al ribasso quasi al limite della mancata retribuzione, e condannato a non poter più distinguere tra tempo di lavoro e vita perché l’intera vita è stata messa al lavoro. In questo senso gli ultimi due decenni, proprio al limite della quarta onda, sembrano aver riaffermato l’onnipresenza del mercato, l’efficacia del controllo biopolitico, la riduzione semplificante del lavoro a merce, l’aumento dei margini di sfruttamento, la retorica dell’imprenditorialità di se stessi come grande occultamento dell’etero-direzione del lavoro immateriale. Per offrire una lettura della tendenza che sia alternativa alla visionarietà postcapitalistica, si può fare riferimento a quella che Curtis White ha chiamato “entourage economy”. Ovvero: un paradigma produttivo, in cui i più abbienti formeranno vere e proprie equipe di professionisti impegnati a curare diversi aspetti della vita dei loro datori di lavoro. E a cascata ognuno avrà a disposizione un entourage d’imprenditori (di se stessi) in rapporto alle proprie risorse. Fino ad arrivare alla base di una piramide sociale occupata da un Lumpenproletariat postmoderno che sarà tale proprio perché incapace di dare lavoro. In questo scenario che sembra prediligere i toni della distopia più che le tinte lisergiche della tecno-utopia, i diritti garantiti dal welfare state verrebbero “delegati” a squadre di assistenti personali, a favore di un numero limitato di individui, rientrando così in uno scambio commerciale tra imprenditori più che in una forma di reciprocità paritaria, e finendo per generare spaventose diseguaglianze. Se il “post” coincidesse con una simile proiezione, allora si risolverebbe nell’incubo di “sempre”. O forse in qualcosa di peggio.
Rispetto alla lettura articolata in Postcapitalismo, può divergere anche il modo di considerare l’attuale fase di passaggio o – più precisamente – il tipo di approccio alla congiuntura in oggetto. Il “programma di transizione” di Mason, infatti, è incentrato sulla proposta di reddito di cittadinanza: parola d’ordine sostenuta dai movimenti fin dai Nineties e intesa come retribuzione egalitaria di un’eccedenza produttiva intrinsecamente non misurabile, proprio perché legata al lavoro immateriale. In prospettiva – secondo l’intellettuale britannico – il reddito di cittadinanza dovrebbe lasciare posto a “retribuzioni” in servizi per poi sparire lentamente e inesorabilmente. Questo programma chiamato “Progetto zero” si basa, inoltre, su un modello energetico a emissioni zero, sulla progressiva riduzione del tempo di lavoro necessario, sulla soppressione dei monopoli, sull’elezione diretta dei governatori delle banche centrali, sul sostegno di modelli cooperativi, e via dicendo. Forse più che sul terreno della questione tecnologica è proprio nell’ambito di queste proposte che è possibile registrare la parzialità della proposta di Mason. E non perché le parole d’ordine divergano da altre piattaforme avanzate oggi o in un recente passato. A ben vedere, si riscontra una certa consonanza perfino con le proposte sostenute da DiEM25, il movimento europeo di Yanis Varoufakis, che insiste su green economy, reddito di cittadinanza, depotenziamento della finanza globale, investimenti pubblici e rafforzamento del welfare. E anche per l’ex-ministro delle Finanze greco, già autore de Il Minotauro globale, il presente coincide con una fase di transizione. Secondo Varoufakis, infatti, la crisi del 2008 avrebbe segnato la fine di un modello d’accumulazione consegnandoci a «un’aporia»: ovvero, a un momento di sospensione tra il “prima” e il “dopo”. Al netto della differenza nel collocare l’inizio della transizione – Mason, infatti, insiste sull’innovazione tecnologica e la fine della quarta ondata, mentre Varoufakis indica il great crash dello scorso decennio –, la diversità di prospettive sembra riguardare soprattutto l’insoluto nodo del politico e l’articolazione del potere costituente, che l’ex-ministro del primo governo Tsipras continua a interpretare come «un’ondata di democrazia». Una marcia dentro e contro le istituzioni europee in vista di una riforma radicale dell’Unione continentale e dei suoi processi decisionali.

Per molti versi, la fase di transizione potrebbe essere assimilata a ciò che Gramsci definiva “interregno”, momento in cui «il vecchio muore e il nuovo non può nascere». Mason sembra certo che la fase si risolverà a vantaggio di una società di liberi e uguali. Per questo asserisce la natura virale – dunque linearmente espansiva – delle pratiche di reciprocità e mutualismo, e per questo sembra inscrivere nel codice sorgente delle tecnologie lo statuto del politico e la possibilità di nuove istituzioni: la strategia e la politica alle macchine, la tattica alla classe dei “sempre-connessi”. E qui sembra ripresentarsi una considerazione sostanzialmente positiva della “crisi del politico” e del suo progressivo assorbimento da parte della sfera della comunicazione. Ma l’impressione è che si andrà a sbattere sul solito, vecchio muro: cioè, sugli “antichi” problemi legati alle forme organizzative attraverso cui dare continuità alle pratiche sociali, alla temporalità complessa della politica moderna fatta di accelerazioni e rallentamenti, di gradualità e rotture, all’inevitabile collisione con le forme dei rapporti dominanti e alla produzione di decisione politica. A leggere Postcapitalismo sembra d’inciampare – una volta ancora – nell’intricato nodo che molte delle teorie a cui il suo autore si appella non hanno saputo sbrogliare. Viene il dubbio che la diffusione virale di pratiche liberatorie, neo-mutualistiche e di condivisione possa risolversi in un’invarianza critica, nella reiterazione di sé lungo un tempo infinito che non ha più che fare con un “post” bensì con un presente eterno. E peraltro, non è detto che l’interregno non si risolva «a favore di una restaurazione del vecchio». Del resto, è noto come certi organismi possano addirittura stabilire dei rapporti simbiotici con alcuni virus. O come taluni sistemi di controllo riescano a rendere funzionali le anomalie. Ed è con queste parole che in Matrix Reloaded l’Architetto si rivolge a Neo: «Tu sei il risultato finale di un’anomalia che, nonostante i miei sforzi, sono stato incapace di eliminare da quella che altrimenti è un’armonia di precisione matematica. Sebbene resti un problema costantemente arginato, essa non è imprevedibile, e pertanto non sfugge a quelle misure di controllo che hanno condotto te, inesorabilmente, qui».

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