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RECENSIONE


ven 26 gennaio 2018

THE FORMAT AGE

Lo sviluppo delle nuove tecnologie da un lato, la caduta della cortina di ferro e l’allargamento del mercato europeo e mondiale dall’altro, determinarono la formazione di un vero e proprio mercato globale dei format, che esplose grazie ai talent e ai reality. Super-format come Big Brother, che esercitarono subito fascino sul pubblico perché capaci di fabbricare gli “eroi” del mondo contemporaneo, «eroi per una cultura competitiva, individualista e materialista».

L’era dei format. La svolta radicale dell’intrattenimento televisivo (The Format Age. Television’s Entertainment Revolution) di Jean K. Chalaby, traduzione di Chiara Veltri, è l’ultima pubblicazione (novembre 2017) della collana SuperTele di minimum fax. La collana, curata da Fabio Guarnacci e Luca Barra, si propone di indagare il campo dei media e delle narrazioni tv, proponendo alcuni testi, finora inediti in Italia, fondamentali per comprendere il panorama attuale della televisione, dei nuovi media digitali e dei social.

Chalaby lavora come ricercatore presso la City University di Londra, dove si occupa di sociologia collegata ai nuovi media e al linguaggio televisivo. L’era dei format è frutto di una sua ricerca empirica durata più di sei anni, condotta, oltre che attraverso lo studio della letteratura accademica, soprattutto privilegiando quelle che sono definite «fonti primarie»: da un lato la stampa e i report di settore, dall’altro oltre sessanta interviste con gli esecutivi delle industrie televisive, «da leader creativi a dirigenti di alto livello». Le interviste «sono state rilasciate esclusivamente per questa ricerca» e forniscono dati e punti di vista inediti.
Il libro fornisce una dettagliatissima analisi sullo sviluppo commerciale dei format tv, e sul perché tale commercio si sia configurato secondo le dinamiche attuali. Spiega come sono nati i format nel loro contesto locale, come hanno iniziato a circolare globalmente e come si stanno adattando rispetto ai trend più recenti.
Chalaby ripercorre storicamente la crescita e la diffusione dei format, fornendo al lettore più di trenta grafici e tabelle che illustrano precisi dati riferiti ai format divenuti più celebri e alle compagnie di produzione maggiori. L’accuratezza delle informazioni raccolte e analizzate dall’autore nel corso degli anni fa di questa ricerca uno strumento indispensabile per chiunque voglia approfondire la natura del linguaggio televisivo.

L’era dei format si concentra su un’analisi di carattere strutturale del format solo nella terza e ultima parte, nella quale viene commentata la struttura dei format unscripted e scripted. La prima sezione mette a fuoco la storia degli scambi commerciali televisivi; è interessante notare come è stato proprio grazie ai format che si è iniziato a dare valore al concetto di intellectual property, contrattualizzandolo secondo leggi che si sono fatte progressivamente più accurate.
A partire dagli anni cinquanta del Novecento le emittenti britanniche iniziarono ad adattare per il loro pubblico alcuni programmi televisivi statunitensi: i primi contratti risalgono a quest’epoca, e definivano «l’idea di format come diritto di realizzare un remake di un programma in un determinato territorio».
La nuova invenzione angloamericana si diffuse presto nel resto d’Europa; Italia, Germania e Spagna trasmisero adattamenti che solo in seguito vennero autorizzati, mentre il governo francese tentò di limitare l’importazione dei format, cercando di imbrigliare la tv, fin dalla sua apparizione, a scopi educativi e culturali, promuovendo l’identità nazionale. Tale politica difensiva della cultura alta contro i format dimostra quanto l’origine di questi sia stata di natura popolare.
I format permisero alle emittenti di controllare i rischi: se un programma aveva funzionato in un determinato contesto, era possibile, considerando il pubblico di riferimento, adattarlo in un altro, seguendo alla lettera quella che viene chiamata production bible: una guida, che faceva parte del pacchetto del format, stilata dagli autori, contenente l’outline del programma, ovvero tutti i passaggi necessari per riprodurre il format, le linee insostituibili e gli elementi modificabili per la cultura locale.
Fino agli anni novanta i palinsesti televisivi rimasero pressoché invariati, e i format consistevano fondamentalmente in game show; successivamente, lo sviluppo delle nuove tecnologie da un lato, la caduta della cortina di ferro e l’allargamento del mercato europeo e mondiale dall’altro, determinarono la formazione di un vero e proprio mercato globale dei format, che esplose grazie ai talent e ai reality, super-format come Big Brother, che esercitarono subito fascino sul pubblico poiché fabbricano gli eroi del mondo contemporaneo, «eroi per una cultura competitiva, individualista e materialista».

L’analisi di Chalaby procede indagando le strutture, i flussi commerciali, la governance, le leggi di mercato. L’autore fa notare come anche «questo mercato è influenzato dalla storia e riproduce i modelli e le strutture di potere dei precedenti sistemi di scambio commerciale. […] Tuttavia, a differenza di quanto accade per le esportazioni di combustibili e minerali, le nazioni hanno la possibilità di unirsi alle fila degli esportatori di proprietà intellettuali».
I più ottimisti hanno posto l’accento sulla natura cosmopolita degli scambi, ma l’autore riporta l’attenzione su «l’influsso delle strutture di potere capitalistiche sull’industria televisiva mondiale e il suo sempre maggiore radicamento nel sistema di compravendita internazionale. […] Dalle spezie alla seta e dal caffè alla proprietà intellettuale, le merci hanno sempre seguito rotte specifiche».
Lo studio consente di farsi un’idea del dibattito tra i sostenitori della «globalizzazione cosmopolita» e coloro che considerano il commercio dei format come una forma di «imperialismo culturale».

Chalaby cerca di mettere in luce le ingenuità dei primi, ma non condanna in toto la globalizzazione commerciale e industriale della televisione, anzi, individua nella natura del format il valore dello scambio globale: «un buon format è una piattaforma che sparisce dietro il dramma che crea».
Di conseguenza, per diventare internazionale, un buon format ha bisogno di diventare locale, di entrare in sintonia con gli spettatori del territorio in cui va in onda, apportando benefici alla cultura locale anziché distruggerla.
Sarà interessante in futuro valutare se “l’era dei format” che ha segnato finora la storia dell’intrattenimento televisivo mondiale sopravvivrà a quella che sembra ormai essersi già configurata come l’“era delle serie”.

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