Decodificare il presente, raccontare il futuro

RECENSIONE


mar 27 giugno 2017

IL RESISTIBILE FASCINO DEL PLATFORM CAPITALISM

La caratteristica dominante della sharing economy è quella di “catturare” e appropriarsi della capacità collettiva di sviluppare cooperazione sociale, attraverso le piattaforme digitali. Se prima il capitale si avvaleva di una strutturazione verticistica il cui moto era dall’uno ai molti, ora, senza abdicare al suo potere estrattivo, si avvale di una strutturazione – e relativa comunicazione – che è dai “molti ai molti”. Il "capitalismo delle piattaforme" raccontato nell'ultimo libro di Benedetto Vecchi per manifestolibri.

Sharing economy, gig economy, post-fordismo, cognitivismo. Negli ultimi trent’anni il termine “capitalismo” è stato riformulato o affiancato da aggettivi e prefissi vari, nello strenuo tentativo di coniare un linguaggio utile a spiegarne mutazioni e riconfigurazioni, alla luce della rivoluzione digitale e della globalizzazione.
Nel suo scritto Il capitalismo delle piattaforme, uscito per i tipi di «manifestolibri» nella nuova collana inbreve, Benedetto Vecchi ripercorre queste varie formulazioni e soprattutto le relative declinazioni interpretative, attraverso una rapida ma accorta panoramica sui testi critici più significativi, e un rodaggio degli stessi rispetto alle odierne mutazioni di forme lavorative e rapporti di produzione re-imposti dal capitale.
Capitalism reloaded

Dopo il “system failure” dei primi anni Zero,  il capitalismo, secondo l’autore, ha completato il suo ripristino attraverso una «ricombinazione di passato, presente e futuro nelle forme del vivere associato», che prevede da una parte il consolidamento interno della connessione tra cibernetica e revival del lavoro servile, dall’altra l’implacabile affermarsi esterno, tramite la sua legittimazione come unico modo di produzione naturale e la brutale violenza nell’imporsi mediante il braccio armato degli stati.
In questa odierna ricarica, senza dubbio, la Rete e quindi la diffusione della network culture hanno giocato un ruolo fondamentale, in quanto medium universali e indiscussi della produzione di merci. Per comprendere gli inediti meccanismi del capitale si è quindi dovuto – e si deve, si dovrà – ricorrere a nuove categorie critiche, ed è stato necessario – e lo è, lo sarà in maniera sempre più incalzante – sviluppare altre capacità d’analisi.
Uno dei primi e più significativi tentativi, ricostruisce Vecchi, è quello di Capitalismo digitale di Dan Schiller. Il libro esce agli inizi degli anni ’90 ed è il primo a mettere in quadra le caratteristiche principali del capitalismo digitale, o cognitivo che dir si voglia: ossia l’esigenza di replicare alla crisi strutturale di sovrapproduzione e sottoconsumo; la frammentazione della produzione e la conseguente dislocazione geografica; il coordinamento di questa dislocazione attraverso le tecnologie digitali; la presunta ricomposizione delle fasi di progettazione ed esecuzione, rigidamente divise nel mondo chiuso delle fabbriche, e la sedicente autonomia dei ritmi lavorativi da parte del “cognitivista”.

Tutti elementi che Schiller, ancora secondo Vecchi, ha la lucidità di cogliere ma di mantenere troppo schiacciati su una visione che voleva la tecnologia come una «mega macchina» al servizio del capitale. A questa rischiosa “riduzione”, prosegue l’autore, replicano con maggior sottigliezza quella serie di intellettuali – “post-fordisti” – che, già tra gli ’80 e i ’90, rileggono e reinterpretano i Grundrissedi Karl Marx fino a concentrare il focus non tanto sul sistema di macchine, quanto sugli elementi della natura umana coinvolti nella produzione. Ecco che “sentimenti”, “capacità relazionali” e “linguaggio” compongono quell’enorme potenziale, sintetizzabile nel general intellect, di cui il capitale sceglie di foraggiarsi. Di più: è l’intera filiera di produzione, circolazione e distribuzione che viene messa uniformemente a valore.

La produzione diventa “sociale”, coinvolge cioè le fasi di circolazione e distribuzione e, prosegue Vecchi, deve giocoforza avvalersi dei flussi apparentemente immateriali della finanza. Subentrano allora – collaudate in primis negli Usa – le forme del venture capital e del crowdsourcing, rispettivamente l’apporto di capitale di rischio nel finanziamento di un’attività e la richiesta continua e pervasiva di feedback virtuali da parte degli utenti, potenziali consumatori.

Da questo momento in poi ogni analisi del capitalismo diviene fallace se non considera il carattere duale della finanza: “parassitario” e insieme di “governo delle vite”. Cioè la massima libertà (del mercato) si affianca al massimo sfruttamento (della forza lavoro), e ad una pervasività di entrambe nell’esistenza umana. Se prima il capitale si avvaleva di una strutturazione verticistica il cui moto era dall’uno ai molti, ora, senza abdicare al suo potere estrattivo, si avvale di una strutturazione – e relativa comunicazione – che è dai “molti ai molti”.
«È in questo contesto che espressioni come sharing economy, gig economye capitalismo delle piattaforme definiscono il lessico teorico-politico necessario a cogliere gli elementi fondanti del capitalismo contemporaneo, registrando il fatto che la partecipazione ai social network e alle piattaforme del commercio online (l’e-commerce, ndr), è ormai diventata un’esperienza quotidiana per miliardi di persone. E che dietro a ogni click c’è un mondo lavorativo e relazionale da indagare nuovamente».

Platform capitalism

Amazon, Netflix, Google, Facebook, Instagram, Twitter, ma anche Uber e Airbnb sono tutte realtà che, secondo Vecchi, determinano un panorama ormai trasformato e non più, come poteva essere agli inizi dei ’90, una fase di transizione entro cui doversi orientare. Questo è un dato utile a leggere retroattivamente – e superare, se necessario – un testo come quello di Schiller e, sia pur con la consapevolezza che è un momento storico segnato da mutamenti propulsivi, poter designare l’era odierna come quella in cui agisce e si afferma il platform capitalism, il capitalismo delle piattaforme.
Passando per la teoria delle onde lunghe di Kondatriev, il Frammento sulle macchine di Marx e le recenti analisi di Paul Mason, Vecchi definisce la caratteristica dominante della sharing economy nella capacità di “catturare” e appropriarsi della capacità collettiva di sviluppare cooperazione sociale, attraverso, appunto, le miriadi di piattaforme e app digitali.
Quindi, sulla scorta di Nick Srnicek, autore dell’omonimo volume (Platform capitalism) che ispira questo scritto, Vecchi riassume i tre noccioli duri del “capitalismo delle piattaforme”:
  1. Il suo carattere assolutamente liquido, pervasivo e transnazionale, e di certo invulnerabile a barriere e confini auspicati dai vari e inquietanti sovranismi di turno.
  2. Il suo modello, individuato da Srnicek nella Nike, di accentramento dei processi gestione e ideazione, e di decentramento radicale di tutte le attività a basso contenuto cognitivo.
  3. Il complesso “militare-digitale” di cui si avvale per esercitare il suo potere e il suo controllo nella sempre più stringente unità spazio-temporale.
  4. La sua diramazione e multiformità distinguibile in almeno cinque tipologie: l’advertising platform, cioè la vendita di banner pubblicitari; la cloud platform, cioè l’esercizio della proprietà su hardware e software; l’industrial platform, cioè la fornitura di tecnologie organizzative; la product platform, cioè il subappalto di servizi ad altre piattaforme; la lean platform, cioè l’erogazione di servizi di vario genere, tra cui il trasporto (Uber) e il pernottamento (Airbnb).

Logistical state

In questa riformulazione del potere estrattivo e dei rapporti di produzione Vecchi spiega inoltre come il capitale abbia dovuto anche ristrutturare le proprie “impalcature”. Ecco che il focus, dopo un affondo storico che ne traccia le origini militari e odierne configurazioni militaresche, si sposta sull’analisi delle tecniche organizzative, ovvero della “logistica”.
«La logistica è un fattore fondamentale dello sviluppo capitalistico, perché non solo agisce nel ridisegno delle sovranità nazionali, ma anche nelle forme di vita e nel rapporto tra le classi. È quindi un fattore di gestione del doppio movimento tra diffusione spaziale della produzione – decentramento e outsourcing del processo lavorativo – e accentramento delle strutture decisionali, che trovano nello Stato un fattore non residuale».
L’espressione del biopotere di oggi è quindi sintetizzabile nell’espressione del Logistical State, cioè di un contesto in cui la progressione tecnica ed esecutiva del modo di produzione capitalistico si fonda sulla logistica avvalendosi della computer sciencecol risultato di determinare il seguente panorama: sfruttamento intensivo della forza lavoro piegata ai ritmi del just in time + trasformazione della morfologia territoriale (grandi opere, alta velocità, ragion d’essere esclusivamente consumistica degli spazi agibili) + militarizzazione dei luoghi pubblici per il mantenimento del controllo e della “pace sociale”.

In un contesto simile, è chiaro che l’orizzontalità propagandata agli albori della rivoluzione digitale è ormai una pia illusione, come lo è anche la sedicente autonomia del cognitivista che ripiomba in una morsa i cui tempi e ritmi sono definiti da algoritmi a da app«contro i quali è vana ogni forma di resistenza e conflitto»
Tuttavia Il capitalismo delle piattaforme è ben lungi dal concludersi con un invito alla rassegnazione. «La mappa del capitalismo contemporaneo manca di un confronto serrato, anche disincantato con il Politico», conclude Vecchi, un “confronto” che va riattivato in maniera decisa e, se necessario, per nulla pacificata. Nella speranza di ricostruire percorsi collettivi e, stavolta, davvero orizzontali, che sprigionino nuove soggettività in grado di lanciare produrre cortocircuiti nello strutturato e sistemico, ma non infallibile, capitalismo delle piattaforme.
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