Nel cinema la borghesia mangia di continuo, beve spesso, fuma un po’ più di rado, ma soprattutto ha una costante: è sempre chiusa in casa. In una lunga, infinita, abominevole e godereccia quarantena. Avere una casa, dei soldi, del cibo, una rendita, un lavoro, non è un diritto garantito a tutti. È un privilegio per pochi, esiste dalla notte dei tempi, persiste prima e dopo l’epoca della pandemia.
Tutto è una maschera, tutto è ambiguo. Come la risata. E anche la comicità viene letta come un artificio codificato: è la società che ha scelto per voi come dovete ridere. Ma il Joker di Todd Phillips non può farlo, non può ridere a comando, perché non possiede i “tempi comici” dettati dalla farsa in cui viviamo.
Superando il suo consueto “meta-cinema”, Tarantino stavolta imprime su celluloide un incredibile saggio di guerriglia culturale, un manuale di rivolta urbana contro l’industria addomesticata di Hollywood e delle odierne piattaforme.
Con “I morti non muoiono” Jim Jarmusch dirige la messinscena nel limbo sottile e dissacrante che esiste tra cinema e realtà, tra satira e politica, tra la seria criticità del presente contemporaneo e un’inarrestabile risata che ci seppellirà.
Il cinema è costellato da pellicole in cui il luogo fisico o l’entità metaforica della “banca” diviene snodo essenziale della narrazione. Ma è solo dopo la Crisi del 2008 che il cinema di Hollywood osa fare il passo successivo. Se, come nei film di Penn o Lumet e fino a “Inside Man” di Spike Lee diventa facile stare dalla parte dei rapinatori, che in quest'ultimo caso rubano a un vecchio criminale