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mer 29 maggio 2019

PROUD TO BE A NOWHERE MAN, OVVERO “LA TUA PATRIA È IL MONDO INTERO”

Ogni volta che una fase di entusiasmo e sviluppo espansivo è seguita da una crisi dello stesso capitalismo, il sistema reagisce contraendosi a riccio e alimentando, per tenere a bada il conflitto di classe, una lotta tra poveri attraverso la retorica di una presunta identità nazionale da riconquistare.

Nell’autunno del 2016, durante la campagna in favore della Brexit, Theresa May dichiarava che se si crede di essere cittadini del mondo, in realtà si è cittadini di “nessun luogo”, cioè non si coglie il vero significato della parola “cittadinanza”.
Per dirla con una vecchia canzone dei Beatles, ci si ritrova a essere un “nowhere man”, e non con rimando a uno smarrimento sentimentale quanto, secondo il discorso del Primo ministro del Regno Unito, all’archetipo (negativo) dell’individuo cosmopolita, senza radici culturali né appartenenza alla Patria, che avrebbe votato a favore del “remain” nell’ormai famigerato referendum britannico.
Tre anni dopo, cioè oggi, Theresa May si dimette ma il suo Paese – anzi l’Europa intera – rimane in balìa di inquietanti revival nazionalisti spacciati per moti d’orgoglio popolare da più forze politiche, tra cui il rinvigorito – almeno a questa tornata elettorale – “Brexit party” di Nigel Farage.
Un paio d’anni fa la forgiatura di questa retorica neo-nazionalista veniva scandita dal libro The Road to Somewhere del conservatore David Goodhart.
L’autore cercava di dare un’investitura ideologica alla Brexit mettendo in contrapposizione l’anywhere man, cioè l’individuo privo di identità, con il somewhere man, cioè l’individuo ben più saldo e sicuro di sé perché appartenente a un preciso territorio e fiero di rivendicarlo.
La rinnovata questione identitaria, evidentemente, ha ammantato la dialettica politica globale degli ultimi anni. È la tesi – in antitesi con il pensiero di Goodhart – di un altro britannico, il sociologo Colin crouch, esposta nel volume Identità perdute, pubblicato in Italia quest’anno nella collana “Tempi Nuovi” di Laterza.
Persino le sedicenti “sinistre”, spiega Crouch, non sono rimaste immuni dal fascino nazionalista di ritorno. Lo dimostrano il successo della retorica “sovranista” di Jean-Luc Mélenchon in Francia, di una parte di laburisti pro Brexit e di molteplici altri casi europei che hanno assunto delle tinte “rossobrune”.
L’assunto di fondo di Crouch è che il processo di globalizzazione avvenuto secondo l’ideologia (neoliberista) dominante, oltre ad aver sconvolto gli equilibri economici, ha anche operato una forte cesura antropologica dividendo il mondo occidentale tra soggetti che hanno subito passivamente i mutamenti radicali e soggetti che hanno provato ad adattarvisi covando risentimento. Un risentimento tramutato in reazione e catalizzato – come sempre (ri)accade nella Storia – contro l’altro, in difesa di una fantomatica identità da riconquistare.
Il paradosso politico, afferma Crouch, è che – ben lungi dal non esistere più Sinistra e Destra – parti tradizionalmente a Sinistra hanno cominciato a spostarsi verso la Destra più conservatrice sul tema della Nazione.
In questo ambiguo rimescolamento di fronti egemonizzato dalla retorica (neo)sovranista, è andato in frantumi anche il fronte liberale che, se prima viveva della sua costante ambivalenza di vicinanza alla Sinistra su diritti civili e temi “etici” e completa aderenza alla Destra su ricette economico-finanziare, ora ha dovuto scartare in favore di un’inevitabile polarizzazione su posizioni reazionarie e conservatrici.
L’affondo finale di Crouch è che non potendo esistere una “vera identità europea” da contrapporre alle – seppur fallaci e regressive – identità nazionali, le forze “pro-Ue” – colpevoli, certo, di aver perpetrato o concesso quell’irresponsabile serie di tagli al welfare pubblico passata alla storia come la nuova Austerity – si è trovata sprovvista di argomentazioni che fossero altrettanto convincenti rispetto alla rinnovata e crescente ascesa dei discorsi nazionalisti.
Il punto, secondo Lorenzo Marsili – autore di La tua patria è il mondo intero, edito di recente da Laterza proprio nella stessa collana in cui è uscito il volume di Crouch –, è che bisogna ripartire da una vera e propria dissoluzione del concetto di identità (nazionale) e protendere, invece, verso una politica che rimetta i conflitti di classe e le contraddizioni della società al centro di un fronte universale.
Nel suo volume, dialogando con la storia e monitorando il presente, Marsili ammonisce sul fatto che sono tre le principali sfide del momento storico: il clima, l’avanzamento tecnologico e le disuguaglianze sociali. Tre sfide che, per orizzonte di giustizia e concretezza d’azione, vanno ben oltre le soluzioni regressive e inquietanti che propongono i nazionalismi di ritorno.
Ogni volta che una fase di entusiasmo e sviluppo espansivo (l’alba del ‘900, la globalizzazione) è seguita da una crisi dello stesso capitalismo (i primi decenni del ‘900, la Grande Recessione del 2007), allerta Marsili, il sistema reagisce contraendosi a riccio, esacerbando le disuguaglianze e reprimendo qualsivoglia movimento di protesta attraverso lo spargimento di sangue delle guerre e degli autoritarismi.
Per questo, oggi, la sfida dell’Europa è porsi – a differenza dei suoi pregressi imperialisti – come un interlocutore globale che promuova l’abbattimento (e non più la colonizzazione o peggio la costruzione) delle frontiere e la risoluzione delle disuguaglianze attraverso politiche che includano attivamente la comunità internazionale.
Tra i sovranismi in ascesa e l’agonizzante ideologia neoliberista, Marsili – seguendo le orme di Yanis Varoufakis – propone una “terza via”, il cui slogan aggregativo sia quello di oltrepassare i nazionalismi e tendere a guardare al mondo intero come unica patria da difendere.
Il titolo del libro, non a caso, è mutuato da uno stornello dell’anarchico Pietro Gori che – già ravvisando agli albori del Novecento le oscure piaghe dei totalitarismi identitari – accompagnava la sua prassi politica cantando «nostra patria è il mondo intero». Un’eredità di pensiero che verrà ripresa dal movimento alter-globalista dei ’90 il cui obiettivo fondante era battersi per un “altro” mondo.
Anche la storia dell’Uk, del resto, è costellata di movimenti e controculture, di “nowhere people”, che hanno inciso profondamente sull’immaginario collettivo opponendosi agli autoritarismi e alle ingiustizie sociali, soprattutto alla lotta tra poveri alimentata dagli stessi governi nazionali che, millantando di difenderne i diritti, accrescevano le disuguaglianze tra i cittadini.
Il contrapporsi al nefasto credo nazionalista è stata, da subito, la costante cifra stilistica dei Clash, primi grandi interpreti del cross-over di rottura e autori di quel grandioso album – Sandinista! – in cui si passava dal reggae al punk attraversando la dub, in cui la Jamaica approdava a Londra, una città che Joe Strummer e i suoi volevano aperta e senza fottuti confini di sorta.
Nel 2006, ben dieci anni prima del discorso propagandistico della May citato in apertura, la pellicola This is England di Shane Meadows preannunciava una possibile recrudescenza della matrice identitaria raccontando come il movimento degli skinhead, nato a cavallo con gli anni infernali del tatcherismo, fosse stato fagocitato e distorto da alcune frange nazionaliste.
Ecco, oggi la lezione suggellata dagli ultimi fotogrammi di This is England, in cui il giovane protagonista avvolge la bandiera inglese in una pietra e la scaglia in mare il più lontano possibile da sé, è più che mai urgente. Perché abbiamo bisogno di un’unica bandiera sotto cui riunirci, universale nell’essere contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e soprattutto priva di identità esclusive.
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