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gio 14 aprile 2022

DIMMI COSA VEDI TU DA LÌ: DIETRO LE QUINTE DEI DIAVOLI

In questo estratto dal suo ultimo libro “Dimmi cosa vedi tu da lì”, la voce narrante di Guido Brera indaga luci e ombre del mondo della finanza che hanno costituito il serbatoio narrativo della sua produzione letteraria fino allo sfocio nella serie internazionale. Ci conduce dietro le quinte dei Diavoli.

In Dimmi cosa vedi tu da lì, l’ultimo romanzo di Guido Maria Brera edito da Solferino e in questi giorni in tutte le librerie, c’è un fil rouge che lega la figura di Federico Caffè (l’economista keynesiano scomparso in quel lontano ’87) a quella del professor Philip Wade, malinconico e avveduto personaggio della serie dei Diavoli da cui il protagonista Massimo Ruggero sempre ritorna quando le cose precipitano e c’è bisogno di una luce nella tempesta. E, controcampo, In dimmi cosa vedi tu da lì c’è una trama più oscura che intreccia la figura di Larry Summers («eminenza grigia del capitalismo americano») a quella di Derek Morgan, mettendo a nudo la genesi creativa del più machiavellico personaggio di Devils.

Nell’estratto che segue la voce narrante di Guido Brera indaga luci e ombre del mondo della finanza che hanno costituito il serbatoio narrativo della sua produzione letteraria fino allo sfocio nella serie internazionale. Ci conduce dietro le quinte dei Diavoli.



Larry Summers, il Signore dei Diavoli

Nell’universo narrativo dei Diavoli, c’è un personaggio che racchiude e condensa meglio degli altri la missione di questi monaci-guerrieri. È il white anglo-saxon protestant Derek Morgan, dominus del rigore applicato al potere, per vent’anni ai vertici di una grande banca d’affari. La sua lucidità è totale, il suo potere è intangibile, il suo anonimato una garanzia. Si muove dietro le quinte, invisibile al pubblico, ma ha signoria su tutto ciò che il pubblico vedrà. Morgan decide quando lo spettacolo ha inizio, e tira il tendone quando è tempo di chiudere. Se il Tredicesimo piano è la tavola rotonda dei cavalieri di Camelot, lui è re Artù. Una figura che occhieggia agli archetipi epici per proporre una versione iper-contemporanea di leadership.

Quando conobbi Patrick Dempsey, a cui era stato affidato il ruolo di Derek nella fiction televisiva tratta da I diavoli, successero due cose.
La prima: mi chiese di cambiare il nome del personaggio in Dominic, perché per undici anni aveva interpretato la parte di un altro Derek, il dottor Shepherd di Grey’s Anatomy.
La seconda: gli regalai una vecchia edizione de I fratelli Karamazov e lo pregai di leggerne alcune pagine per calarsi nei panni dell’Arci-Diavolo per eccellenza. Le pagine erano quelle in cui Dostoevskij racconta la leggenda del Grande inquisitore: la storia dell’incontro – nella Spagna del Quattrocento – tra il Cristo risorto e il capo dell’Inquisizione che lo ha fatto arrestare. Cristo non capisce di quale colpa sarebbe reo, il Grande inquisitore ruggisce che la libertà offerta ai cristiani dal suo esempio non è adatta a tutti gli uomini. Così, c’è bisogno di un’autorità forte che amministri la libertà, fingendo di farlo in nome di Cristo stesso. Un inganno freddo, sleale come ogni inganno, ma in ultima istanza necessario.

Quando conobbi Patrick Dempsey gli regalai una vecchia edizione de I fratelli Karamazov e lo pregai di leggerne alcune pagine per calarsi nei panni dell’Arci-Diavolo per eccellenza.

La connotazione di Dominic Morgan prende forma proprio da quell’archetipo letterario. Come lui è il fulcro di un meccanismo che determina esistenze, come lui opera nascostamente. Manipola la libertà grezza per dare una libertà apparente, tesa a uno status imperturbato. Dominic non è un avido, volgare speculatore, ma un pastore di greggi ingannate che opera al di là del bene e del male nell’interesse di quelle stesse greggi.

Per tratteggiare il suo personaggio ho mescolato rimandi a più figure, ma ce n’è una che ha pesato più delle altre. È l’eminenza grigia del capitalismo americano: ha agito, e continua ad agire, ai massimi vertici del sistema. Negli ultimi trent’anni, quest’uomo è stato l’incarnazione liquida del potere.
Il suo nome è Larry Summers, ed è la mente più affilata dei Diavoli.

Il mare d’inverno è uno specchio di malinconie, una lastra di vetro con le crepe del tempo.
Nel dicembre 2020, il mare d’inverno è molto più di un rifugio, lo spazio di un esodo imposto dal virus. Sono tra i privilegiati che possono lavorare a distanza, ma nessuna distanza è sufficiente a preservarmi da un malessere che sembra non voglia lasciarmi. Stringe forte, mi attanaglia. Fa male. Dalla casa sul promontorio si domina il braccio di mare compreso tra questo tratto di litorale tirrenico e l’isola che si staglia sulla linea dell’orizzonte. Posso vedere il sole adagiarsi sulle onde e allungare i suoi raggi fino a lambire i sassi, neri e lucidi, della spiaggia ai piedi della scogliera. Da una parte la distesa d’acqua, dall’altra la cascata di massi e terra che delimita la piccola insenatura, e nel mezzo quei piccoli sassi arsi dal sole o accarezzati lentamente dal mare. La mia vita non è molto diversa da quella spiaggia di ciottoli. […]

Qui, sul finire dell'anno primo dell’èra del contagio, scelgo di vivere il confinamento imposto dal virus. Non si tratta solo di stare isolato. C’è anche un ripiegamento interiore, in questo stato di sospensione, un dover guardare dentro. Sono con mio figlio Roberto che sta seguendo da remoto i corsi del primo anno d’università.
Il sole invernale tinge il cielo di un giallo indefinibile, che verso il tramonto diventa un arancione dalla consistenza irreale. Irreali sono anche le tonalità del mare durante le immersioni in apnea che mi proiettano in un universo senza contagio. Mi colpisce il paradosso di un mondo ribaltato in cui la libertà coincide con l’assenza d’aria. Sott’acqua, i colori sono quelli dei sogni e mi sembra di rivivere le pagine di un libro scritto tanti anni prima.

Proprio qui, tra il mare e il cielo, mentre imperversa la seconda ondata della pandemia, ricevo una mail dall'oggetto singolare. Cinque parole che compongono una sfida: “Pane per i tuoi denti”.
Il mittente è A. F., lo strategist del mio fondo. Un intellettuale dagli interessi sconfinati, capace di muoversi con disinvoltura tra filosofia, economia, politica, storia.

Dimmi cosa vedi tu da lì (Solferino 2022), acquistabile in tutte le librerie e presso gli store on-line.


Se Larry Summers è il modello ideale su cui ho elaborato il personaggio di Dominic, A. F. è quello che ha ispirato il personaggio di Philip Wade, un colto professore del Birkbeck College di London City, figlio orgoglioso della working class di Liverpool, appesantito dagli anni e dalla disillusione. Nel mondo dei Diavoli, Phil esprime il punto di vista dei più fragili e della classe media in via d'impoverimento. […]

Il professor Wade, Phil il Rosso. Uomo del Novecento e del vecchio Labour, strenuo avversario del blairismo, estraneo alla società di oggi ma lucido quando si tratta di leggerla. Negli anni Settanta del Novecento ha studiato a Roma presso una scuola prestigiosa: quella di Federico Caffè.
Tutto si tiene.

La mail di A. F. conteneva un allegato dal titolo: A Reconsideration of Fiscal Policy in the Era of Low Interest Rates. Un paper di una cinquantina di pagine sulla stagnazione economica e sulla funzione delle politiche fiscali e monetarie. Il testo era redatto a quattro mani. Uno degli autori, Jason Furman, insegnava Economia ad Harvard. L'altro non aveva bisogno di presentazioni perché è l'ossessione che coltivo da anni e che orienta la mia immaginazione. Mentre il virus prendeva in ostaggio il pianeta, Larry Summers era tornato con uno scritto che prometteva di distinguere un prima e un dopo.

Ogni sua parola ha una consistenza significativa. Esprime lo spirito del tempo, dà rappresentazione al pensiero dominante, ma anticipa anche la tendenza e annuncia the next thing. Dunque ogni sua parola va considerata, pesata, interpretata. Summers è lo Zelig degli economisti. Perfino quando sembra in opposizione alla politica in atto, ha in sé l’essenza del Washington consensus, un modello di intervento nelle economie in via di sviluppo che nasce con la dottrina elaborata nel 1989 dall’economista John Williamson e sintetizzata in un celebre decalogo.

Il professor Wade, Phil il Rosso. Negli anni Settanta del Novecento ha studiato a Roma presso una scuola prestigiosa: quella di Federico Caffè. Tutto si tiene.

Clintoniano di ferro, emblema degli anni Novanta, Larry è l’alchimista delle ricette economiche, colui che ricombina, mischia, confonde soluzioni democratiche e proposte repubblicane. Incarna l'estremismo centrista, di cui ancora paghiamo le conseguenze. Per lui non esistono barriere tra pubblico e privato. Per lui i ruoli apicali si assommano, le loro diversità sfumano. È stato Segretario al Tesoro, rettore di Harvard, consulente del potente fondo di venture capital Adreessen Horowitz, socio di uno hedge fund. E Chief Economist della World Bank: una posizione dalla quale ha costretto i Paesi debitori del Terzo mondo a implementare politiche di austerity, in nome della difesa di antichi principi – da lui considerati semplicemente inviolabili – come l’onorabilità dei debiti e la sacralità degli impegni contratti.

È Summers, inoltre, a ispirare l’abrogazione del Glass-Steagall Act, il provvedimento del 1933 con cui – quattro anni dopo il Giovedì nero che aveva dato il via alla Grande Depressione – veniva istituita la separazione tra banche commerciali e banche di investimento perché non si ripetesse la catastrofe finanziaria del 1929. Summers è tra i responsabili della deregulation bancaria selvaggia che ha precipitato il mondo nel baratro della crisi del 2008. Non a caso, l’amministrazione Obama è in seguito corsa ai ripari proprio tornando ad alcune misure del vecchio Glass-Steagall. La storia si ripete e non sempre come farsa.

Eppure, lui è ancora lì. Eppure, è più forte di prima: più forte che mai. Lawrence Harry Summers è l'ordine occidentale. Sempre in piedi, anche quando intorno tutto frana. Sempre innocente di fronte ai danni che ha provocato.

Per chi si occupa di finanza, capire e anticipare le sue mosse significa guadagnare tanto in poco tempo. Ma anche poter calcolare il ritmo di distruzione e ricostruzione che le sue azioni comportano. Larry Summers. Il simbolo di questa fase del capitalismo che vede la bestia abbeverarsi di crisi e ristrutturazioni – distruzione e ricostruzione – in un loop continuo, ma anche il simbolo di un’epoca in cui la politica sembra svanita e l’onere di tenere in piedi il sistema grava sulle spalle di economisti costretti a muoversi tra le fazioni in lotta. Summers è il capo ideale di questi “tecnici” costretti a un ruolo di eterna supplenza.

Dopo una prima, veloce lettura, il paper mi sembra avere una portata gigantesca. Può davvero lasciare il segno e operare una radicale inversione di tendenza. Difficile trovare un paragone valido. Per certi versi, la discontinuità di queste pagine è paragonabile alla cesura della contro-rivoluzione conservatrice che chiudeva i Trent’anni gloriosi del keynesismo e inaugurava l’eterno presente, gli anni Ottanta in cui l’otto ruotava di novanta gradi a indicare l’omega dell’infinito. Il tempo nuovo: la stagione – buffa e cattiva – in cui Federico Caffè aveva scelto di scomparire.

Mi chiedo se l’avvenire sarà davvero di spettri e fantasmi, de les revenants del keynesismo. Mi chiedo se davvero gli sconfitti di ieri torneranno come vincitori di domani.

Inoltro il paper a pochissimi amici, con i quali mi confronto da quasi trent’anni – specialmente quando la lettura del contemporaneo chiama al cambiamento. Tutti sono d’accordo nell’interpretazione: Furman e Summers hanno tracciato la linea, hanno annunciato la fine di un ciclo che pareva senza fine e segnato l’inizio di un’altra epoca.




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