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MONITOR


mar 18 ottobre 2016

INCUBO AMERICANO

Se Donald Trump è il delitto, Hillary Clinton è il castigo. Se il primo è la rottura (pericolosa) con il sistema, la seconda è il compromesso che garantisce che nulla (o quasi) cambi. Se il partito repubblicano è morto da tempo, quello democratico non sta tanto bene. L’establishment sceglie Clinton, ma non è tempo di grandi endorsement, anzi.

Ecco come bisogna guardare agli Stati Uniti d’America: considerando tutte le visioni possibili senza sceglierne una da imporre. Abbiamo avuto la presunzione di essere come Lucifero, portatori di luce. Abbiamo sbagliato. Abbiamo voluto scegliere Hillary Clinton nel segno della continuità. Abbiamo sbagliato. Rischiamo che una variabile nuova ci sfugga di mano, come in UK. Non dobbiamo più puntare su un solo cavallo per vincere. Dobbiamo addomesticare tutti i cavalli per non perdere. Una volta: We shall be all, dicevano alcuni. Dobbiamo tornare nell’ombra e dobbiamo essere tutto. Da La biofinanza contro la rabbia e il dissenso – Il Tredicesimo piano
Se Donald Trump è il delitto, Hillary Clinton è il castigo. Lui è il vulcanico e misogino magnate di New York, incarna (in veste grottesca) la protesta, cavalca la retorica anti-immigrati, è contro la globalizzazione e per il protezionismo nei commerci, invoca spese illimitate per la Difesa. Lei rappresenta l’establishment: è il volto rassicurante dell’America che verrà, conosce il sistema (è stata senatrice, First Lady, Segretario di Stato, prima donna a correre per la Casa Bianca nominata da un grande partito come quello democratico). Trump preoccupa la politica interna ed estera (da un lato i neocon liberali del GOP, dall’altro gli alleati per via delle sue uscite pro-Putin), spara a zero su Federal Reserve e Wall Street, terrorizza i guru dell’hi-tech nella Silicon Valley. Clinton, nonostante in tanti la descrivano come «volubile e fredda», convince investitori e big business, ha gestito gli Usa del dopo l’11 settembre e la lotta al terrorismo (raccogliendo non poche critiche), ha tenuto testa al caos dopo il crollo di Lehman Brothers nel 2008.
Se il primo è la rottura (pericolosa) con il sistema, la seconda è il compromesso che garantisce che nulla (o quasi) cambi.
Se il partito repubblicano è morto da tempo, quello democratico non sta tanto bene. L’establishment sceglie Clinton, ma non è tempo di grandi endorsement, anzi. [Leggi qui lo speciale de “I Diavoli” e guarda qui la web serie del Tredicesimo piano in collaborazione con “La Stampa”, ndr].

Perché anti-Trump non sempre significa pro-Clinton

Tutto vero, fino a qui. Resta un problema. Hillary è il male minore: questo sembra ormai assodato. Eppure, il fatto che sia preferibile a Trump non significa che valga una scelta di campo pubblica e convinta. L’anti-Trump non sempre si traduce in pro-Clinton. Schierarsi contro l’ex immobiliarista non equivale a supportare (anche economicamente) la campagna della sua rivale. In questo senso le parole di Mason Harrison, capo comunicazione di Crowdpac (Silicon Valley), al “New York Times” la dicono lunga: «Chi dona per una campagna lo fa perché ama il candidato, non perché vuole sconfiggere quello di cui ha paura». Qualche mese fa le corporation tecnologiche avevano scritto una lettera,  firmata da 140 imprenditori, tra cui il co-fondatore di Twitter Evan Williams e il co-fondatore di Apple Steve Wozniak, criticando aspramente Trump. «Crediamo in un paese inclusivo che favorisca le opportunità, la creatività e regole uguali per tutti. Donald Trump no [non ci crede, ndr]» si legge. Perché non c’è stato lo stesso trasporto nel sostenere Hillary? Le spiegazioni sono diverse: in primis, Clinton non è Obama (pare che una volta finito il mandato, l’ex presidente voglia tentare la strada del venture capitalist), non è un simbolo per l’innovazione e il futuro dell’hi-tech, anzi. La candidata democratica critica le startup e l’economia “on demand” perché – diceva nell’estate 2015 – «sollevare questioni difficili, riguardo alla protezione dei lavoratori».
Hillary incarna il sistema. Pensaci. Hillary rassicura i nostri a Wall Street e pure la lobby degli idrocarburi. Hillary porta in dote le relazioni ereditate dagli anni Novanta in Medio Oriente. Hillary non si espone sulle armi. Alcuni la odiano perché è un prodotto dinastico, altri perché è donna, altri ancora perché rappresenta l’establishment. Hillary non mobilita, certo. Ma l’impresentabilità di Trump è la sua forza. Da Elezioni Usa. Il male minore – Tredicesimo piano

La vaghezza di Clinton

Clinton, anche se molto più preparata di Trump, si muove sempre su un terreno di dichiarazioni fumose e poco chiare. Gioca spesso sulle debolezze del suo avversario, si difende dagli attacchi, fa campagna su ciò che non sarà, ma parla poco di programmi.  Difende chiaramente la Fed (sempre in risposta a una sparata del competitor): «Quello che dice Trump dimostra che non dovrebbe essere presidente. Non dovrebbe aggiungere la Fed alla lista di istituzioni che attacca o su cui maligna». Sembra più affidabile per la salute dei mercati: uno studio ETradeFinancial rivela che il 45% degli intervistati la preferirebbe al tycoon.  Si è spesa in feste e banchetti tra Beverly Hills e gli Hamptons, come scrive il New York Times, alla ricerca di grandi donator tra vip e banchieri. Riguardo a Wall Street, in più occasioni, ha tenuto una linea “morbida”: invoca le regole, dopo il disastro del 2008, dice che «i ricchi devono pagare più tasse». Ma si tiene ben alla larga dall’essere chiara.
In tre diversi incontri organizzati da Goldman Sachs, davanti a una platea di potenziali “big donors”, tra la fine del 2013 (quando già non è più Segretario di Stato) e l’inizio del 2015, Clinton flirtava con i banchieri. A rivelarlo sono gli ultimi documenti diffusi da Wikileaks. Nell’ottobre 2013, affermava di avere «grandi relazioni» con i banchieri. Rispondendo a uno di loro mostrava empatia e confidenza: «Siete i più intelligenti». Riferendosi alla crisi del 2008, nella stessa occasione diceva: «Cosa è successo, come è successo e come evitiamo che succeda di nuovo? Voi ci aiutate a capire come e facciamo in modo che questa volta vada bene». Poi Clinton lasciava intendere che fosse necessario intervenire e frenare le esagerazioni di Wall Street «per ragioni politiche». E ancora: «Non ammazziamo né mutiliamo ciò che funziona, ma concentriamoci a trovare il modo più efficace per andare avanti con il potere intellettivo e finanziario che esiste qui».

Il GOP è morto (o quasi)

L’ultima crisi scoppia a ottobre, in piena campagna elettorale. Ma la lenta decadenza del partito repubblicano è sistemica. Matura negli anni Zero, con i Tea Party, gli attivisti dal basso che hanno conquistato un terzo dell’elettorato con le loro mobilitazioni complottiste, profondamente religiose e anti-evoluzione. Un lento declino che è passato dallo slogan del «conservatorismo compassionevole» e dell’«America’s top gun» del 2000, al cambio di passo impresso nel 2016 con «Make America Great Again» («Rendi l’America di nuovo grande»). Lo sfascio si è definitivamente consumato a meno di un mese dalle elezioni, mentre  l’ombra delle accuse di molestie sessuali si allungava su Trump. Un quarto dei rappresentanti del partito e anche 13 membri dell’amministrazione Bush hanno scaricato il candidato repubblicano e deciso di sostenere Hillary Clinton. I pezzi grossi dell’amministrazione di George W. Bush si smarcano con una lettera dal magnate e dalle sue affermazioni, dal suo stile di vita e dalla sua condotta pubblica, lontana dai valori di civiltà e onestà che stanno a cuore al partito repubblicano. Tra i firmatari compaiono l’ex ministro ai Trasporti, Mary Peters, e Christine Todd, che è stata a capo dell’Agenzia federale per l’Ambiente (Epa). Inoltre, secondo “Usa Today” in 87 (tra senatori, governatori e deputati) sarebbero contro la candidatura di Trump, ma alcuni ci starebbero ripensando – scrive il “New York Times”.
La creatura-Trump si serve di un linguaggio ridotto all’osso, che semplifica concetti complessi come la globalizzazione, la stagnazione dei salari, l’immigrazione, la disoccupazione, e li traduce in messaggi immediati. La velocità, il senso di urgenza, l’appiglio pop ne connotano il successo sui social network e in tv, e ne hanno finora accompagnato la scalata nei sondaggi. L’uso costante dell’aggettivo possessivo «nostro» va in tandem con parole come «trasparenza» e «correttezza», salvo poi sbattere nella piattaforma repubblicana contro i riferimenti agli alieni e a dubbie teorie contro l’immigrazione. Il vecchio GOP è morto, giurano alcuni. Ma la colpa, dicono altri, non è solo di Trump. Da Dov’eri quando Donald Trump ha ucciso il partito repubblicano?
Guarda qui la web serie de “I Diavoli” in collaborazione con “La Stampa” su Usa2016

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