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gio 8 settembre 2016

USA 2016. CLINTON E TRUMP ALL’ESAME DI ECONOMIA

Di piani economici dettagliati si parla troppo poco. Mentre Clinton è vaga su libero commercio e trattati internazionali, e sul peso che avranno i big donors e i grandi poteri economici in una sua eventuale amministrazione, il rivale repubblicano vuole una spesa illimitata per la Difesa, spara a zero su Federal Reserve e Wall Street, è pronto a rispedire a casa gli immigrati irregolari e incassa la diffidenza del mondo della finanza e dell’innovazione tecnologica

Hillary incarna il sistema. Pensaci. Hillary rassicura i nostri a Wall Street e pure la lobby degli idrocarburi. Hillary porta in dote le relazioni ereditate dagli anni Novanta in Medio Oriente. Hillary non si espone sulle armi. Alcuni la odiano perché è un prodotto dinastico, altri perché è donna, altri ancora perché rappresenta l’establishment. Hillary non mobilita, certo. Ma l’impresentabilità di Trump è la sua forza. Da Elezioni Usa. Il male minore – Tredicesimo piano
L’appuntamento alle urne è fissato per l’8 novembre. Tra due mesi gli americani saranno chiamati a votare il prossimo presidente degli Stati Uniti: la sfida si gioca tra la candidata democratica Hillary Clinton e il rivale repubblicano Donald Trump (qui lo speciale #iDiavoliCountdown, ndr). Quello che si sa finora è che non si sono risparmiati stoccate pesanti su fuga di email, dichiarazioni dei redditi, anti-terrorismo e immigrazione, Russia, etc. Ciò su cui entrambi gli sfidanti in corsa alla Casa Bianca si spendono meno nei comizi è l’economia. Di piani economici (dettagliati) parlano poco. Mentre lei è vaga sul libero commercio e i trattati internazionali, parecchio laconica sul peso che avranno i big donorse i grandi poteri economici in una sua eventuale amministrazione, il tycoon spara a zero su Federal Reserve e Wall Street, è pronto a rispedire a casa gli immigrati irregolari e incassa la diffidenza del mondo della finanza e dell’innovazione. Ciò che non manca in questa campagna elettorale sono le accuse reciproche: Clinton definisce Trump «il re del debito», lui la ribattezza «il diavolo».

Tasse, crescita e spesa pubblica: chi vuole cosa

Clinton è per il reddito minimo federale e per la redistribuzione del reddito: il suo obiettivo è ancorare la spesa pubblica al welfare. Vuole sostenere l’Obamacare (accesso facilitato alla sanità per i minori) e rendere il college gratuito. Trump, invece, parla di rendere la spesa «più efficiente» e pro-crescita, potenziare l’industria e cancellare la riforma sanitaria voluta da Obama; è contro il reddito minimo e contro il tetto di spesa per la Difesa: al contrario la sua intenzione è di investire su armamenti e soldati. La candidata democratica vuole alzare le tasse ai più ricchi e aumentare le aliquote sulle proprietà, ridurre la burocrazia e agevolare le piccole imprese. Il rivale repubblicano, al contrario, è orientato ad abbassare le aliquote per le società americane (dal 35% al 15%, come spiega anche Michael Boskin, professore di Economia a Stanford): per Trump «la middle class» americana va «protetta». A detta di Clinton, invece, la proposta del tycoon non è altro che una scappatoia fiscale: «Sappiamo che i 400 più ricchi d’America otterrebbero un taglio medio delle imposte di oltre 15 milioni di dollari l’anno con la scappatoia di Trump».

Lavoro, salari e crescita

«Troppe persone» non hanno avuto un aumento di stipendio dopo la crisi finanziaria del 2008, dice a luglio Hillary Clinton. Parla ai lavoratori d’America, alla middle class, alle famiglie che si sono impoverite negli ultimi otto anni. Poche settimane dopo aggiunge: «Mentre i profitti delle imprese sono a livelli quasi record, i salari per la maggior parte delle persone si sono mossi appena». Sono gli stessi giorni di piena estate e Donald Trump afferma: «Le famiglie americane stanno guadagnando 4 mila dollari in meno oggi rispetto a sedici anni fa». La guerra a chi la spara più grossa è sull’interpretazione dei numeri. I dati del Department of Commerce raccontano, fa notare il Wall Street Journal, che il reddito medio di una famiglia, calcolato sull’inflazione era di 57.843 dollari nel 1999 e che è crollato a 53.657 nel 2014. Senza tener conto dell’aumento dei prezzi, è invece cresciuto del 32%. Inoltre, Clinton è pronta a piazzare suo marito Bill come custode dell’economia Usa: sarà «incaricato di ridare vita all’economia». «Lui sa come farlo, specialmente in posti come quelli minerari [secondo Trump, vuole chiudere tutte le miniere] o poveri o in altre parti del Paese che sono state escluse» (dalla crescita), diceva Hillary già a fine maggio, facendo riferimento ai risultati economici ottenuti dal consorte durante la presidenza. I primi di giugno, invece, Trump aveva già pronta la sua personale ricetta per rilanciare l’economia statunitense. Diceva: obiettivo prioritario è «riportare posti di lavoro in Usa». E ancora, qualche settimana più tardi, aggiungeva altri slogan: «Lavoro, lavoro, lavoro. Dobbiamo rendere l’America di nuovo ricca». E la working class che fine ha fatto? Mentre l’elettorato di Trump è ancora difficile da comprendere (in linea di principio composto più dagli uomini bianchi della classe media secondo un recente sondaggio “Cnn”), Clinton ha per certo dalla sua i lavoratori del settore automobilistico. Presentando il suo piano economico ad agosto, esaltava infatti «l’industria automobilistica che ha appena avuto il suo anno migliore» e gridava: «Abbiamo la forza lavoro più dinamica e produttiva al mondo».
Se alcuni pensano ad alleanze che costano l’anima, lui pensa a patti che fondano equilibri più avanzati. È successo anche qualche giorno prima, quando gli ultimi leader neo-conservatori hanno proposto un incontro riservato ai capitalisti della West Coast per organizzare un fronte comune contro Trump. C’era anche lui in quell’isola della Georgia a incontrare i Signori dell’hi-tech. Alleanze spericolate. O nuove architravi per garantire stabilità. Solo su una cosa hanno ragione: ci si vende l’anima. Ma non è sempre così, con il Diavolo? Da Elezioni Usa. Il male minore – Tredicesimo piano

Tra anti-globalizzazione e sorveglianza sul libero commercio

«Signore e signori, è il momento di dichiarare la nostra indipendenza economica, ancora una volta»: contro la globalizzazione Donald Trump è scatenato. Se la prende con le aziende che spostano la loro attività all’estero, è contro la World Trade Organization (l’organizzazione mondiale del commercio) e per il rialzo delle tariffe commerciali, e critica ferocemente i trattati internazionali. Protezionismo e isolazionismo sono le sue parole chiave. «Quando sarò eletto presidente farò uscire gli Stati Uniti dalla World Trade Organization se il mio piano per tassare le aziende americane che importano sarà bloccato», promette a fine luglio ai microfoni della “Cnn”. Bolla il Wto come «un disastro» e ribadisce l’intenzione di colpire le aziende Usa che delocalizzano le loro sedi, «togliendo posti di lavoro agli americani».  Il candidato repubblicano si scaglia contro il TPP, Trans-Pacific Partnership, l’accordo commerciale con focus asiatico voluto da Barack Obama e  il Nafta, patto di libero scambio tra Usa, Messico e Canada. Dichiara guerra alla Cina, definendola come una «manipolatrice di valuta». Clinton, invece, si mantiene fin troppo vaga su questi argomenti. Se finora, da segretario di Stato aveva appoggiato i trattati internazionali (Nafta e TPP nello specifico), da candidata presidenziale prende le distanze dalle aperture sul libero commercio del passato: ora chiede maggiori controlli. Sulla gestione dei commerci nel Mare cinese del sud è un po’ più chiara: apre a un tribunale internazionale per coordinare i rapporti. In quella zona, infatti, la partita è territoriale. La Cina rivendica sovranità sulle isole Paracel e Spratly, mentre gli Usa contestano questa posizione e cercano appoggi in Giappone e Vietnam.

Immigrati «risorsa per la crescita» o «da deportare»

Mentre Hillary è pronta a una riforma dell’immigrazione e alla difesa dei diritti degli immigrati per la crescita del Paese, Trump propone il rimpatrio forzato di 11 milioni di persone e la costruzione di un muro al confine con il Messico (un’opera da 8 miliardi, estesa per circa 3 mila chilometri, coinvolgendo sei Stati americani e quattro messicani). La candidata repubblicana è più tollerante, ma anche più opaca rispetto ai termini della sua riforma. A fine luglio diceva: «La riforma dell’immigrazione globale farà crescere la nostra economia e ci consentirà di mantenere le famiglie unite, ed è la cosa giusta da fare». Il concorrente repubblicano, invece, è a Phoenix in Arizona quando fa un vero e proprio show anti-immigrazione e parla di «tolleranza zero» contro gli irregolari, afferma che «il Messico pagherà al 100%» la barriera sul confine, annuncia l’istituzione di una task force per la «deportazione» dei «criminali illegali», definiti da Trump «alieni». Non ci sarà «nessuna amnistia» – aggiunge – verranno identificati e rispediti indietro: «Nessuno degli 11 milioni di immigrati irregolari sul territorio americano è immune».

Infrastrutture e grandi opere

Clinton ha un piano da 275 miliardi per infrastrutture e grandi opere, da realizzare nei suoi primi 100 giorni alla Casa Bianca: «Se investiamo in infrastrutture ora, non solo si creano posti di lavoro oggi, ma si gettano le basi per i lavori del futuro». Trump è pronto a investire, sì, ma si è limitato a dire che è pronto a «costruire la più grande infrastruttura sul pianeta Terra».

Debito

All’avversaria che lo ribattezza «il re del debito» davanti a milioni di americani, Trump ribatte: «Ho fatto una fortuna sul debito, risolverò il nodo del debito americano». Quello che il tycoon promette è che stamperà più moneta come strategia per risanare il debito. Il rischio con entrambi i candidati, fa notare l’economista, Boskin su Project Syndacate è che il deficit salirà comunque.

Wall street, Silicon Valley e i big donors

È del 13 luglio la notizia: Wall Street evita Donald Trump. A pochi giorni dalla convention repubblicana, che si sarebbe tenuta di lì a poco (il 18 luglio), le principali banche d’investimento (JP Morgan e Goldman Sachs tra le altre) fanno sapere che non parteciperanno. «Ho chiesto in giro e non ho trovato una sola persona che ci andrà. Cleveland ha tutte le carte in regola per essere uno show del cavolo. È un vero problema per i dirigenti perché se ci vai offendi di sicuro le donne o altre minoranze che lavorano nella tua azienda», riferisce un dirigente (anonimo) a “Politico”.  D’altronde Trump vuole ripristinare le regole a Wall Street al periodo precedente il Dodd-Frank Act (la riforma finanziaria del 2010). Poi è la volta delle corporation tecnologiche. In una lettera 140 imprenditori e manager della Silicon Valley criticano il candidato repubblicano e le sue scelte politiche su immigrazione e investimenti nelle infrastrutture tecnologiche. A firmare, fra gli altri, il co-fondatore di Twitter Evan Williams e il co-fondatore di Apple Steve Wozniak. «Crediamo in un paese inclusivo che favorisca le opportunità, la creatività e regole uguali per tutti. Donald Trump no [non ci crede, ndr]» si legge. Mancano però le firme dei numeri uno delle maggiori società della Silicon valley, quali Apple, Google e Facebook. Peter Thiel, membro del consiglio di amministrazione di Facebook, invece, sostiene Trump e parlerà alla convention repubblicana. A convention repubblicana iniziata, i “big donors” non si presentano. Mancano Sheldon Adelson, David Koch, T. Boone Pickens e Paul Singer al grande evento GOP per incoronare Donald Trump candidato ufficiale del partito alle presidenziali. A Cleveland (Ohio) ci sono invece più star della tv, visto che per i più potenti «è socialmente troppo scomodo sostenere Trump».
Il problema di Trump, per molti sono i toni e gli attacchi frontali. Come quello alla Federal Reserve, la banca centrale Usa: «Crea una falsa economia. Mantiene i tassi bassi perché non vuole che il resto cali». A partire dalla Fed («Quello che dice Trump dimostra che non dovrebbe essere presidente. Non dovrebbe aggiungere la Fed alla lista di istituzioni che attacca o su cui maligna»), Hillary Clinton, invece, è molto più morbida con i grandi poteri e il big business (vedi qui e qui). Gli investitori, infatti, la preferiscono. Secondo uno studio ETradeFinancial riportato dalla “Cnn”, il 45% degli intervistati si fida di più della candidata democratica, mentre il 34% preferirebbe il candidato repubblicano per la salute dei mercati.  Inoltre, la candidata repubblicana è parecchio impegnata in feste ed eventi di raccolta fondi con il mondo degli affari e dello spettacolo, come riporta il New York Times. Tra Beverly Hills e gli Hamptons, incontra miliardari e vip, e rassicura i banchieri di Wall Street: le regole ci saranno, ma si può discutere («devono pagare la giusta quota di tasse», dice, ma senza specificare). Secondo i calcoli del “Wall Street Journal” già a luglio i contributi elettorali arrivati dagli ambienti di Wall Street per Hillary ammontavano a circa 48,5 milioni di dollari, contro i 19 mila raccolti dal rivale repubblicano I contatti di Clinton, comunque, sono buoni anche in Europa. Deutsche Bank ha versato a Hillary e Bill Clinton 1,25 milioni di dollari tra il 2005 e il 2014 per una serie di discorsi davanti ai dirigenti della Banca. Non si sa mai in futuro.
Ma ora il grande gioco sta saltando. Alcuni meccanismi collaudati sembrano fuori fase. Oggi la finanza è il capro espiatorio. Vedono le nostre mani dietro a ogni disastro, ogni nostro endorsement è un bacio della morte, i nostri cavalli sono zoppi. Possiamo pure far scendere una cascata di dollari, ma non riusciamo più a comprare consensi. Bisogna ammetterlo. E una volta riconosciuta la sconfitta, occorre cambiare. Ancora. È arrivato il momento. Occorre modificare la strategia, e gestire il cambiamento. Da La biofinanza contro la rabbia e il dissenso – Il Tredicesimo piano

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