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MONITOR


mer 15 novembre 2017

TRUMP E IL SUICIDIO DELLA SUPERPOTENZA USA

Il viaggio in Cina ha messo ancora una volta il presidente americano alla prova dei fatti. Ne è venuto fuori un leader senza un programma, senza un’idea. Ecco perché.

Se non si fosse trattato del presidente degli Stati Uniti, osservare gli sviluppi della visita di Donald Trump al cospetto del presidente cinese Xi Jinping avrebbe destato quella tenerezza che maschera un intimo imbarazzo. Non troviamo altre parole per introdurre la penosa performance andata in scena lo scorso 9 novembre a Pechino, parte di un breve tour asiatico che, secondo diversi osservatori, ha sancito definitivamente il «suicidio della superpotenza» statunitense in termini di influenza geopolitica.
Trattasi di suicidio ampiamente annunciato, nell’ultimo anno, se si ha avuto lo stomaco di segnare il divario abissale tra la pomposità verbale sfoggiata da Trump in patria, o su Twitter, e la regressione a ectoplasma della politica internazionale manifestata di fronte al vero uomo forte degli anni Dieci.
Per la raffinatissima tradizione melliflua del cerimoniale cinese è stato un gioco da ragazzi alimentare l’ego già ipertrofizzato di Donald Trump con un’accoglienza in pompa magna, tra cene di gala, Opera di Pechino e visita alla Città Proibita, addirittura concordando con l’ospite una conferenza stampa senza domande: il non plus ultra delle convergenze tra i due leader.

In questo clima da missione commerciale di lusso, i temi che hanno contraddistinto lo scontro a distanza tra Washington e Pechino nell’ultimo anno sono stati drasticamente ridimensionati e a loro modo, alla cinese, «armonizzati».
Se fino a poche settimane fa The Donald tuonava contro l’inazione cinese nell’ambito della crisi nella penisola coreana, addossando la responsabilità delle intemperanze nordcoreane all’inadempienza del «fratello maggiore» cinese, a Pechino Trump ha ringraziato Xi Jinping per il lavoro svolto finora senza lesinare in ossequi e nella speranza che «la Cina e il suo grande presidente continuino a lavorarci duramente».
In ambito economico, mettendo velocemente in soffitta gli strali sguaiati urlati in campagna elettorale contro la Cina che «ha stuprato la nostra economia», Trump si è spinto fino a sollevare l’amministrazione cinese dalla responsabilità di un deficit nella bilancia commerciale pari a 309 miliardi di dollari nel 2016 (in aumento). «Dopo aver descritto i rapporti economici tra Stati Uniti e Cina come “a senso unico” e “sleali”, [Trump] ha continuato con un grande “ma”: “Non accuso la Cina. Alla fine, chi può dare la colpa a un paese per il fatto di essere in grado di approfittarsi di un altro paese per il bene dei propri cittadini? Ne do alla Cina grande credito”» si legge su Bloomberg.
Superando il concetto di mutuo vantaggio che, almeno a livello convenzionale, dovrebbe ispirare i rapporti commerciali in ambito internazionale, con questa dichiarazione shock Trump certifica ancora una volta il pensiero alla base dell’America First.
Disinteressandosi dei complessi equilibri che regolano l’interdipendenza economica mondiale, Trump si muove nell’agone del commercio globale come un signore della guerra nelle lande desolate del mondo post atomico di Mad Max: l’obiettivo è la sopraffazione dell’altro e davanti alla sconfitta – oltre ad incolpare indirettamente le amministrazioni precedenti – si tributa l’onore delle armi al clan uscito vincitore dallo scontro. E in questo senso, il pacchetto di accordi commerciale da 250 miliardi di dollari siglato a Pechino dalla delegazione di aziende che hanno accompagnato Trump – gruzzolo da incassare in un futuro non ancora ben definito, e soggetto allo stato di salute dei rapporti sino-americani del domani – sembra tanto un “contentino” dato in pasto da Pechino a un «amico» in difficoltà.
Il timore è che questa analogia da legge della giungla dia fin troppo credito a un leader eletto per guidare gli Stati Uniti e i suoi alleati lungo il sentiero ignoto di un futuro sempre più globalizzato e sempre più post-ideologico. Trump, alla prova dei fatti, si sta dimostrando esattamente per quello che è: un leader senza un programma, senza un’idea. Una condizione che Jennifer Rubin, sul Washington Post, sintetizza così: «Trump è handicappato intellettualmente ed emotivamente. È troppo ignorante per capire le implicazioni delle proprie parole e dei propri gesti, e non ha alcun interesse nel prepararsi meglio».

Dall’altra parte, come già raccontato più volte su queste pagine, la Cina è guidata da un politico freddo e calcolatore, capace di mettere le basi per un’espansione cinese in termini di influenza geopolitica e commerciale che sta già materializzandosi col progetto della Nuova Via della Seta: piattaforma che  – ritiene Pechino – sarà presto imprescindibile per qualsiasi attore internazionale.

Lasciata la Cina, nel resto del tour asiatico Trump ha aggiunto al repertorio del lisciare il potente di turno – ad esempio, lodandol’amministrazione Duterte responsabile di migliaia di morti nella guerra contro la droga dell’ultimo anno nelle Filippine – riferimenti insistenti a una nuova strategia statunitense per la regione «indo-pacifica», spostando il baricentro a stelle e strisce verso un nuovo potenziale asse formato da Washington, New Delhi, Tokyo e Sidney. Una prospettiva che, dalle parti di Pechino, viene letta come sintomo di un’ansia crescente di fronte all’egemonia cinese espressa finora, ma che – secondo il Global Times – è destinata a naufragare presto, scontrandosi con la realtà di un «ordine mondiale» già mutato in favore della Repubblica popolare.
L’impressione è che gli Stati Uniti di Donald Trump, nella corsa alla guida di un mondo globalizzato, non siano stati sconfitti dalla lungimiranza cinese. Ma, peggio, siano stati prima resi ininfluenti e ora, francamente, quasi compatiti.

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