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MONITOR


ven 22 aprile 2016

STRAGE DEL RANA MAI PIÙ LA MODA SI DÀ UN CODICE

Tre anni fa più di mille morti a Dacca nella fabbrica del fashion a basso costo. Arrivano le regole di trasparenza

22 APRILE 2016 – Shila Begum, 23 anni, si sveglia all’alba, fa colazione e si prepara per andare a lavoro. Quando ha iniziato era solo un’aiutante, tagliava le migliaia di fili che sbucavano invano dagli orli dei pantaloni, ma da qualche tempo è stata promossa come addetta alla cucitura. Con lei lavorano due quindicenni, si conoscono bene perché trascorrono assieme dieci ore al giorno, sei giorni su sette. Ieri l’edificio che ospita la loro fabbrica di abbigliamento è stato evacuato perché sono comparse alcune crepe sui muri. Oggi nessuno vorrebbe varcare quella soglia, ma all’ingresso qualcuno minaccia la trattenuta di un mese di stipendio, circa 38 euro, e così mentre i negozi e la banca, ai primi piani, rimangono chiusi, i lavoratori del tessile si rimangiano la paura ed entrano. Shila raggiunge la sua postazione, si siede, fa un lungo respiro e inizia a lavorare, alle prese con la macchina da cucire. Passano pochi minuti e salta la corrente ma come da copione si attiva subito il generatore automatico. Shila in quell’istante sente come una scossa che le attraversa il corpo ed è come se la terra sotto i piedi le venisse a mancare. Ma non per modo di dire, il pavimento della stanza realmente sprofonda mentre sopra, sopra la sua testa, al piano superiore, sente i colleghi che hanno iniziato a correre e gridare in preda al panico. E’ il 24 aprile del 2013, sono le 8.45. Anche il soffitto crolla e Shila sente la morte più vicina di quanto l’abbia mai avvertita. Il Rana Plaza, un palazzo di otto piani che sorge a Savar, 24 chilometri a nord-est della città di Dacca, la capitale del Bangladesh, si è accartocciato su se stesso: l’addetta alla cucitura riuscirà a salvarsi, assieme ad altri 2515 feriti. 1134 persone, invece, non riusciranno più a riemergere da quell’inferno. Più della metà erano donne.
Il crollo del Rana è stato descritto dai sopravvissuti come una specie di terremoto. Il cortocircuito, la scossa, le pareti che collassano, l’impotenza, il terrore, l’adrenalina che entra in circolo alla ricerca di una via fuga. L’immagine familiare del sisma è utile a rappresentare l’ecatombe ma rischia di occultarne le responsabilità: non si è trattato di un evento imprevedibile e connaturato alle dinamiche terrestri ma del più grande disastro industriale della storia del tessile, provocato da un modello di sviluppo non sostenibile in termini umani, sociali, di condizioni di lavoro e di salute. E anche se dal Tredicesimo Piano di una supposta superiorità morale dell’Occidente quell’edificio che si è schiantato alla periferia dell’Impero assomiglia ad un formicaio – una città sotterranea e invisibile – niente può cambiare la realtà delle cose: quelle formiche producono gli abiti che poi noi indossiamo.
A distanza di tre anni dalla tragedia del Rana Plaza rimane ancora in larga parte inevasa una domanda: qual è il vero costo dei nostri vestiti, per le persone e per l’ambiente? Il documentario «The True Cost – il futuro è in saldo», uscito nel maggio del 2015, indaga i costi reali del fast fashion, utilizzato come antidoto al malessere della classe media che non può più permettersi beni primari come una casa o l’istruzione ma può trovare una fonte di consolazione acquistando due t-shirt ogni settimana. Girato in diversi Paesi del mondo, il film alterna le immagini delle passerelle dell’alta moda a quelle dei sobborghi più disagiati in cui i capi usa e getta vengono realizzati, approfondendo l’argomento con interviste a numerose personalità della moda, della finanza e della cultura tra cui l’eco-stilista Stella McCartney, l’attivista (qui anche produttrice) Livia Firth, l’ambientalista indiana Vandana Shiva e Guido Maria Brera. Come si può creare un futuro migliore, più etico e sostenibile, per la moda? «Le persone dovrebbero amare ciò che indossano, prendersene cura – spiega il regista Andrew Morgan – considerare la moda un investimento che possa durare nel tempo». Eppure oggi acquistiamo oltre 80 miliardi di vestiti nuovi ogni anno: il 400% in più di quanto acquistavamo appena due decenni fa.
Il sacrificio dei lavoratori del Rana, dunque, non è servito a niente? Non proprio. L’interesse dell’opinione pubblica e dei mass media è aumentato considerevolmente e ha portato alla firma dell’Accordo vincolante per la prevenzione degli incendi e la sicurezza degli edifici in Bangladesh, sottoscritto da numerose case di abbigliamento. Nel frattempo è anche nata la Fashion Revolution Week – che dal 18 al 24 aprile coinvolge 86 Paesi nel mondo in iniziative a sostegno di una moda più etica e consapevole.
La Rivoluzione, tuttavia, è appena agli inizi, e come si legge nel sito della Clean Clothes Campaign «la lotta per la sicurezza e la giustizia non è finita» a cominciare dai risarcimenti da destinare ai feriti e alle famiglie delle vittime di Rana Plaza. In un rapporto pubblicato recentemente dall’associazione si legge che ad oggi sono stati liquidati 18,5 milioni di dollari alle 868 famiglie di lavoratori deceduti o dispersi e ai 2027 sopravvissuti. Un ulteriore milione e mezzo è stato destinato a programmi di fornitura di cure mediche. A ciò si devono aggiungere 662 richieste di risarcimento che risultano ancora inevase. «Posto che nessuna cifra potrà compensare la perdita di una persona cara o la risultante delle cicatrici fisiche ed emotive inflitte a coloro che sono sopravvissuti a una simile tragedia», la CCC prosegue la sua battaglia per il riconoscimento di un giusto indennizzo alle vittime. Il fondo fiduciario per la riscossione dei contributi è rivolto in primo luogo ai 29 marchi che avevano ordini recenti o in corso con almeno una delle cinque fabbriche di abbigliamento del Rana Plaza: tra questi l’italiana Benetton viene descritta come particolarmente «riluttante a contribuire con un importo appropriato al fondo». Nel 2015 l’azienda trevigiana ha risarcito le vittime con 1,1 milioni di dollari, circa 970 euro a persona, ma il calcolo viene contestato dall’associazionismo che chiede vengano elargiti 5 milioni anche a fronte del fatto che all’epoca dei fatti, nel 2013, il gruppo realizzò un utile di esercizio pari a 121 milioni di euro.
C’è dell’altro. La Campagna Abiti Puliti (sezione italiana della CCC), l’International Labor Rights Forum e il United Students Against Sweatshops, organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti dei lavoratori in Europa, Bangladesh e Nord America, agli inizi del mese hanno lanciato una mobilitazione internazionale per chiedere ad H&M di mantenere finalmente le promesse fatte per rendere sicure le fabbriche dei suoi fornitori in Bangladesh. A questo scopo è partita anche una raccolta firmelegata ad una petizione nella quale si legge che «Nonostante le ripetute denunce di abusi sui diritti dei lavoratori, H&M continua imperterrita a promuovere se stessa come azienda “sostenibile” attraverso eventi e campagne dedicate». La compagnia svedese, secondo gli attivisti, dovrebbe concentrarsi in particolare su tre interventi fondamentali: «la rimozione di blocchi alle uscite di sicurezza, la rimozione delle porte e delle serrande scorrevoli e l’installazione di porte tagliafuoco e recinzioni alle scale – da realizzarsi entro il 3 Maggio, giorno in cui a Solna, in Svezia, si svolgerà il suo Annual General Meeting». Misure che dovrebbero essere applicate con urgenza visto che «ancora una volta lo scorso febbraio è divampato un incendio nella fabbrica Matrix Sweaters Ltd, fornitrice di H&M». Ma non è tutto: l’Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh procede piuttosto a rilento: in un totale di 1589 fabbriche ispezionate, gli ingegneri hanno segnalato 108.538 criticità e solo in 4 di queste aziende sono state completate le azioni correttive previste dal programma di ispezioni indipendenti.
SCHEDA: COS’E’ IL FAST FASHION Il fast fashion nasce negli anni Novanta e si fonda su un assunto di base: vendere prodotti di abbigliamento a prezzi accessibili per tutti. I marchi low cost riproducono versioni a basso costo dei trend di stagione dell’alta moda arrivando a produrre più di cinquanta collezioni in un anno. La principale caratteristica di questo tipo di produzione è infatti la velocità con cui vengono lanciati sul mercato i nuovi prodotti. Il meccanismo che sottende il fast fashion è l’economia della scarsità che spinge il cliente a comprare immediatamente un capo che gli piace e che ha un costo ridotto, nel timore di non trovarlo in seguito.
Leggi anche Am I a fool to expect more than corporate greenwashing? [The Guardian] L’economista italiano Guido Brera avverte siamo tutti complici di un grande inganno. I Millennials sono stati derubati dei loro diritti, tra cui l’istruzione gratuita e un posto economico in cui vivere; invece sono distratti e sazi (a vari livelli) di fast food, tecnologia e fast fashion

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