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MONITOR


lun 26 giugno 2017

STORIA (INCOMPLETA) DELLA BREXIT

Tutti ne parlano ma praticamente nessuno conosce i dettagli. Come è andata a un anno dal referendum sul divorzio di Londra da Bruxelles e cosa sappiamo finora in dieci punti: May resta ossessionata dal controllo, sono aumentati gli "hate crimes" e l'inflazione è cresciuta (insieme al numero di cittadini Ue che è andato via dal Regno Unito).

C’è una storia di cui tutti parlano e di cui praticamente nessuno ha chiari i dettagli. La chiamano Brexit, ufficialmente uscita della Gran Bretagna (in realtà del Regno Unito) dall’Unione europea. Inizia (ma non finisce, perché l’epilogo è ancora da scrivere) nel 2016, l’anno zero della grande contesa: quella tra Leave and Remain, andare via o restare. L’esito del duello lo sappiamo già: al referendum del 23 giugno di un anno fa il 51,9% degli elettori ha optato per il divorzio di Londra da Bruxelles.

La colonna sonora dei mesi a seguire è anch’essa cosa nota: “Brexit significa Brexit” è il ritornello scandito da Theresa May, ex ragazza diligente venuta dalle contee sud d’Inghilterra e arrivata fino al numero 10 di Downing Street, Londra. Poi è stata una lunga narrazione fatta di false partenze e brusche frenate, (tanti) proclami e (poche) smentite, vaghe promesse riguardo a un futuro ancora parecchio incerto.

Il fatidico articolo 50 del Trattato di Lisbona per l’avvio dei negoziati d’uscita è stato invocato a vuoto per mesi. Perché May, la premier di ghiaccio che non si è scomposta neanche per il rogo di classe della Grenfell Tower, avrebbe addirittura voluto iniziare le trattative bypassando il Parlamento sovrano di Londra, senza chiedere cioè il via libera del Parlamento, salvo poi incassare lo schiaffo dell’Alta Corte di Giustizia britannica a novembre e l’ennesimo stop and go.
Qualche mese più tardi – il 18 aprile 2017 per l’esattezza – forte della sua maggioranza e per ingordigia politica, ha annunciato: la Gran Bretagna «andrà ad elezioni anticipate», ovvero prima che la separazione dall’Ue sia consumata. L’appuntamento era fissato per l’8 giugno. Il refrain era «stabilità e certezze», i discorsi invocavano «una Gran Bretagna forte», la retorica cancellava ogni dubbio: «La Brexit è nell’interesse nazionale».

Anche sul capitolo elezioni sappiamo come è andata a finire. Il piano di Theresa May era ben diverso: Brexit in tasca, maggioranza storica e assoluta di seggi (400 su 650 ai Comuni). Ad aprile, d’altronde i Yougov sulle intenzioni di voto davano i conservatori (Tories) al 48% dei consensi, contro un debolissimo Labour inchiodato al 24%. Meno di due mesi dopo, però, May ha perso la maggioranza assoluta e il Labour, dato praticamente per morto fino a poco tempo prima, ha registrato una clamorosa rimonta e il leader Jeremy Corbyn è sempre più pop.

Il nodo, comunque, è sempre stato uno: la Brexit sarà “hard” o “soft”? A quali condizioni? Quali i contorni del buco nel bilancio comunitario che si allargherebbe entro la fine dei due anni previsti per i negoziati? Mentre May ha continuato a glissare sulle disuguaglianze sociali, si cercava sottotraccia di apparecchiare un accordo che blindasse il famoso «single market» tanto caro alla City di Londra e che tiene le banche con il fiato sospeso.
Ciò che ci sfugge, invece, sono i termini della Brexit. Ecco cosa sappiamo oggi:
  1. L’unico vero passo avanti: si è iniziato a trattare, al vertice europeo di quattro giorni fa.
  2. May ha ceduto rispetto al vero capitale della Brexit: quello umano. E in ballo ci sono tre milioni di persone che vivono oltremanica. Nessun cittadino europeo dovrà andare via dal Regno Unito causa Brexit: a tutti i cittadini Ue verrà data la possibilità di regolarizzare il proprio status [qui tutti i dettagli in un policy paper di 15 pagine, ndr].
  3. Le proposte avanzate da May all’Ue a un anno esatto dalla Brexit sono state de facto Il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, le ha bollate come «insufficienti», quello del Consiglio europeo, Donald Tusk le ha definite «ben al di sotto delle aspettative», mentre la cancelliera tedesca Angela Merkel ha parlato di «un buon inizio ma non di una svolta». Il belga Charles Michel ha aggiunto: «Non abbiamo alcuna intenzione di comprare nulla a scatola chiusa».
  4. Questa settimana le trattative dovrebbero entrare nel vivo. La data per il prossimo round è già fissata per il 17 luglio.
  5. Finora la vera ossessione di May è sempre stata il controllo. Quando Boris Johnson durante la campagna per il Leave aveva proposto di usare il Sistema a punti australiano per l’immigrazione, la premier aveva risposto preoccupata. Secondo il sistema usato a Sydney, una volta rispettati i criteri richiesti e superato il test di inglese con un determinato punteggio, «la gente può arrivare automaticamente», diceva May. In quel caso i problemi erano tre: «i sistemi a punti funzionano»; «bisogna guardare a tutta la linea, si deve guardare a tutte le questioni. Non solo al controllo attraverso le regole per chi entra»; «fare in modo da sradicare gli abusi nel sistema e, ovviamente, fare i conti con le persone che vengono scoperte qui illegalmente». Fino a settembre 2016, come notavamo anche qui, The Telegraphtitolava: «Theresa May giura che l’accordo sulla Brexit limiterà l’immigrazione, indipendentemente dall’impatto sul commercio Ue». Il giornale usciva all’indomani della riunione di governo a porte chiuse nella residenza di campagna di Theresa May ai Chequers. Qualche giorno prima, la premier aveva ribadito che «il chiaro messaggio del popolo britannico sul controllo» dell’immigrazione non andava ignorato.
  6. La premier britannica ha chiuso l’accordo con gli unionisti del Dup nell’Irlanda del Nord, visto che ha bisogno di garantirsi i numeri in parlamento. Se comunque le cose precipitassero, ci sarebbe già un sostituto alla porta per May. Il suo nome è Philip Hammond, attuale Cancelliere, che – scrive il Times di Londra – potrebbe diventare il nuovo premier britannico a traghettare il Paese verso la realizzazione della Brexit.
  7. Sul libero scambio, la Gran Bretagna continua a mostrare i muscoli, almeno a parole. “Sono piuttosto sicuro ma non certo” sul fatto che Londra riuscirà a raggiungere un’intesa con l’Ue, ha detto il ministro per la Brexit, David Davis, in una intervista alla Bbc, visto che gli altri Stati europei «hanno un forte interesse nell’ottenere un buon accordo» ma Londra si riserva sempre il diritto di lasciare il tavolo di negoziato se da Bruxelles arrivassero condizioni «punitive».
  8. L’asse franco-tedesco tra il Macron e Merkel si rafforza e vuole dettare legge. «Quando Francia e Germania non sono d’accordo l’Europa non avanza», ha detto il presidente francese in una conferenza congiunta con la cancelliera tedesca, «non ci sono soluzioni europee pertinenti se non sono prima pertinenti per Francia e Germania».
  9. La salute UK non è proprio al massimo. Sono saliti i cosiddetti “hate crimes”, è cresciuta l’inflazione, dallo 0,5 al 2,9 per cento, è aumentato il numero di cittadini Ue che hanno deciso di lasciare il Regno Unito (da 79 mila a 111 mila), è diminuito, invece, il dato di chi ha deciso di trasferirsi sul territorio britannico (da 284 mila a 250 mila) [tutti i numeri pubblicati da Politico qui].
  10. Sono (almeno) sette le sfumature che ha assunto il famoso motto di May «Brexit means Brexit»: [qui la cronologia pubblicata da Quartz].

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