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MONITOR


mar 26 luglio 2016

CHI, COSA, DOVE: LA «RIVOLUZIONE» USA OLTRE SANDERS

Non è un blocco monolitico immobile. Non è ancora un movimento vero e proprio, ma potrebbe diventarlo. I fatti raccontano che ciò che Sanders ha scatenato e ha unito durante le primarie non si è polverizzato.

«Cancellare ogni trasferimento di calore, ogni possibilità di movimento, ogni gradino sociale. Immagina una minoranza sempre più ristretta a controllare gli asset strategici, tutti gli altri a impoverirsi. Il paradosso della diseguaglianza eletta a principio di conservazione di un sogno, perché l’american dream non possa mai diventare un incubo.» Da “I diavoli” di Guido Maria Brera (Rizzoli 2014)
26 luglio 2016 – #NeverClinton, #NeverHillary: lo dicevano già ai primi di maggio attraverso gli hashtag su Twitter. Lo ripetevano con le petizioni sul web, come www.wontvotehillary.com, in grado di raccogliere migliaia di firme in poche settimane. Erano riluttanti i sostenitori di Bernie Sanders, senatore del Vermont che ha sfidato Hillary Clinton per la candidatura democratica alla presidenziali Usa, a imprimere il loro timbro di approvazione su colei che veniva e viene vista come l’incarnazione dell’establishment di sempre, lo status quo statunitense, ma che forse potrebbe rappresentare il male minore.
Alla convention democratica di Philadelphia, maldisposti e restii ad accettare la Clinton, hanno fatto rimbombare i loro «buh» tra le pareti del Wells Fargo Center ogni volta che dal palco veniva pronunciato il nome di Hillary. Tra chi gridava «no, no no» e chi si sgolava urlando «Bernie, Bernie», Sanders ripeteva: «Fratelli e sorelle, fratelli e sorelle. Questo è il mondo reale in cui viviamo». È il mondo dei compromessi politici, quello cui si riferiva allo show-dem, perché altra via non c’è: «Hillary Clinton deve diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti, non c’è scelta».Quello che guarda alle priorità. Nell’immediato «bisogna battere Trump», colui che da destra parla di giustizia sociale con la sua retorica incendiaria. E ancora: «Queste elezioni non sono su questo o quel candidato, queste elezioni sono sul futuro che vogliamo dare ai nostri figli e ai nostri nipoti». Poi Sanders ha chiesto comprensione ai suoi: «So che molti di voi in questa sala e nel Paese sono delusi. Molte volte sono stato in disaccordo con Hillary Clinton, ma questa è la democrazia».
In tanti tra i delegati delusi lo hanno fischiato. Per la prima volta parte del suo popolo sembra non aver riconosciuto quel leader che ha acclamato per le piazze d’America e tra le sedi di partito negli ultimi mesi. Ma fuori, per le strade di Philadelphia, le cronache ci hanno raccontato di raduni, di manifestazioni, di dibattiti.
FOTOGRAFIA DI UN MOVIMENTO IN TRASFORMAZIONE
Il popolo di Sanders, eterogeneo e fluido, come sin dagli albori, c’è.È contro Wall Street, le grandi banche e i fiumi di denaro in politica. Non è un blocco monolitico e immobile. Non è ancora un movimento vero e proprio, ma potrebbe diventarlo. I fatti raccontano che ciò che Sanders ha scatenato e ha unito durante le primarie non si è polverizzato.
Sono le donne e gli uomini che hanno sfilato a Philadelphia dietro il corteo di Climate revolution, ma sono anche quelli di Democracy Spring (che unisce contro il potere finanziario in politica diversi gruppi di attivisti di Occupy Wall Street)
Archiviata la corsa alla Casa Bianca, ingoiato l’endorsement a Hillary Clinton, sono le piazze pro-Bernie dei mesi scorsi che si sono trasformate in diverse iniziative: il People’s summit che a giugno ha portato per le strade lo slogan «Keep the Bern Alive» o il Brand New Congress, nato il mese scorso per cercare di eleggere entro il 2018 un congresso in grado di implementare comunque il programma di Sanders. Sono parecchio attivi, fuori e dentro la rete, anche gli Occupy Democrats, convinti che il partito sia «maturo per un cambio di gestione». Ci sono pure gli attivisti del Working Family Party che in molti Stati hanno reclutato significativi blocchi di voti.
Se le primarie democratiche Sanders contro Clinton hanno messo a nudo una profonda spaccatura a sinistra, a riempirla sono stati soprattutto giovani, attivisti, ambientalisti, intellettuali, studenti. I sondaggi hanno dimostrato che non è solo l’affiliazione di sinistra ad aver mobilitato il popolo di Sanders, ma sono stati specifici punti del programma ad attirare anche parecchi elettori indipendenti. Mentre in tanti lo tacciavano di essere «un pasticcio» riciclato del socialismo europeo, Sanders in realtà ha portato nella sua «rivoluzione» qualcosa di molto americano, come ha fatto notare il New Yorker: il profondo «sospetto popolare nei confronti del grande business». Ha canalizzato il rancore contro le élite verso sinistra.
Il movimento di Sanders va oltre Sanders, dunque, e gli elementi ci sono eccome. La partecipazione collettiva e stratificata è il segnale più evidente. «We still need a future to believe in» («Abbiamo ancora un futuro in cui credere) hanno scritto personaggi del calibro di Naomi Klein, Michael Moore, passando per Robert Reich e Alicia Garza. Owen Jones sul Guardian ha sintetizzato così la trasformazione in atto: «Una dipendenza da un leader è una debolezza, non è un punto di forza, non da ultimo quando diventa il sostituto di una visione chiara o di un insieme di politiche. Questo non è il caso di questo movimento. Per coloro che credono nella giustizia sociale, il fenomeno Sanders è un faro e la prova che il cambiamento politico può essere raggiunto», aggiungendo che nonostante i media mainstream vogliano dare un’idea diversa della estrema sinistra dem, alla fine i supporter di Sanders non la daranno vinta a Trump
LA ROAD MAP È GIÀ SCRITTA
«Le tornate elettorali vanno e vengono, ma le rivoluzioni politiche e sociali che provano a trasformare la nostra società non finiscono mai», aveva detto Sanders a metà giugno, quando ormai la Clinton camminava a passo svelto verso le elezioni di novembre, pronta a sfidare il “gentismo” di Donald Trump. E se battere il tycoon, insieme a Hillary, è la priorità sul breve periodo, sul lungo termine gli obiettivi restano quelli snocciolati durante la campagna per le primarie e ora pronti da inserire nella piattaforma democratica. La road map è già scritta per i sostenitori di Sanders: vietare il fracking (controversa tecnica di estrazione di petrolio che gli ha fatto raccogliere molti consensi in Pennsylvania), riforma dell’immigrazione (legalizzare chi è già negli Usa se ha i requisiti) e reddito minimo federale da 15 dollari l’ora.
Dopo i fischi di Philadelphia, di certo questi giorni non ricordano le ovazioni che rimbombavano nei pub di Brooklyn a fine aprile, quando arrivavano notizie che davano il senatore del Vermont in vantaggio su Clinton nelle primarie di New York. Non sono nemmeno le ore in cui lanciava la sua rivoluzione, promettendo spazio politico a tutti gli attivisti d’America. Erano i giorni in cui urlava: «Basta con lo status quo». Ad acclamarlo c’era una folla di quasi 30mila persone. Tanti i giovani in quella piazza, che cercavano speranza a sinistra, piazzati per ore ad ascoltare Sanders davanti al celebre arco dedicato a George Washington. C’era anche Spike Lee, e tutti urlavano «Bernie, Bernie» che dal palco invocava un cambiamento dal basso: «Il cambiamento vero non è mai dall’alto verso il basso, ma dal basso verso l’alto e non c’è niente che non possiamo realizzare quando siamo tutti assieme».
Quell’America democratica non può essere sparita con Sanders fuori dalla corsa e con un endorsement tattico alla Clinton. Quegli uomini e quelle donne convinti, come Bernie, che i «miliardari non possono comprare le elezioni», (Clinton attraverso i comitati elettorali e i big donors di Wall Street raccoglie milioni di dollari), erano per le strade di Philadelphia e dentro il Wells Fargo Center a fischiare contro l’appoggio a Hillary. Come fa notare Salon, al di là della visione monolitica presentata dai media mainstream che raccontano solo una guerra Sanders contro Clinton alle primarie, la forza del senatore del Vermont è stata proprio quella di uscire dalle logiche di personalizzazione della campagna elettorale e denigrazione della rivale. Il punto, però, è che «adesso la base si aspetta segnali di fumo dal quartier generale».
È proprio quella base che per adesso è furiosa. Parla di «nomination truccata», promette «o Bernie o niente voto». La risposta arrivata finora non è altro che un costante richiamo all’attesa. «La storia l’abbiamo fatta, abbiamo dettato l’agenda più progressista di sempre», continua a ripetere Sanders. Ora bisogna votare «Hillary perché la priorità è sconfiggere Trump».
«LA RIVOLUZIONE NON SI FERMA QUI»
Ma non è finita qui, perché Hillary ha bisogno del movimento Sanders, forse più di quanto lui abbia bisogno di una moderata arcipragmatica. Istruzione per tutti, sanità, reddito minimo, disuguaglianza, diritti civili nell’America di oggi sono fondamentali per mobilitare i voti di tanti invisibili. E Sanders ha puntato proprio a loro. Di questo la Clinton è consapevole, sa che le serve un «guerriero delle cause liberali», così come lo definito nel loro primo comizio comune a metà luglio: «La sua reputazione per sostenere le cause con passione non lo ha reso sempre la persona più popolare a Washington, ma questo generalmente è un segno che stai facendo qualcosa di giusto».
In quest’ottica, non è un caso che ad aprire la convention di Philadelphia, insieme alla first lady Michelle Obama, sia stata la senatrice Elizabeth Warren, paladina della giustizia sociale e della battaglia anti-Wall Street che Sanders spingeva come vicepresidente di Hillary. Passo dopo passo, nella piattaforma democratica le battaglie sociali e le vittorie della sinistra dei dem prendono forma. La Clinton, infatti, ha sposato a pieno una delle proposte di Sanders, cioè college gratis per le famiglie con meno di 125 mila dollari l’anno. Sulla Trans-Pacific Partnership la linea dura di Bernie, però, non è passata.
Qual è, allora, il futuro di Sanders ma soprattutto dei suoi elettori? La rivoluzione, promettono, non è finita qui. A novembre, dopo l’election day, uscirà anche un libro dal titolo Our Revolution: A Future to Believe In (La nostra rivoluzione: un futuro in cui credere). Racconterà anche di quel movimento multisfaccettato che il premio Nobel Paul Krugman ha stigmatizzato, descrivendolo in bilico e diviso tra: idealisti sinceri, romantici, puristi (quelli per cui la militanza politica non porta a risultati ma solo a pose personali), vittime della sindrome Clinton, salon des refusés (intellettuali che si sono sentiti esclusi e hanno visto in Sanders un’occasione per il loro successo). Come si legge in un comunicato della casa editrice Thomas Dunne Books: «Bernie Sanders è diventato rapidamente il leader di un movimento progressista all’interno dei dem. Attirando oltre 13 milioni di elettori, vincendo 23 primarie e ricevendo oltre sette milioni di donazioni individuali per la sua causa, ha energizzato il partito. Il libro sarà un racconto dall’interno della sua straordinaria campagna. E getta anche le basi per azioni politiche future con un messaggio: la lotta è appena iniziata». Con o senza Hillary Clinton presidente Usa.
«Ma Hillary incarna il sistema. Pensaci. Hillary rassicura i nostri a Wall Street e pure la lobby degli idrocarburi. Hillary porta in dote le relazioni ereditate dagli anni Novanta in Medio Oriente. Hillary non si espone sulle armi. Alcuni la odiano perché è un prodotto dinastico, altri perché è donna, altri ancora perché rappresenta l’establishment.» Da Il Male minore. Il Tredicesimo piano.

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