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MONITOR


lun 16 luglio 2018

RIDISCUTERE IL CONCETTO DI COPYRIGHT

Giovedì scorso il Parlamento europeo ha rinviato a settembre i negoziati sulla proposta di direttiva per la riforma del diritto d’autore, che ha suscitato parecchio clamore in questi mesi. “Tecnoentusiasti” e oscurantisti, padri nobili della rete libera e multinazionali monopoliste delle nuove tecnologie, associazioni di categoria e sindacati, si sono mescolati e riposizionati nel giudicare il provvedimento necessario, o liberticida. Ma il problema vero, forse, resta alla radice: cioè ridiscutere il concetto stesso di copyright.

Giovedì scorso il Parlamento europeo, riunito in seduta plenaria a Strasburgo, con 318 voti favorevoli, 278 contrari e 31 astenuti, ha rinviato a settembre i negoziati fra lo stesso Parlamento, il Consiglio e la Commissione Ue sulla proposta di direttiva per la riforma del copyright, che tanto ha fatto dibattere in questi mesi.Qui il testo. Ma ridiscutere il concetto stesso sembra essere, ancora una volta, la versa sfida.
Mai come in questa occasione gli schieramenti erano fluidi. I voti favorevoli e contrari si sono mescolati nel magma dell’emisfero parlamentare, si sono frammentati all’interno dei gruppi e degli stessi partiti.
E anche fuori. “Tecnoentusiasti” e oscurantisti, padri nobili della rete libera e multinazionali monopoliste delle nuove tecnologie, associazioni di categoria e sindacati, si sono sovrappostie riposizionati nel giudicare il provvedimento necessario, o liberticida.
A essere messi sotto la lente d’ingrandimento, due sezioni in particolare della direttiva: l’articolo 11 e l’articolo 13.
A essere dimenticato, dato oramai per perso dopo un secolo di ideologia e di politiche neoliberali, il diritto fondamentale dell’uomo al libero accesso e alla libera condivisione dei saperi.
La discussione, infatti, partiva viziata. Dando per scontata la giusta esistenza del copyright, si è semplicemente dibattutosu come adattarlo alle nuove forme dell’era digitale.
L’articolo 11, impropriamente definito link tax, prevedeva che chiunque voglia pubblicare un link a un articolo di una testata giornalistica debba ottenere l’autorizzazione della società editrice, e in qualche modo riconoscere un valore economico all’autore dell’articolo.
I contrari hanno sostenuto che, in questo modo, si metteva in discussione l’impianto stesso della rete, la sua idea di libera condivisione, facile e immediata.
I favorevoli hanno fatto notare come sarebbero state invece penalizzate alcune grandi compagnie che funzionano da aggregatori di notizie – Google ha fatto lobbying contro la direttiva – a favore delle piccole pubblicazioni proprietarie dei diritti.
Nessuno si è posto il problema che i siti internet dei quotidiani, grandi o piccoli, registrati o meno, da anni saccheggiano la rete e si impadroniscono gratuitamente di articoli scritti da altri, spesso copia-incollando intere pagine di Wikipedia e poi apponendo la © alla fine del pezzo. E ancora: si appropriano di immagini e disegni senza neppure rimuoverle dopo che sono stati smascherati.
Più che tutelare i presunti organi di informazione, andrebbero quindi tutelati gli utenti del web dalle razzie perpetrate dai giornali stessi.
L’articolo 13 impone invece, a chiunque voglia caricare un contenuto sul web, di ottenere tutte le licenze e le liberatorie necessarie, prima ancora di decidere se sta violando un qualche diritto di autore.
E, se questo chiunque non è in grado di ottenere tali autorizzazioni, di utilizzare un filtro preventivo che impedisca il caricamento dei contenuti.
Questo vuol dire che l’utente deve presumibilmente acquistare da un produttore di filtri (a che prezzo?) un uploadfilter già tarato sulle imposizioni delle multinazionali, o degli enti pubblici o privati di tutela del diritto di autore.
Questo ultimo articolo è ancora più difficile da difendere. Anche se c’è chi sostiene che sia una tutela dai colossi come Amazon che diffondono, seppur parzialmente, diversi contenuti. E che anche questo articolo serva a tutelare l’autore dell’opera e non la società che ne detiene i diritti. Ma, come abbiamo visto nel caso dei giornalisti, anche qui sappiamo benissimo che l’autore non è proprietario di alcun diritto sull’opera.
In buona sostanza, favorevoli e contrari convergono però sulla necessità di una nuova legislazione europea sul copyright, perché l’ultima risaliva al 2001 e da allora la rete, e la società, hanno attraversato vistosi mutamenti.
Il problema, invece, è che andrebbe discusso il concetto stesso di copyright.�
Nella Dichiarazione universale dei diritti umani, l’articolo 27 dice che «Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico e ai suoi benefici.»
E al secondo comma che «Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore.»
Come però ricorda giustamente Valigia Blu, nel 2014 il relatore speciale ONU per i diritti culturali Farida Shaheed ha spiegato che, “se il secondo comma è generalmente interpretato quale supporto alla protezione della proprietà intellettuale, va precisato che il diritto umano alla protezione della paternità dell’opera è un diritto non trasferibile e connaturato all’autore, il quale soltanto può esercitarlo. L’autore cede all’editore o distributore, invece, solo gli interessi economici.”
Anche qui, una norma volta a tutelare diritti inalienabili, come l’impossibilità di un privato di lucrare sull’intelligenza singola o collettiva di altri, è stato trasformato in un diritto dei privati di proteggere il loro guadagno ottenuto impadronendosi dell’intelligenza altrui.
«Omnia sunt communia»è stato da sempre il motto dei Diavoli nei numerosi articoli dedicati ad Aaron Swartz, il corsaro dell’accesso libero alla rete.
«Non c’è giustizia a seguire leggi ingiuste. È tempo di venire alla luce e dichiarare, nella grande tradizione della disobbedienza, la nostra opposizione a questo furto privato di cultura pubblica. Dobbiamo prenderci le informazioni, ovunque siano depositate» scriveva l’hacker americano.
Bisogna dunque ridiscutere il concetto stesso di proprietà intellettuale, ricordandoci che da sempre è servita a tutelare le aziende e mai chi ha “inventato” l’opera.Oltretutto il copyright fu introdotto tre secoli fa, quando era molto difficile replicare un’idea o un artefatto, mentre oggi siamo precipitati nell’era della riproducibilità tecnologica. E tutto cambia.
Per non parlare dell’ambito scientifico, dove la proprietà intellettuale spesso impedisce lo sviluppo di nuovi medicinali e nel frattempo arricchisce l’una o l’altra multinazionale.
E ancora: oggiè messa a valore la vita, e il capitale estrattivo si appropria di qualsiasi unicità per lavorarla a proprio vantaggio nella costruzione dell’Intelligenza Artificiale (AI), come racconta bene anche Giuseppe Genna nel suo ultimo romanzo History.
Oggi che i colossi della tecnologia come Alphabet, Amazon, Apple, Facebook e Microsoft  dominano il mondo. E da soli valgono più del Pil della Gran Bretagna.
Bisogna anche andare oltre il velo di Maya delle direttive burocratiche, e chiedersi cosa stia cercando di fare il Parlamento europeo e perché le suddette multinazionali si oppongono, in un’inedita alleanza con i sostenitori del libero accesso.
È evidente che la guerra oggi in corso è quella sui Big Data, il nuovo alfabeto del capitalismo estrattivo necessario alla costruzione dell’AI.
Il futuro della tecnologia è il futuro dei suoi finanziatori. E i finanziatori sono cambiati. Prima erano i militari, poi i venture capitalist. Oggi si apre un nuovo capitolo: i fondi multimiliardari, spesso legati agli stati, sono i nuovi padroni della tecnologia” ha scritto Evgenij Morozov.
E proprio mentre leggete queste righe sul terreno di gioco dell’Intelligenza artificiale le Big Tech, compagnie private sovvenzionate dai fondi sovrani occidentali e arabi, si scontrano con il capitalismo di stato cinese.
Schiacciata da queste due forte centrifughe, il vecchio continente è rimasto al palo e cerca di riorganizzarsi, ma non può certo pensare di scendere in campo con una serie di leggi a maggior tutela del diritto dei privati.
È il momento per l’Europa, se vuole sopravvivere a sé stessa, di abbandonare la sua costituzione ordo-liberalein favore della costruzione di un enorme data base pubblico, cui tutti possano avere accesso, gratuitamente.
Creare una rete continentale per il libero scambio di informazioni che porti alla creazione di una AI comune, libera da vincoli di proprietà intellettuale, funzionale al progresso della collettività e alla liberazione dell’uomo dalle catene del lavoro salariato, ecco la partita più grande.

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