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MONITOR


lun 13 febbraio 2017

PODEMOS, UNITÀ E UMILTÀ. DIARIO DA MADRID

Cronaca di un congresso decisivo per la sinistra spagnola. Il popolo di Podemos vuole Pablo Iglesias e il suo motto: «Unidad e humildad. Hasta la victoria siempre». Opprimente spazio metafisico che s’impone sull’umano, dalla Plaza Mayor alla wanabe Fifth Avenue in salsa spagnola della Gran Via (due teatri e quattro taxi non fanno Broadway), dal Palacio Real fino al Paseo Della Castellana, il popolo è espulso dall’urbanistica centrale madrilena, eclissato negli alveari periferici di cemento costruiti da Francisco Franco, previo sanguinario annichilimento delle opposizioni, per la sua gente: il popolo della maniera scura. Perché nella Madrid del potere il popolo non è contemplato. È qui che si comprende il continuo riferimento che ne fa Podemos, è un richiamo alla riappropriazione degli spazi pubblici, alla loro agibilità politica.

El día uno: La Morada

Ta, ta, ta-ta, ta, ta-ta taa. Le piante dei piedi battono forte sul pavimento, tempo e controtempo. È il pateo. Tacco-punta, tacco-punta, in sospensione, quasi in surplace. È il punteado. Poi uno parte in controtempo totale, il ritmo è sincopato, l’assolo virtuosistico. È lo zapatedo.
È giovedì sera. Al piano seminterrato de La Morada, locale aperto da Podemos grazie al microcredito nel quartiere Arganzuela di Madrid, diversi giovani e qualche non giovane, le giacche posate per terra o sui tavoloni ai lati della sala, ballano al ritmo di questa musica gitana nomade e sincretica che affonda le radici nella tradizione dei mori e dei giudei. È il flamenco. Al piano terra invece c’è un bar, la libreria e il gift shop: contraddizioni in seno al populismo, il vecchio autoreddito dei csoa italiani al tempo del tardo-capitalismo.
La cerveza costa poco, il wi-fi è gratuito, il posto è un co-working diurno che resta aperto la sera – i tavoli Ikea circondati da ragazzi che bevono, distribuiscono carte napoletane e tessere del domino, indugiano su giochi di ruolo – più che un centro sociale o una casa occupata. Non fosse per il colore viola predominante, gli slogan vagamente alternativi e alternati, mai contro e “sempre per” – il neon all’ingresso recita «La puerta esta abierta», un adesivo sul portatovaglioli ricorda «La patria eres tu» –, sembrerebbe un qualsiasi locale alla ricerca della sua identità: freddo nelle luci al neon e nei vetri divisori dagli infissi viola che separano le stanze, tiepido nella partecipazione.
A due giorni dall’apertura del congresso di Podemos, qui la politica non sembra l’adesione appassionata all’uragano, ma il lavoro del meteorologo destinato a prevedere l’arrivo dell’uragano per limitarne i danni.

El día dos: Il Popolo e lo Spazio

È venerdì. La deriva madrilena comincia a Lavapiés, all’incrocio tra Calle Zurita e Calle de la Torrecilla del Leal, dove è nato e cresciuto Miguel Urbán, la cui casa ha fatto da incubatrice a Podemos e dove il partito ha ancora la sua sede. Saliscendi di strette vie multietniche, tra una casa occupata e un negozio di elettronica bengalese, uno che vende solo detersivi e uno che promette ammiccanti lap dance, i localini bohémien della gentrificazione convivono con i panni stesi alle finestre delle case popolari, di questa atmosfera si nutrono e rimettono in circolo il denaro che garantisce la precaria resistenza alla trasformazione definitiva della sua architettura sociale.
Lo stesso clima si respira al Barrio de La Latina, la vecchia cittadella islamica convertita a un divertimentificio, un po’ più borghese di Lavapiés, non dimentica le sue radici negli odori del mercato e nelle molteplici lingue che si centrifugano nei vicoli per poi detonare nelle mille piazze alberate: lì dove si compie la sosta e si prepara l’incontro.
Da qualche parte, salendo o scendendo attraverso questi vicoli moltiplicati dai colori sgargianti delle facciate, c’è anche una fontana che reca un’iscrizione celebrativa della Seconda Repubblica Spagnola.
Non è cosa da poco.
Quando salendo per Calle de Toledo si arriva in Plaza Mayor, rettangolo di geometrica potenza e retaggio asburgico, tutto cambia. Sparisce la gente, comincia la città.
Come se la centrifuga fosse stavolta la Santa Inquisizione, il cui fuoco purificatore nei secoli dei secoli allontana il popolo lercio dalla purezza del vuoto al centro della piazza, per nasconderlo sotto porticati laterali, la cui ombra nel tempo ha permesso il brulicare di antiche e nuove botteghe.
Sono gli avvertimenti di Francisco José de Goya, la cui opera monumentale riposa al Museo Nacional del Prado, e ci lascia in eredità una serie di ritratti di famiglie reali e nobiliari in piena luce che già lasciano intravedere, nel fuoricampo, l’ombra scurissima in cui iscriverà il popolo affamato e deformato nelle sue successive pinturas negras.
Perché nella Madrid del potere il popolo non è contemplato. È qui che si comprende il continuo riferimento che ne fa Podemos, è un richiamo alla riappropriazione degli spazi pubblici, alla loro agibilità politica.
Poco più giù rispetto al Prado, nel Centro de Arte Reina Sofia, si trova El Hombre Invisible, un olio su tela di Salvador Dalì, poco noto e dallo stesso autore poco riconosciuto. Dipinto in tre lunghi e faticosi anni, nel passaggio da Madrid a Parigi, nel tragitto dal surrealismo astratto alla paranoia della psicanalisi freudiana, è forse uno dei quadri più metafisici del pittore di Figueres. Prossimo all’opera De Chirico, il dipinto mescola il classico illusionismo polisemico con un’angosciante astrazione del vuoto urbano, impossibile da abitare o anche solo da attraversare.
Lontana pochi chilometri e anni luce da quell’iscrizione sulla fontana che celebra le virtù repubblicane, la Madrid monarchica vuole l’uomo invisibile.
Opprimente spazio metafisico che s’impone sull’umano, dalla Plaza Mayor alla wanabe Fifth Avenue in salsa spagnola della Gran Via (due teatri e quattro taxi non fanno Broadway), dal Palacio Real costruito sopra un vecchio alcázar islamico fino al Paseo Della Castellana, il popolo è espulso dall’urbanistica centrale madrilena, eclissato negli alveari periferici di cemento costruiti da Francisco Franco, previo sanguinario annichilimento delle opposizioni, per la sua gente: il popolo della maniera scura.
L’approdo non può che essere il ritorno a quei saliscendi multietnici dove è cominciata la deriva, dove si è deciso di reclamare lo spazio della città sottratto al popolo per essere offerto in sacrificio al vuoto del potere.
La rottura è Puerta del Sol. Spazio che il potere ha immaginato lecito da riempire solo per lo shopping o per il capodanno, fino a che, il 15 maggio dell’anno 2011, Puerta del Sol si riempie di poco più di 5mila giovani che protestano contro l’allora governo socialista di José Luis Rodríguez Zapatero. E il giorno dopo aumentano. E quello dopo ancora. Fino a che il movimento degli Indignados (o del 15M) non conquista le piazze di Tokyo, Roma e Rio De Janeiro. Fino a che quei 5mila giovani tre anni dopo si trasformano in un movimento politico da quattrocentomila iscritti e tre milioni di voti: Podemos.

Madrid, el día tres: Unidad

«Un impulso costituente per la costruzione di un nuovo popolo spagnolo». Si muove abile e sicuro sul palco, con slogan già rodati, il segretario Pablo Iglesias in apertura della Asamblea ciudadana di Podemos. Il luogo è lo stesso in cui una marea viola, allegra e travolgente, si ritrovò nell’ottobre del 2014 per celebrare il primo congresso, il palazzetto dello sport di Vistalegre, ma questo secondo appuntamento convocato in anticipo dopo i risultati delle elezioni di legislative dello scorso giugno risente del clima abbastanza teso, generato dalla crescita e dalle inevitabili trasformazioni interne del movimento.
Unidad, gridano i diecimila iscritti sulle gradinate di cemento del palazzetto. Unidad, gridano quando Iglesias a nome di tutto il partito – sul palco una cinquantina di persone – apre formalmente il congresso (popolo, lavoratori, studenti, governo, fratellanza, intelligenza, momento storico, è la word cloud delle parole più usate). Unidad, gridano ogni volta che sornione interrompe il suo discorso per ricevere applausi.
È sabato mattina, si aprono i discorsi di presentazione delle tre mozioni principali, e il leader Pablo Iglesias attacca sulla condizione di precarietà lavorativa ed esistenziale figlia della “transizione” (il periodo della caduta di Francisco Franco tra il 1975 e il 1978), una transizione fallita nel non aver saputo promuovere un nuovo contratto sociale. Chiede «un impulso costituente per la costruzione di un nuovo popolo spagnolo, un blocco storico che superi i concetti di sinistra e destra, resi innocui dal discorso parlamentare» perché – spiega dopo aver rivendicato il suo essere di sinistra – «il blocco storico deve essere trasversale», dove trasversale non è quello che noi chiamiamo inciucio parlamentare ma «l’unità popolare degli esclusi». Gioca sul sicuro, Pablo.
Le piante dei piedi battono forte sul pavimento, tempo e controtempo. È il pateo. Quando sale sul palco, Íñigo Errejón il grido è ancora e sempre unidad. Il segretario politico si scaglia contro gli altri partiti, «contro la corruzione, il malaffare, la criminalità della vecchia politica, cui si contrappone l’unità non di una semplice lista elettorale ma di un popolo e della sua gente».
Attacca la scelta liberista di Ciudadanos, il partito populista di destra che ha messo i bastoni tra le ruote a Podemos, «che cede la sovranità nazionale della Spagna, con accordi commerciali che umiliano il nostro Paese». Portatore di una mozione congressuale esplicita fin dal suo titolo (Recuperar la ilusión) è evidente che – quando afferma «Abbiamo cambiato la cultura politica della Spagna, adesso tutti guardano a noi come modello» – si rifà a un mitico Podemos delle origini, cui aspira a tornare senza alleanze (quelle volute da Iglesias con Izquerida Unida), magari per contrattare da una posizione di forza con il Psoe. Ce la mette tutta Inigo.
Tacco-punta, tacco-punta, in sospensione, quasi in surplace. È il punteado.
Poi è il turno di Miguel Urbán e Teresa Rodriguez, e della loro mozione di minoranza, equidistante ma di chiara ispirazione pablistas, e sono fin da subito i più applauditi. Unidad, gridano tutti. Ancora. La parola si fa mantra, entità. «Non siamo qui per affossare il nemico interno, perché qui non ci sono nemici ma solo compagni» esordisce Miguel che poi attacca «il golpe fascista della Troika contro i diritti del popolo sovrano. Un fascismo il cui antidoto è Podemos». Teresa rivendica l’unità di Podemos «attraverso l’autorganizzazione popolare di base come processo collettivo e consapevole», chiarisce che «governare non è una necessità estetica, ma un processo storico» e conclude in crescendo con il potere dei sogni dei dannati della terra. L’ovazione più calorosa è per loro, è un tripudio.
Controtempo totale, ritmo sincopato, assoli virtuosistici. È lo zapatedo.
Finisce la giornata, si chiudono le urne, diecimila attivisti scendono le scalinate di cemento del palazzetto e tra loro, e nell’aria, risuona ancora una sola parola: unidad.
Certo, la rappresentazione del fracaso (fallimento) elettorale di giugno e del desgarramiento (dilaniamento) attuale è una scelta politica dei media volta a delegittimare un partito che spaventa l’establishment tanto di destra (PP) quanto di sinistra (PSOE), ma in ballo c’è davvero una questione formale e sostanziale di primaria importanza: rivendicare la propria vocazione maggioritaria immergendosi nei movimenti (e alleandosi con Izquerida Unida), come chiede Iglesias, o ritornare alle radici e costruire un movimento autonomo capace piuttosto di contrattare alla pari con il Psoe, come chiede Errejón. Per ora la risposta è una sola: unidad.

Madrid, el día cuatro: Hasta la victoria

«Ho un mandato all’unanimità per il Congresso e la Segreteria, questo significa umiltà e unità», esordisce Pablo Iglesias. È mezzogiorno di domenica, e lo spoglio dei voti lo ha eletto Segretario generale con un voto plebiscitario (quasi il 90%). Pablo stravince non solo nella riconferma (senza rivali, Íñigo Errejón non si è candidato), nelle mozioni congressuali – i quattro documenti (politico, etico, organizzativo e sull’eguaglianza di genere) sono maggioranza con il 55% circa –, ma soprattutto nel numero di Delegati congressuali: lì dove era in palio la vera posta, e dove ne conquista 37 su 62, lasciandone solo 26 a Errejón. Ora il Consiglio direttivo di 12 persone, nominate, sarà saldamente nelle sue mani.
Per un partito che fa della forma un elemento cardine della sostanza, la procedura è decisiva. Parlando con gli attivisti, in metropolitana, nei bar, sui gradoni e nei corridoi di cemento del palazzetto di Vistalegre, si scopre che in molti hanno votato la conferma di Iglesias a Segretario generale ma diversi membri della corrente errejonistas come delegati: per bilanciare il partito, per tenerlo insieme, per non vederlo sgretolarsi davanti ai loro occhi dopo solo due anni.
Quel grido che ha risuonato tutto il sabato, la parola unidad, ha rischiato così di essere controproducente. In un partito bilanciato, la lotta politica, e anche personale tra i due leader – va detto – sarebbe continuata all’infinito. Ma la vittoria schiacciante, e su tutti i fronti, di Pablo Iglesias certifica l’unidad una volta per tutte.
Unidad non è più un esorcismo, ma il dato da cui ripartire nelle parole scelte con cautela da Iglesias: «Unità e umiltà per la giustizia sociale e la sovranità popolare, unità e umiltà per i diritti umani calpestati dal fascismo europeo, unità e umiltà per le donne uccise dalla violenza machista, unità e umiltà per la patria dei lavoratori, degli studenti, dei piccoli imprenditori e dei migranti, unità e umiltà per portare in parlamento le richieste della società civile, unità e umiltà per governare e cambiare la Spagna».
Vedremo quanto durerà. Quando Iglesias sale sul palco, sono saluti e baci per tutti, ma l’abbraccio a Íñigo è il più lungo, il più applaudito, e non è detto il più sincero. Íñigo per tutta la settimana ha avuto una faccia tetra, mai un sorriso, e già oggi qualcuno chiede più o meno esplicitamente che faccia un passo indietro. Il suo pallore sul palco è quasi fantasmatico, spettrale, ricorda quello dei re e dei nobili dipinti da Goya.
Ma Podemos non vuole il giovane re cereo e sbiadito, vuole il volto deformato del rappresentante del popolo dell’ombra. Vuole Pablo Iglesias.
Il mantra unidad lascia così spazio al grido liberatorio Sí! Se puede.
Se si potrà, sarà per la decisione de El Hombre Invisible Íñigo di deporre le armi, e accettare la svolta movimentista intrapresa da Podemos. Se si potrà, sarà perché le alleanze municipali, vero cuore dello scontro che si è protratto fino al congresso, reggeranno.
E allora nel 2019 alle elezioni europee e nel 2020 alle legislative spagnole, Podemos si presenterà davvero «più forte e maturo per governare». Un partito radicale, movimentista, di sinistra, per «un Paese nuovo, migliore, dove tutti sono davvero uguali». La conclusione di Pablo Iglesias non lascia adito a dubbi: «Unità e umiltà! Hasta la victoria!».
Leggi anche:
  • Podemos a congresso
  • A che punto è la Spagna?
  • Il fracaso socialista

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