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MONITOR


lun 6 marzo 2017

PARIGI, ULTIMA CHIAMATA

Proponendo il reddito di cittadinanza, la riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore settimanali, la tassazione della ricchezza prodotta dalle macchine, la lotta alla cosiddetta uberizzazione e allo sfruttamento della gig economy, Hamon ha marcato discontinuità cruciali. Se non vuole condannarsi all’estinzione, il socialismo europeo deve ripartire dal programma del candidato francese e favorire, sulle parole d’ordine del reddito di cittadinanza e di un nuovo welfare, una ricomposizione politica, affrontando la battaglia contro il mostro bicefalo del dispositivo oligarchico neo-liberale e del neo-sovranismo.

Parigi torna al centro della scena europea. Le elezioni presidenziali francesi (23 aprile, 7 maggio) rappresentano le sliding doors dell’UE. Sia che Marine Le Pen dovesse conquistare l’Eliseo, sia che l’“unione repubblicana” tenga al secondo turno, l’opzione non data dagli eventi alimenterà il gioco del what ifChe cosa sarebbe successo se…
Dunque, la partita decisiva per gli assetti continentali si gioca oltralpe e il ballottaggio del 7 maggio sta assumendo i contorni di una grande sfida all’O.K. Corral. All’apparenza, la posta in gioco è il futuro della moneta unica. Con un maggioritario a doppio turno, il sistema elettorale francese contribuisce a rendere plastica l’opposizione tra il Front National, che rimanda alla marea montante della destra e del cosiddetto populismo, e le forze moderate ed europeiste, benché gli attori che occupano il campo conservatore in Francia sembrano avere ben poco di moderato. Molto più dei Paesi in cui si voterà col sistema proporzionale (l’Olanda chiamata alle urne il 15 marzo, la Germania in settembre e l’Italia in bilico sul filo delle consultazioni anticipate), è la Francia a rappresentare il teatro di una contesa che, per l’Unione, assume i contorni di una vera e propria Armageddon.
Eppure, al di là di queste considerazioni generali, le elezioni transalpine presentano molteplici elementi d’interesse e alcune incognite che rendono la partita più aperta di quanto si possa credere. In ballo, c’è il destino del socialismo continentale e – più in generale – della sinistra, tagliata trasversalmente dall’aspra contrapposizione tra i sostenitori delle tesi sovraniste, orientati verso una variante de gauche del “populismo”, e gli assertori di una battaglia trans-nazionale volta all’apertura di un processo costituente per riscrivere i fondamenti della Ue, sperimentando al contempo la definizione di forme politiche post-statuali e di un nuovo welfare all’altezza delle radicali mutazioni che hanno investito il sistema produttivo.
Déjà-vu
L’unica certezza al momento sembra essere il Front National con Marine Le Pen avviata a conquistare la maggioranza relativa e il primo posto al ballottaggio del 7 maggio. 
La partita è relativamente più aperta nel campo dei contendenti dove si sfidano il socialista Hamon, il repubblicano Fillon e il “centrista” Macron. Con il secondo in caduta libera per via degli scandali giudiziari, la corsa è tra l’outsider che ha vinto le primarie socialiste con un programma giocato tutto a sinistra e l’ex-ministro del secondo governo Valls uscito da “destra”. Due socialisti, dunque. In rottura da posizioni opposte con la presidenza di François Hollande. 
Al momento i sondaggi premiano Macron, l’ex-banchiere filo-europeista appoggiato dai Rothschild, che con un movimento “né di destra né di sinistra” corre fuori dal sistema dei partiti pur essendo la quintessenza dell’establishment. Un finto battitore libero che ha trovato la chiave dell’uscita per smarcarsi del tutto dall’attuale inquilino dell’Eliseo. 
Lo scontro Macron-Hamon assomiglia – per certi versi e con i dovuti distinguo – a quello che ha opposto alle primarie democratiche Hillary Clinton a Bernie Sanders. Se si verificasse lo scenario più probabile, quello su cui scommettono i sondaggisti, il ballottaggio sarebbe tra Macron e il Front National. Anche questa proiezione alimenta il gioco del “già visto”, ricordando a più di un analista le ultime elezioni americane con la candidata democratica, ex first lady, opposta a Donald Trump, su uno schema riconducibile alle opposizioni sistema/anti-sistema, politica versus populismo, basso contro élites. 
Ma non è tutto assimilabile ai precedenti della Brexit o dell’election day americano. Una differenza decisiva, ad esempio, è che le presidenziali francesi hanno come posta la moneta unica e che la tenuta dell’euro passa proprio da Parigi.
Un vento nuovo
Ma c’è un’altra variabile da considerare: ovvero, la candidatura di Benoît Hamon che a sorpresa ha scalato il partito socialista superando il premier Manuel Valls. Al di là di certe superficiali rappresentazioni mediatiche che tentano di rovesciare su Hamon l’etichetta di “populismo di sinistra”, così da rappresentare la candidatura di Macron come l’unico vero argine moderato, l’outsider socialista ha “sparigliato” movimentando il quadro con un programma che non solo rappresenta un’anomalia sulla scena politica europea, ma segna una vera e propria rivoluzione copernicana nel campo socialdemocratico. Proponendo il reddito di cittadinanza, la riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore settimanali, la tassazione della ricchezza prodotta dalle macchine, la lotta alla cosiddetta uberizzazione e allo sfruttamento della gig economy, Hamon ha marcato discontinuità cruciali. Da un lato, si è spinto decisamente fuori dal perimetro della socialdemocrazia e dal suo postulato storico che predica la centralità del lavoro, e che proprio sul lavoro fonda l’inclusione nella sfera della cittadinanza, dall’altro ha contrapposto un antidoto programmatico efficace al veleno sovranista e populista. 
Hamon dice così semplici. Ovvero, non si tratta di difendere il lavoro “francese” dal dumping salariale generato dai flussi migratori, così come non si tratta di difendere il lavoro dalla tecnologia e dagli algoritmi. Al contrario, la vera sfida sta nel considerare la prestazione d’opera sempre meno centrale e tendenzialmente marginale. Così sposta l’asse del discorso dal salario al reddito, eludendo le sirene della Nazione e la mistica dei confini, e opponendo al montare di passioni tristi una visione prefigurante e un orizzonte di emancipazione. 
Dall’altra parte del campo, crescono le forze che predicano il ritorno alla sovranità nazionale, l’ossessione securitaria, un quadro di piena occupazione, la questione del salario, il mantra NO EURO. Su questo versante del quadro politico, non c’è solo il Front National di Marine Le Pen, ma anche una forza di sinistra come La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon. Occorre precisare come l’alleanza tra Hamon e Mélenchon non sia riducibile a una desistenza tattica. Le due posizioni, infatti, sono sideralmente lontane al punto che è quasi conveniente approfondirne le contraddizioni. Hamon sceglie di porsi all’altezza del punto più avanzato di sviluppo del capitalismo estrattivo e finanziario, riconoscendo le profonde mutazioni avvenute sul terreno della produzione ad opera della tecnologia per sfruttarle come occasioni di redistribuzione della ricchezza. Mélenchon, al contrario, rivendica tutte le prerogative della piena sovranità nazionale, inneggiando – per dirla con il filosofo Pierre Dardot – a un «paese che si ribella ai poteri esterni»: «La componente nazionalista è presente sin dal nome che questo movimento si è dato. Il riferimento è alla pretesa della rivoluzione francese dove la nazione pretendeva di incarnare l’universale».
Un’altra Europa è possibile?
Più e meglio di quanto accadde in Grecia col primo governo Tsipras, un’eventuale presidenza Hamon potrebbe ispirare un processo di riforma radicale degli assetti oligarchici e ordoliberali dell’Unione europea. La Francia di Hamon costringerebbe la Germania a misurarsi con i grandi nodi insoluti che hanno trasformato l’Europa nel cortile di casa del neo-mercantilismo teutonico. È stato il surplus commerciale tedesco a spingere gli altri Stati a una corsa continua al ribasso sul terreno del salario, delle condizioni lavorative, del welfare e dell’ambiente. Ed è stata l’egemonia commerciale tedesca a provocare stagnazione del resto d’Europa e ad aggravare la condizione debitoria dei Paesi più deboli, mentre i differenti sistemi fiscali su base nazionale venivano impiegati per aumentare – nella competizione tra Stati – l’attrattività dei capitali a scapito della progressività e degli stimoli alla crescita. La trattiva dell’estate 2015 tra Atene e la UE a trazione tedesca ha dimostrato che un’opzione concertativa e di dialogo non è possibile. La Francia, tuttavia, non è la Grecia. Per questa ragione una vittoria dei socialisti potrebbe essere l’innesco di un ripensamento radicale dell’Europa. 
Nel caso in cui dovesse vincere Marine Le Pen, una forza populista e sovranista sarebbe chiamata a governare misurandosi con la possibilità di uscita dalla moneta unica. Lo scenario in oggetto varrebbe come test per valutare le reali chance di rottura dell’unità monetaria da destra, dopo che l’ipotesi di una Grexit da sinistra fu esclusa da Alexis Tsipras. Vale la pena immaginare anche uno scenario in cui, una vittoria del Front National nelle presidenziali non si tradurrebbe automaticamente in una vittoria delle forze NO EURO in un eventuale referendum o addirittura che una presidenza Le Pen si trovi impossibilitata a gestire l’uscita della Francia dall’unità monetaria. E in quel caso Parigi diventerebbe l’Atene del populismo continentale. 
Nell’ipotesi che sia Macron a salire all’Eliseo, è lecito ipotizzare un ritorno al tempo sospeso dei negoziati infiniti, del riformismo inefficace e della rimozione del conflitto.
C’è un’unica costante al netto delle diverse proiezioni, Benoît Hamon ha fissato un punto di non ritorno. Se non vuole condannarsi all’estinzione, il socialismo europeo deve ripartire dal programma del candidato francese e favorire, sulle parole d’ordine del reddito di cittadinanza e di un nuovo welfare, una ricomposizione politica, affrontando la battaglia contro il mostro bicefalo del dispositivo oligarchico neo-liberale e del neo-sovranismo.

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