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MONITOR


lun 21 marzo 2016

LO STALLO DELL’EUROPA

Sarà l'italia il prossimo Stato-cuscinetto?

21 MARZO 2016 – Di fronte a oltre un milione di profughi giunti nel 2015 e alla possibilità che altrettanti arrivino quest’anno, l’Europa si trova da mesi in una situazione di stallo strategico e di paralisi decisionale. Le poche vere decisioni prese (come quelle sulla relocation di 160.000 richiedenti asilo da Grecia e Italia) sono vanificate dall’ostruzionismo in fase esecutiva da parte di blocchi informali di stati membri.
L’accordo-quadro con la Turchia, quale è emerso il 18 marzo 2016 dall’ultimo di una frenetica serie di vertici, è un tentativo estremo di puntellare una situazione sull’orlo del tracollo. Ma si tratta di una pezza provvisoria, la cui tenuta è dubbia, persino nel breve periodo. Il principio su cui si fonda il mezzo accordo con Ankara – per ogni profugo siriano riammesso dalla Turchia dopo un tentativo di attraversamento irregolare del Mar Egeo, un profugo siriano trasferito dalla Turchia nella UE per canali legali – presuppone un’intesa tra tutti gli stati membri in materia di “burden sharing”. Ma come ripartire i migranti forzati siriani meritevoli di protezione? L’accordo tra i Ventotto su questo punto cruciale continua a mancare. Non è un caso che il resettlement dalla Turchia sia stato sottoposto a un tetto massimo di 72.000 persone, ben al di sotto dei bisogni reali.
Il fatto è che siamo di fronte a una risposta parziale e temporanea, mentre l’impasse dell’Europa ha natura strutturale. Più o meno tutti concordano che il vecchio ordine è morto. Un ordine imperniato sulla stretta interdipendenza tra Schengen e Dublino, in cui la libertà di circolazione interna aveva come presupposto non dichiarato una situazione geopolitica che manteneva la pressione migratoria alle frontiere esterne su livelli moderati.
Oggi quell’ordine è tramontato. Ma sulle ceneri del vecchio, il nuovo non riesce a nascere. La celebre formula gramsciana, riferita al periodo di transizione tra fine della Prima guerra mondiale e avvento del fascismo, ci dice qualcosa ancora oggi: “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati” (Quaderni dal carcere, Q3, § 34).
Come uscire dunque da questa palude, in cui milioni di profughi soffrono e migliaia letteralmente annegano, in cui i principi europei affondano e nuovi fascismi mettono radici? Semplificando un po’, ma non troppo, ci sono due vie: una verso l’alto, che apre il futuro, e una verso il basso, rivolta al passato.
La prima passa per un trasferimento di sovranità, che dia all’Europa le leve che le consentano di riconciliare i propri principi con le proprie paure, di ritrovare un equilibrio almeno parziale tra la propria identità teorica – quella di un normative power policentrico fondato sui principi di sussidiarietà e solidarietà tra stati membri – e la propria identità reale. Sapendo che, di questa identità reale, la paura dell’Altro migrante è ormai di fatto un pilastro, che richiederà grandi investimenti politici e culturali per essere smantellato e sostituito.
Alcuni elementi di questa “via alta” di uscita dalla crisi sono già allo studio: in particolare, la proposta della Commissione europea, presentata a dicembre 2015, per la creazione di una Guardia costiera e di frontiera comune è attualmente oggetto di negoziati.
Il problema di fondo è che mettere in comune sovranità è sempre difficile. Ma rischia di diventare impossibile quando gli obiettivi strategici per l’esercizio della stessa sovranità non sono condivisi; quando, come ora, gli interessi nazionali si stagliano nitidi, mentre l’interesse comune rimane sfuggente.
Inoltre, per generare leve esecutive nuove di potenza sufficiente, servirebbero risorse enormi, che possono venire solo dalla contemporanea riduzione di altre voci del bilancio europeo. Nella programmazione finanziaria per il periodo 2014-2020, su un totale di circa mille miliardi, meno di un decimo va ad “azioni esterne”, dalla politica estera a quella di cooperazione. Ma per provare ad affrontare davvero le cause delle migrazioni forzate alla radice, come sulla carta si ripromette di fare l’Unione europea (si veda, per esempio, il Piano d’azione partorito dalla Conferenza UE-Unione Africana di novembre 2015 a La Valletta), serve molto di più. Bisognerebbe attingere altrove, ridimensionando drasticamente la Politica agricola comune o i criteri di allocazione dei Fondi strutturali.
Ma di questo, ad oggi, nessuno si azzarda a parlare. Al World Economic Forum di Davos, in gennaio, sia Wolfgang Schäuble che Frans Timmermans hanno parlato di un “piano Marshall” europeo per il Medio Oriente e per l’Africa, ma al di là di vaghe ipotesi su una tassa europea sugli idrocarburi, nessun dettaglio è stato fornito sulle possibili fonti di finanziamento.
Per tentare di uscire da questa impasse potenzialmente fatale, rimane dunque, almeno a breve termine, solo la “via bassa”. Quella che di fatto abbiamo già imboccato con il ripristino temporaneo dei controlli a tappeto sui flussi alle frontiere interne lungo tutta la rotta di terra che attraversa i Balcani per giungere sino in Germania e in Svezia. Questa via bassa andrà percorsa con estrema prudenza, evitando un domino distruttivo in cui l’eventuale proroga della sospensione di Schengen potrebbe produrre ripercussioni sistemiche sulla libertà di movimento per i cittadini europei, sul Mercato comune e, secondo alcuni, persino sull’euro.
La sospensione di Schengen non va drammatizzata eccessivamente. Accanto ai costi ingenti, di cui si è molto parlato, potrebbero persino esserci dei benefici indiretti: l’aumento dei costi strutturali del trasporto su gomma potrebbe, per esempio, generare incentivi possenti al trasporto su ferro (e dunque alle infrastrutture europee, e quindi magari anche agli euro-bond).
Ma Schengen, probabilmente, non sparirebbe per tutti, o almeno non per tutti nello stesso modo. A livello di individui, già negli anni scorsi, la libertà di circolazione non era per tutti uguale: più era scuro il tuo colore di pelle, più era probabile che incappassi in un controllo di polizia “a campione”, sui treni o sugli autobus al valico di Ventimiglia o al Brennero.
*di Ferruccio Pastore, direttore di FIERI

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