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gio 20 luglio 2017

LIU XIAOBO: LA CINA FA MURO DI GOMMA

Lo scorso 13 luglio l’attivista cinese Liu Xiaobo è morto in una stanza dell’ospedale di Shenyang. Tra i principali animatori del movimento pro-democrazia cinese e promotori del manifesto Charter 08, nel 2008 Liu Xiaobo fu arrestato e condannato a 11 anni di reclusione per «incitamento alla sovversione dello stato».

Lo scorso 13 luglio, dopo giorni di balletto diplomatico intorno al suo stato di salute e appelli della comunità internazionale per una liberazione last-minute, l’attivista cinese Liu Xiaobo è morto in una stanza dell’ospedale di Shenyang, in seguito a complicazioni dovute a un cancro al fegato in fase terminale. Per ordine delle autorità cinesi era stato scarcerato da alcuni giorni e ospedalizzato in una struttura vicino al carcere dove era rinchiuso dal 2009.

Liu Xiaobo vs la Cina

Tra i principali animatori del movimento pro-democrazia cinese e promotori del manifesto Charter 08, nel 2008 Liu Xiaobo fu arrestato e, un anno dopo, condannato a 11 anni di reclusione per «incitamento alla sovversione dello stato». Nel 2010, al culmine di una campagna di sensibilizzazione internazionale, vinse in contumacia il Premio Nobel per la Pace e le foto della sua sedia vuota a Oslo, durante la premiazione, ne fecero immediatamente un simbolo globale della battaglia per i diritti umani nella Repubblica popolare cinese.
Un simbolo che, negli anni, si è andato dissolvendo nella coscienza collettiva dell’opinione pubblica mondiale, tanto che – come ha sottolineato Simone Pieranni su il manifesto – la precisa opposizione politica di stampo «occidentale e liberale, tendente al liberismo in materia economica» di Liu è stata sovradeterminata dallo status di «dissidente», affibbiatogli a ragione dalla stampa internazionale, pronta a prenderne le parti con forza a ridosso dell’arresto ma progressivamente «addormentata» dal muro di gomma della Cina popolare.
Di fatto, Liu Xiaobo era uscito dal radar dell’indignazione internazionale, segnando un drammatico successo del soft power cinese contemporaneo, capace di isolare le macroscopiche zone d’ombra in termini di rispetto dei diritti umani all’interno dei propri confini in favore di una narrativa del successo economico nazionale e di un espansionismo commerciale che si vorrebbe anti-imperialista.
Ma con la morte di Liu – cui Pechino ha negato l’estradizione temporanea per motivi medici chiesta da Germania, Stati Uniti e Regno Unito – la Cina è tornata al centro delle critiche internazionali e, senza sorpresa, la retorica bonaria della superpotenza guida della globalizzazione ha lasciato spazio ad articoli al vetriolo tipici della propaganda cinese indirizzata all’estero. Dal 13 luglio il quotidiano cinese in lingua inglese Global Times ha pubblicato a scadenza giornaliera una serie di editoriali di fuoco contro la «politicizzazione» del caso Liu voluta dall’Occidente, reo di voler strumentalizzare la condizione di salute dell’attivista per attaccare la Cina altrimenti inattaccabile dal punto di vista economico. In un articolo intitolato «Dissidents waste lives as China prospers», a margine di un attacco indiretto mosso contro chiunque critichi la Cina partendo dalla «tragedia personale» di Liu Xiaobo, sul Global Times si legge:
«l’opinione pubblica rispetto alla Cina difficilmente registrerà un miglioramento finché l’Occidente non accetterà la crescita cinese e non ne approverà il suo sentiero economico e politico. Perciò la strategia dell’opinione pubblica della Cina dovrebbe rinunciare a convincere l’Occidente e concentrarsi maggiormente sull’unire il proprio popolo ed esaltare la fiducia nella società. La Cina è sul giusto sentiero dello sviluppo, come dati ed esperienza hanno provato. Certo, ci sono molti problemi in Cina, ma le istituzioni cinesi sono determinate e dedicate a risolverli. Le forze occidentali e dissidenti come Liu Xiaobo sono disturbatori dei costanti progressi della Cina».

Muro di gomma

Questo passaggio, in poche righe, rappresenta perfettamente la reazione comandata cinese alle critiche mosse contro il proprio sistema politico dal variegato mondo della dissidenza cinese e dalla stampa internazionale: sindrome da accerchiamento, rifiuto del confronto sui contenuti, difesa della crescita economica come unico metro di successo della società cinese.

Il modus operandi di chi critica la Cina, stando così le cose, è destinato al fallimento.
A infrangersi invariabilmente contro il muro di gomma eretto dal governo di Pechino, impermeabile a qualsiasi discussione sul rispetto dei diritti umani e, anzi, pronto a ripiegarsi ancora con più forza su posizioni brutalmente repressive.
Nel caso specifico, gli ultimi giorni di Liu Xiaobo, con un senso del macabro raro anche per la propaganda cinese, sono stati strumentalizzati da Pechino attraverso un video smaccatamente propagandistico con l’obiettivo di smontare l’argomento principe per la richiesta di estradizione temporanea di Liu. E ora, allo stesso modo, agli appelli della comunità internazionale per la liberazione di Liu Xia, vedova dell’attivista agli arresti domiciliari a Pechino dal 2009 (pur non essendo stata mai né arrestata né processata per alcun reato), la Cina oppone la retorica del Pil:
«La Cina ha dimostrato la propria vitalità e il proprio potenziale con la sua crescita del Pil al 6,9 per cento nella prima metà del 2017. La cooperazione con la Cina è il vero argomento dell’Occidente. Liu Xiaobo è solo uno strumento dei paesi occidentali per mantenere il proprio senso di superiorità e moneta di scambio per strappare maggiori benefit dalla Cina. Liu Xiaobo se n’è andato. Le forze occidentali e i dissidenti posso lasciar perdere Liu Xia».
Per rompere questo ciclo inefficace di azione e reazione che, alla prova dei fatti, non sposta di una virgola la situazione dei diritti umani all’interno dei confini della Repubblica popolare cinese, è necessario pensare a nuove forme di persuasione.

La Cina e i diritti umani

Ne è convinto Robert Precht, fondatore di Justice Labs ed ex responsabile di una Ong statunitense attiva nel campo della legge e dei diritti a Pechino, che in un recente articolo intitolato «The Fate of Liu Xiaobo and the Failure of Western NGOs» ha impietosamente giudicato «inefficace» la strategia di molte Ong straniere attive in Cina: pensare che «aprire uffici nel paese e promuovere l’idea che, con un’istruzione adeguata, i cinesi col tempo avrebbero abbracciato i valori dei diritti umani occidentali» potesse avere un’incidenza sulla società contemporanea cinese.
Un progetto che, secondo Precht, è fallito, incapace di adattarsi ai mutamenti registrati in Cina negli ultimi vent’anni. La superpotenza economica cinese di oggi è radicalmente diversa dalla Cina in via di sviluppo di fine anni Novanta, quando «era ancora affamata di conoscenze ed expertise occidentali e le autorità erano disposte a tollerare la presenza non regolamentata di Ong straniere».
Ora la tendenza si è invertita e «aziende e università occidentali si sono stabilite in massa nel paese in joint venture con compagnie e governi locali […] rimanendo in silenzio di fronte alla campagna del governo cinese contro il dissenso».
Ancora secondo Precht, il tema dei diritti umani «non deve più essere visto come una preoccupazione esclusiva delle élite liberali. Deve essere sposato e promosso da persone e istituzioni prese come esempio dalla società, comprese le grande aziende, le università e gli opinion leader».
Provocazione forse troppo naïve ma che di certo indica la necessità di trovare nuove modalità per bucare l’impermeabilità del governo cinese al rispetto dei diritti umani e della libertà di espressione all’interno dei propri confini.

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