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MONITOR


ven 8 settembre 2017

LICENZIAMENTI FACILI À LA MACRON

Dalle proteste del 1995 allo sciopero del 12 settembre 2017, sempre più a rischio le garanzie per i lavoratori. A licenziamenti più facili equivarranno assunzioni più semplici? Il refrain del presidente francese è «flessibilità» e «sicurezza». La narrazione liberal-socialista si compone di azioni “nuove” contro un fantomatico “vecchio” e “arretrato”. Così il potere contrattuale dei lavoratori diventa il nemico numero uno della crescita, il lavoro garantito una zavorra e i licenziamenti facili un rimedio per la disoccupazione. I sindacati in piazza il 12 settembre: «È la fine del contratto di lavoro».

“Juppé non ti lasceremo rubare la nostra previdenza e le nostre pensioni”, scandivano gli striscioni per le strade d’Oltralpe. Correva l’anno 1995, era l’autunno dello scontento, quello della Francia de facto chiusa per sciopero. Studenti, statali, ferrovieri: una marea umana attraversava le strade del Paese, dalle Alpi fino all’Atlantico.  Erano i giorni dell’annunciata riforma del welfare che portava il nome del primo ministro Alain Juppé. Jacques Chirac era stato eletto presidente pochi mesi prima. Furono sessanta i giorni di proteste ininterrotte. Alla fine Juppé fece retromarcia e ritirò la sua legge sulle pensioni.
Un corteo dell’autunno 1995

Riavvolgiamo il nastro della storia. Flashback-flashforward.

Quasi ventidue anni dopo, è l’anno 2017. Il calendario segna i giorni mancanti al prossimo sciopero, ma nessun blocco totale del Paese sembra prospettarsi all’orizzonte. Data: 12 settembre. Oggetto: la riforma del lavoro voluta dal presidente Emmanuel Macron e contenuta in cinque decreti.

Specificità: la Confédération Générale du Travail (CGT) per bocca del leader Philippe Martinez ha avvertito: «Siamo di fronte alla fine del contratto di lavoro». Precedenti recenti: primavera 2016, sotto la presidenza del socialista François Hollande, fiumi di gente in piazza contro il tentativo di riforma della Loi de Travail. E ancora, c’è una storia simile, ma dieci anni prima: a spingere studenti e lavoratori per le strade nel 2006 furono le mosse del premier conservatore Dominique de Villepin.

Simboli: poche bandiere, questa volta. Non ci saranno i tesserati di Confédération française démocratique du travail (CFDT), il secondo sindacato di Francia che nel privato supera la CGT per aderenti. Lamentano «delusione» e «risvolti negativi per i dipendenti», ma negano che la cosiddetta flexi-securité à la Macron «distrugga il codice del lavoro». Saranno assenti anche i leader di Force Ouvrière.L’indomito Jean-Luc Mélenchon, leader de la France Insoumise [qui il ritratto del “ribelle ambiguo” visto dai Diavoli, ndr], guiderà il corteo di protesta undici giorni più tardi, il 23 settembre. L’ex candidato socialista e grande flop delle presidenziali, Benoît Hamon, si unirà a entrambe le manifestazioni.
Le proteste della primavera del 2016


Punti di vista

A sentire Macron la riforma del lavoro sarà una «rivoluzione copernicana». Stando agli entusiasmi del premier Edouard Philippe si tratta di una «riforma ambiziosa, equilibrata e giusta».
Il refrain è «flessibilità» e «sicurezza», la narrazione si compone di azioni “nuove” contro un sistema (quello sindacalizzato) ritenuto “vecchio” e “arretrato”. Se il presidente tuona che bisogna «rinnovare il modello sociale», il primo ministro gli fa eco ribadendo che bisogna «riparare il Paese». Così nella ricetta liberal-socialista di Macron il potere contrattuale dei lavoratori diventa il nemico numero uno della crescita, il lavoro garantito una zavorra e i licenziamenti facili un rimedio per la disoccupazione.

Flessibilità significa licenziamenti facili

Quello che la leadership di Francia ha ribattezzato «fenomeno di massa dei senza-lavoro si traduce in un 9,5% secondo i dati Eurostat.
Ciò che il governo chiama fine del monopolio sindacale significa negoziati diretti azienda-dipendenti nelle piccole e medie imprese con meno di 20 lavoratori. Nel caso delle Pmi che hanno tra i 20 e i 50 dipendenti, invece, a mediare sarà un rappresentante del personale, ma non un membro del sindacato. Flessibilità vuol dire licenziamenti più facili per le aziende. Il termine ultimo per fare appello contro un licenziamento sarà ridotto da due anni a uno. Significa anche licenziamenti meno costosi: le indennità saranno regolate a partire dallo schema 3 mesi di stipendio fino a due anni di servizio, poi gradualmente aumentate fino a 20 mensilità su 30 anni di anzianità.
Gli organi di rappresentanza, finora tre (delegati, comitato d’impresa e comitato di igiene e sicurezza) verranno fusi in un solo Comitato “economico e sociale”. Le contrattazioni di settore perderanno forza e le difficoltà economiche delle multinazionali che licenziano in Francia saranno valutate solo a livello locale, anche se le società hanno i conti in attivo su scala globale.

Il progetto è tanto ambizioso quanto pieno di insidie. Macron, finora, è riuscito a trattare bene con alcuni sindacati. Mesi fa, ancora prima della scelta del nuovo inquilino dell’Eliseo, Martinez della CGT, di Macron diceva: «È sempre d’accordo con tutti. A me diceva che avevo ragione. Ma anche agli altri: così non si va da nessuna parte». Annunciava: «Noi scenderemo di nuovo in piazza, se sarà necessario». Oggi, che la cifra di popolarità presidenziale si misura sulla Loi de Travail rivista ancora una volta per decreto, Martinez ripete: «Tutti i nostri timori trovano conferma: qui siamo di fronte alla fine del contratto di lavoro».
Emmanuel Macron e Philippe Martinez

Secondo il premier Philippe la roadmap è già tracciata: le cinque ordinanze sulla riforma del Lavoro dovrebbero entrare «in vigore da fine settembre». Prima della ratifica del presidente, il 22 settembre è prevista la presentazione in Consiglio dei ministri. Ma ancor prima, il 12 e il 23 settembre ci saranno le proteste dei sindacati e non solo, di tutti i francesi contro questa riforma che sta erodendo la popolarità di Macron. In soli due mesi – raccontano i dati di un sondaggio Elab per Les Echos – il presidente ha perso otto punti negli ultimi due mesi, passsando dal 39 al 37 per cento. «Lo scetticismo vince», ha commentato il presidente di Elab, Bernard Sananes. Per ora la discesa è stata inevitabile.

«Questa non è la prima volta che Macron pensa che i francesi siano stupidi, come se non capissero le riforme che vengono proposte loro», ha dichiarato, invece, Martinez. La verità, secondo lui, è che «i francesi rifiutano le brutte riforme».
Eppure, i francesi della classe dirigente lo sostengono poiché Macron può aiutare a trasformare il sistema politico-istituzionale della Quinta Repubblica preservandone la capacità di dettare l’agenda di governo per gli anni a seguire. (Da Il fenomeno Macron)

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