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MONITOR


sab 28 maggio 2016

LA NUOVA ESTATE DELLA CULTURA ROMANA

Non c'è solo Mafia Capitale. Dal cinema, al fumetto, alla musica ecco come la città risorge dalle ceneri

21 APRILE 2016 – Da qualche tempo, il senso comune dipinge Roma come una città allo sbando: stremata, corrotta e in rovina. L’immagine è uniforme, la rappresentazione monolitica e priva di sfumature. Dalle pagine locali dei principali quotidiani fino ai social network e alla rete telematica, il coro canta all’unisono: «Roma fa schifo». Tutto ruota intorno al concetto di “degrado”, a cui si contrappone quello di “decoro”. Tutto concorre in questa desolante e vaga direzione. E tutto viene messo insieme: il bilancio in rosso di Roma capitale, la debolezza politica delle amministrazioni, il management delle municipalizzate, l’incompiutezza della linea metropolitana C, la gestione dei trasporti, le grandi inchieste sulla connectioncriminale della “Terra di mezzo”, i migranti, alcuni fatti di “nera” e perfino l’“emergenza” guano. Il dispositivo retorico ingloba elementi diversi e li rumina per poi vomitarli in discorso dominante. Come se bastasse questo per rendere conto di una città tanto complessa.
Eppure, cambiando la prospettiva da cui si guarda, è impossibile ignorare la ricchezza che la città sta esprimendo sul piano culturale. Impossibile non accorgersi di come un universo di narrazioni composite entri in conflitto col mantra che predica la decadenza dell’Urbe. Un contrasto stridente e netto, un cortocircuito che solo la malafede può nascondere agli occhi. E alle orecchie. Perché la musica è il vento che soffia nella primavera fuori stagione della cultura romana, insieme alla letteratura e al cinema. La ricchezza di questo periodo emerge da immagini e suoni. Proiettata da un fascio di luce su schermo, fissata da versi e melodie su tracce audio, impressa da lettere su carta. In questi anni, Roma ha espresso voci significative, anche se diverse. Lo spettro è ampio, e si articola dal “basso” verso l’“alto”: cova in ambienti off e irregolari (un tempo avremmo parlato di “underground”), attraversa il terreno delle produzioni indipendenti (un tempo si sarebbe detto “indie” oppure “overground”) e raggiunge il mainstream dove finisce per imporre una vera e propria “questione capitolina” nel panorama culturale italiano degli anni Dieci. Perché Roma è forse la città più raccontata e cantata della Penisola, centro di gravità permanente per intere galassie di storie. I risultati spesso sono notevoli. Che si osservi con distacco o si denunci con passione, poco importa. Che si raccontino i drammi nei palazzoni delle periferie o gli intrighi nei palazzi del potere, non fa tanta differenza.
Diversi i linguaggi, diversi gli sguardi, diverse le geografie. E diversi anche i punti d’approdo, come attesta con evidenza il cinema degli ultimi anni. Sacro GRA (2013), vincitore del Leone d’oro al festival di Venezia, è un docu-film d’autore. Sull’anello che circonda Roma, il regista Gianfranco Rosi ha sviluppato una ricerca dai toni sospesi e ipnotici, intrecciando frammenti di esistenze spalmate intorno al Grande Raccordo Anulare. E forse non è un caso che proprio questo prisma di storie, raccolte in immersione profonda nella realtà, abbia dato un contribuito notevole alla riflessione sul genere della non-fiction e della narrazione documentaria. L’approccio di Rosi è nettamente diverso da quello, più agile e leggero, con cui Paolo Virzì, in Tutti i santi giorni (2012), ha focalizzato le villette a schiera – sempre a ridosso del Raccordo – per narrare le incertezze di una giovane coppia. Un film certamente mainstream, questo.
Eppure, una caratteristica della ricchezza di Roma è proprio mischiare continuamente le carte, giocare a zona coprendo tutto il campo di gioco, disporre di tante chiavi per narrare. Caleidoscopica diversità di sguardi, e di approdi, dunque. Passano due, tre anni e con Non essere cattivo (2015) di Claudio Caligari storie, registri e forme espressive cambiano ancora. Invece, Lei – quella cosa enorme e sfuggente che chiamano “Roma” – è sempre lì, con i suoi bordi impossibilitati a contenerla. Questa volta, dal Grande Raccordo ci si sposta verso il mare e si procede à rebours: dall’oggi al 1995. Siamo nei Nineties, quindi, nel secolo scorso, come confermano gli omaggi al cinema americano dei Settanta-Ottanta e certe caratterizzazioni che sembrano uscite direttamente dalla matita di Andrea Pazienza. E siamo a Ostia, brandello di litorale romano, oppure ultimo girone dell’inferno: sfondo che vale da metafora della periferia globale europea in trasformazione, dove marcisce un’umanità reietta. A Ostia non arrivano i miti dell’incipiente rivoluzione tecnologica. La droga, invece, arriva. E scorre a fiumi. Non l’eroina, non la “polvere degli eroi”, che proprio Claudio Caligari aveva raccontato alla latitudine espressiva di un grado prossimo allo zero nell’indimenticabile Amore tossico (1983). Il sottoproletariato ha mutato il suo rapporto con l’oppiaceo per adeguarsi alle sostanze dell’“iper-realtà”. Adesso, a Ostia, si smazzano le pasticche, la “chimica” e la cocaina. Adesso, lo sballo perfetto è un mix di polvere da sniffare e mignotte, con il sottoproletario a inseguire – sul terreno del vizio – pariolini, borghesi e politicanti da sottobosco romano. E comunque Non essere cattivo mostra anche lo spettro dell’AIDS, eredità patogena del decennio precedente, impressa a fuoco nei trascorsi e nella backstory di uno dei protagonisti del film. Tra voglia di “normalità” e condanna inappellabile di un destino tragico, in notti allucinate e folli, scorrono le storie di Vittorio e Cesare, due marginali del litorale che ingaggiano la loro personale battaglia con una vita di merda.
Non essere cattivo è diventato un film “di culto” praticamente appena arrivato nelle sale. E forse, lo era già prima che si aprissero i botteghini. Un po’ lo stesso che è successo a Lo chiamavano Jeeg Robot (2015) di Gabriele Mainetti (sceneggiatura di Nicola Guaglianone e “Menotti”): l’aura del cult che aleggia sullo sgangherato supereroe di Tor Bella Monaca nell’istante stesso in cui si materializza sul grande schermo. L’incasso finora non eccezionale è stato compensato dal trionfo agli ultimi David di Donatello, dove il film ha conquistato ben sette premi. Un azzardo simile a quello di Sacro GRA, ma di segno nettamente opposto. Perché in questo caso il coraggio sperimentale si manifesta nell’uso della chiave “fantastico-avventurosa” e dell’“ultra-finzionale”. Mainetti azzarda, rompe con il più abusato realismo e scommette tutto su un terreno poco praticato dal cinema e dalla mass cultureitaliani: quello del Superhero film e dei manga. Anche se poi, a ben vedere, l’operazione narrativa è ancora più sottile e presuppone una dislocazione dei temi propri di un certo racconto realistico (ad esempio, l’illegalità diffusa e le borgate) in una forma espressiva che travalica l’ordine del reale e le leggi della fisica.
Ancora una forzatura, ancora un azzardo. E siamo sempre a Roma. Ed è sempre Roma. Poteva capitare nelle periferie di Milano o Torino? Il supereroe gonzo – per dire – poteva aggirarsi nelle vie di NoLo, il North of Loreto meneghino american style, oggetto di nuovi processi di ridefinizione dello spazio urbano? Chissà. Rimane il fatto che la vecchia “Capitale morale” d’Italia, oggi città-simbolo del “decoro” e archetipo di buona amministrazione, sembra ai margini di quest’audace ricerca nel campo delle forme espressive. Come se le sue tre circonvallazioni non valessero – parlando in termini narrativi – la dirompente forza centrifuga del Grande Raccordo e i suoi bordi geografici fossero afasici rispetto alla babelica loquacità dei tanti margini della Città eterna. Ma torniamo trecentocinquanta chilometri più a Sud. Sempre nelle periferie romane sono ambientate anche due storie asciutte e crude: Et in terra pax (2010) di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, girato con un budget minimo nell’impressionante “serpentone” di Corviale, e Alì ha gli occhi azzurri (2012) di Claudio Giovannesi, che ha per protagonista un ragazzo italiano di seconda generazione. Due film meno noti, che non sono arrivati a guadagnarsi un culto, pur avendo ottenuto apprezzamenti molteplici.
Un caso unico e a sé, poi, è quello di Suburra (Einaudi, 2013): ennesimo capitolo di un’epopea nera e criminale, pienamente inserita nel mainstream come pilastro di un’articolata crossmedialità che ha poco da invidiare ad analoghe operazioni d’oltreoceano. Giancarlo De Cataldo è a tutti gli effetti l’ispiratore di una “quadrilogia romana, e italiana” che si apre con Romanzo criminale(Einaudi, 2002) e si chiude con La notte di Roma (Einaudi, 2015), e che – proprio a partire da Suburra – ha coinvolto il giornalista Carlo Bonini, firma di punta del quotidiano «la Repubblica». Muovendo dalla Magliana e dall’organizzazione criminale che alla metà degli anni Settanta diede l’assalto al cielo della Capitale, De Cataldo ha posto le fondamenta di un universo narrativo in espansione, che si sviluppa nel tempo per quarant’anni e finisce per restituire – da una prospettiva obliqua – tutti i principali nodi della Storia e dell’attualità italiane: dal sequestro Moro alla P2, dalla strage di Bologna all’omicidio Pecorelli, dalle stragi di mafia dei primi anni Novanta a “Mafia Capitale”. La crossmedialità targata De Cataldo si è declinata attraverso molteplici adattamenti cinematografici e televisivi, in grado di sviluppare linee narrative secondarie e di comporre un fitto tessuto di rimandi. Così, Roma si è trasformata in un unico spazio scenico, campo di forze nel quale interagiscono cordate di potere, si articolano dinamiche tanto invisibili quanto pervasive e si saldano rapporti occulti. La città è il centro di questo cosmo narrativo che dal Bing Bang di Romanzo criminale continua a crescere, l’unico luogo d’Italia ad avere una funzione simile. Esemplificativa in questo caso una delle battute del film Suburra. «È stata Roma» dice il “Samurai” (Claudio Amendola) riferendosi all’autore di un omicidio, ma alludendo all’esistenza di una feroce volontà del Genius loci. E del resto, Roma è proprio questo: una specie di sommo protagonista – diversamente animato – che detta le proprie storie riuscendo a farsi ascoltare. Costi quel che costi. E poi, anche le vicende di Suburra sono ambientate in parte a Ostia, come Non essere cattivo. Il luogo della morte di Pasolini è ormai un quartiere capitolino sul mare. In entrambi i casi, emerge come scena del crime o come posta di una partita senza regole (territorio della speculazione del cosiddetto Waterfront), definitivamente lontana da quella Rimini sul Tirreno che aveva scorto Fellini.
Nell’adattamento cinematografico di Romanzo criminale (2005), affidato alla regia di Michele Placido, comparivano diversi attori che – dieci anni dopo – sono diventati figure di primo piano sulla scena nazionale. Tutti nati fra il 1969 e il 1980, tutti romani. Kim Rossi Stuart era il “Freddo”. Pierfrancesco Favino interpretava il personaggio su cui De Cataldo aveva incentrato l’ascesa della Banda e il memorabile incipit di Romanzo: «Io stavo col Libanese». Il “Dandi” era Claudio Santamaria, che compare dieci anni dopo come protagonista di Lo chiamavano Jeeg Robot. Ogni film sembra collegato a un altro, in un dialogo fertile. Infine, sempre in Romanzo criminalein un ruolo secondario c’era spazio anche per Elio Germano, poi miglior attore al Festival di Cannes nel 2010 e oggi tra i volti più importanti del cinema italiano. Per concludere la panoramica bisogna aggiungere altri tre nomi. Il primo è quello del più giovane della compagnia: Luca Marinelli, sfolgorante protagonista di tanti film citati (Tutti i santi giorni, Lo chiamavano Jeeg Robot e Non essere cattivo). Mentre nel cast di Smetto quando voglio (2014), commedia su un gruppo di trentenni iper-qualificati che non trovano lavoro e si buttano sul mercato delle droghe sintetiche, figura Edoardo Leo, altro attore romano della nuova ondata. E ovviamente non può mancare Valerio Mastandrea, produttore della pellicola di Caligari e attore-simbolo della “nuova romanità”, capace di passare con eclettismo dalle commedie ai film drammatici e dal teatro al cinema.
Si può insomma parlare di una vera e propria cantera della recitazione con base a Roma. Un laboratorio dove evidentemente ci si forma bene, si impara, si cresce. E si trova un successo che pare rimandare sempre a un contesto collettivo. Ma la vivacità culturale della Capitale non si esaurisce nel campo del cinema e della letteratura, attecchendo anche nel mondo del fumetto. Tra La profezia dell’armadillo (2011) e Kobane Calling(2016) si registra la fortissima affermazione di Zerocalcare. I suoi graphic novel sono entrati nelle classifiche nazionali, uno è stato ammesso addirittura tra i dodici finalisti del premio Strega. Il percorso di Zerocalcare corre su binari paralleli: il mainstream e quello dei circuiti informali. Per esempio, nell’arco di una settimana, durante il 2014, il fumettista ha dipinto un murale nel quartiere marginale di Rebibbia e ha vinto il premio della trasmissione “Fahrenheit” di Rai Radio3 per il libro dell’anno.
Per capire la varietà, è utile guardare al panorama della musica rap che annovera fenomeni radicati e di culto, come il Colle der Fomento, il cui ultimo singolo si intitola Sergio Leone (2013) quasi a ribadire l’appartenenza a un altro tempo: «Adesso non c’è un buono, un brutto e un cattivo, c’è solo un isterico infame destino». Ma si spazia anche altrove: con esperienze più di nicchia o figure che dichiaratamente strizzano l’occhio al mainstream. Magari sono nati a pochi mesi l’uno dall’altro, come Achille Lauro e Mezzosangue: e se il primo cerca sonorità elettroniche ed espone continuamente il proprio corpo, il secondo canta con un passamontagna e si è affermato tra i puristi con testi evocativi: «Forte di bracciate che non sapevo di fare, solo per toccare terra, nuotare in cielo, chiamami Benoit Lecomte». E ancora, c’è il caso di Coez, che, partendo dalla strada, si è mosso per cercare un rapporto con un pubblico più ampio e rivendicare divertito la sospensione tra generi e stili: «Chi mi vuole più pop, chi mi vuole più rap». La scena romana vede convivere in armonia le sonorità classiche e quelle pronte a ibridarsi, mentre i testi strettamente politici si mischiano a quelli più leggeri.
Uscire dalla nicchia e ascendere al mainstream, è quello che sta succedendo anche a musicisti di altro genere. Su tutti, I Cani di Niccolò Contessa: oggetto di culto del panorama indie, adesso suona in trasmissioni Rai e radio commerciali. Cantava i pariolini di diciott’anni e le cene di coppia al Pigneto, e oggi conquista i palchi milanesi in barba alla tradizionale diffidenza meneghina. E ancora: il caso di Calcutta, altro esponente dell’indie, balzato fuori dai confini urbani negli ultimi mesi, rapidamente diretto verso quello che è anche il titolo del suo ultimo album: Mainstream(2015).
Ci sono poi le diverse declinazioni che può prendere l’uso del dialetto. Che dialetto non è, in verità: una sporcatura dell’italiano, piuttosto, e perciò comprensibile e rassicurante. Intanto, l’uso esotico proprio del cantautorato di Mannarino, che ha raggiunto il podio nella classifica Fimi con l’album Al monte(2014). Mannarino viene presentato come stornellatore moderno, collocato all’interno di una tradizione da canto d’osteria e da balcone, ma al tempo stesso – nel 2011 – ha composto la sigla d’apertura del programma Tv Ballarò. Riguardo al dialetto, c’è anche il legame con la tradizione popolare del Muro del Canto, dove i testi sono più marcatamente impegnati (“’Sta canzone se la porta ‘r vento, più arta de San Pietro e Parlamento, ‘sta Roma derelitta pija d’aceto, ‘na mano c’ha davanti e l’artra dietro”), e che fin dall’esordio nel 2010 hanno conquistato la stima di un pubblico locale e circoscritto.
E poi c’è il fenomeno dei Poeti der Trullo. Sette ragazzi coperti dall’anonimato, che scrivono versi sui muri della città e hanno pubblicato una raccolta di testi, Metroromantici (2015), raccogliendo un buon riscontro grazie al solo passaparola. Poeti e romantici: scelte difficili per i giovani, in controtendenza rispetto al proprio tempo, eppure vincenti. Il contesto che hanno intorno, il Trullo, è un’ex borgata di pessima fama. Durante questi ultimi anni ha vissuto un’effervescente stagione di cambiamento, nel quadro di un “autorecupero” del territorio – promosso “dal basso” – che i Poeti hanno in parte ispirato e che sembra opporsi ai processi di colonizzazione delle periferie nel quadro della famigerata gentrification.
I germogli della cantera romana dello spettacolo fioriscono anche in televisione come attesta la storia di Diego Bianchi, in arte “Zoro”, che negli ultimi anni si è imposto a livello nazionale con un prodotto agile ma non leggero, impegnato ma col sorriso. Il suo Gazebo, in onda su Raitre, è una specie di versione postmoderna di Quelli della notte, espressione di una Tv che mostra un piglio indipendente. Guardandolo, si ha l’impressione di esser fuori dal grande filtro del piccolo schermo. La barriera con lo spettatore è ridotta a una lamina sottile in un oggetto ibrido, dove la politica è centrale, ma la cifra stilistica è completamente crossmediale in grado si spaziare dal fumetto alla musica, alla parodia dei social network. Un programma tutto romano, Gazebo, per i personaggi che lo animano, perché girato in studio a Roma, per come affronta la politica, per i fatti di cui si occupa, e intriso di quell’ironia capitolina che prende in giro tutti eccetto i deboli del mondo.
In quella che viene raccontata come l’apocalisse di Roma, come la notte buia della Capitale, è riuscita a farsi largo una stagione lieta della cultura. Una ricchezza che si dispiega in ampiezza, quasi sovrapponendo la complessità della geografia urbana alla mappatura dell’immaginario. Ammesso che abbia ancora senso parlare di “immaginario” come sintesi di significati, simboli, storie e segni condivisi. La produzione culturale della città trova voce nel mainstream e nei fenomeni di culto, a seconda dei casi. Mantiene il contatto con mondi alternativi o cerca un’apertura nella nicchia. Restando permeabile a soluzioni diverse, esprimendo una certa irriducibilità alle strutture dell’industria culturale e ai suoi meccanismi di sussunzione. E così l’articolazione di complessità non viene ingabbiata in una sola rete né compressa in un imbuto. Ed è questa la differenza forse più evidente rispetto alla “decorosa” Milano, dove – al contrario – i flussi creativi vengono immediatamente catturati nella cornice dei grandi eventi e messi a valore dal capitale culturale. Come se all’ombra della Madonnina non ci fosse spazio per l’eccedenza espressiva, l’autonomia delle voci, l’indipendenza – anche solo parziale – dell’intelligenza collettiva. E come se tutto si riducesse alla questione del “dentro” o del “fuori”: esiste solo ciò che trova spazio nella vetrina scintillante del mainstream, mentre oltre quei bordi non esiste niente.
Roma fa schifo, allora?
Vedete un po’ voi…






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