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MONITOR


gio 28 gennaio 2016

LA GUERRA SEGRETA TRA USA E ARABIA SAUDITA

28 GENNAIO 2015 – La volatilità estrema dei corsi petroliferi delle ultime settimane non basta a celare la tendenza ribassista di fondo della commodity più importante del mondo. Sicché diventa interessante provare a comprendere ragioni e conseguenze di un movimento che secondo molti analisti persisterà anche nei prossimi anni e che avrà conseguenza rivoluzionarie sugli equilibri internazionali.
La Bis (Bank for International Settlements), in alcuni rapporti diffusi fra febbraio e marzo dell’anno scorso, ha individuato uno dei punti di rottura nell’eccesso di debito cumulato da molte compagnie petrolifere negli anni precedenti al crollo delle quotazioni che, lo ricordo, ancora nel 2013 superavano i 100 dollari al barile. Secondo gli autori «la maggiore disponibilità degli investitori a prestare usando le riserve di petrolio e i ricavi da vendita del petrolio come garanzia ha consentito alle imprese petrolifere di prendere in prestito grandi quantità di denaro in un periodo di forte indebitamento». Nel 2003, infatti, i bond denominati in dollari emessi dalle compagnie stavano sotto i 200 miliardi, a fronte di circa 2.000 di bond totali. Le emissioni si mantengono sostanzialmente stabili fino al 2009. Dal 2010 in poi l’aria cambia. Il valore relativo delle emissioni di bond energetici, chiamiamoli così, si impenna vertiginosamente. Sicché si arriva al 2014 con oltre 800 miliardi di bond energetici a fronte di un volume totale di circa 6.000. «Il maggiore peso dei debiti – osserva la Bis – del settore oil può aver influenzato la recente dinamica del mercato petrolifero, esponendo i produttori a un rischio di liquidità e di solvibilità». I debitori possono essere costretti a vendere sottocosto per evitare la sofferenza finanziaria, contribuendo così a esacerbare il ciclo ribassista. Senza contare che i ribassi peggiorano anche la situazione della liquidità su questi titoli, mettendo le aziende anche di fronte al rischio di non poter pagare gli interessi. Per evitarlo, i produttori finiscono col produrre ancora più greggio, innescando ulteriori dinamiche ribassiste.
TRADE WAR. La visione “finanziaria” della Bis si arricchisce e si completa se la si incrocia con quella contenuta in un altro paper, stavolta di Bankitalia, uscito lo scorso ottobre (“Più greggio per tutti: la rivoluzione shale negli Usa e la reazione dell’Opec”) che richiama l’attenzione su un aspetto solitamente poco osservato: la silenziosa guerra commerciale che i produttori Opec stanno svolgendo contro lo shale oil made in Usa. Produzione che negli ultimi anni ha conosciuto un vero e proprio boom. Dal 2011 al 2014 la produzione americana è quasi raddoppiata, portandosi quasi al livello dell’Arabia Saudita con quasi 10 milioni di barili al giorno, e ciò ha provocato un calo drastico delle importazioni Usa. «La rapida riduzione delle quotazioni di greggio registrata nella seconda metà del 2014 – osserva Bankitalia – è anch’essa una conseguenza della elevata elasticità del prezzo alle variazioni delle quantità domandate e offerte sul mercato», cui ha contribuito «un incremento della produzione statunitense notevolmente superiore alle attese e la scelta dell’OPEC di non modificare il proprio obiettivo di produzione nell’incontro di fine novembre 2014, nonostante la flessione del prezzo fosse già in atto». Da ciò Bankitalia deduce che «la shale revolution statunitense ha determinato un mutamento nella geopolitica del petrolio, rendendo conveniente, per i paesi Opec, lasciare che i corsi restino su valori contenuti nel medio periodo, così da frenare l’espansione della produzione americana, caratterizzata da costi di estrazione maggiori, invece che continuare a ridurre la propria quota sull’offerta globale allo scopo di garantirsi prezzi più elevati sulle vendite».
Bankitalia ci ricorda che nel 2013 il valore della produzione fisica globale di greggio è stato di 3.500 miliardi di dollari, il doppio del carbone e tre volte quello del gas naturale. A fronte di tale produzione fisica, il controvalore dei contratti derivati basati sul petrolio era di circa 40 trilioni di dollari, quindi più di dieci volte il valore della produzione. E questo ci riporta all’analisi della Bis.
In sostanza, due canali diversi, uno reale e l’altro finanziario, si intrecciano alimentando la spinta ribassista, con conseguenze che ormai stanno diventando visibili. Quella generale è chiara a tutti: il ribasso dei corsi petroliferi genera un trasferimento di ricchezza dai produttori ai consumatori, e segnatamente dai paesi emergenti produttori, che infatti hanno visto entrare in crisi il loro modello di sviluppo, a quelli avanzati consumatori, che al contrario ne hanno beneficiato sul canale dei conti commerciali, pagando però il prezzo di una persistente freddezza dei prezzi, che appesantisce il valore reale dei loro debiti. Tale trasferimento di ricchezza è corposo: si parla di centinaia di miliardi di dollari e si prevede durerà ancora. E non è affatto detto che le conseguenze non finiscano col pagarle tutti, a cominciare dai due contendenti.
Di recente se ne è avuto qualche segnale. La Fed di Cleveland ha notato che il calo dei prezzi petroliferi ha provocato il sostanziale congelamento delle esplorazioni degli ampi territori denominati Marcellus e Utica, che si estendono nella zona nord est degli Usa ed erano diventati una sorte di terra promessa dello shale oil. Fra il gennaio 2013 e il gennaio 2015 lo shale aveva consentito un aumento di estrazione di gas e petrolio del 35,7 e del 12,8%. Poi, da febbraio dell’anno scorso, il numero degli impianti ha iniziato il suo declino e ormai si è ridotto della metà, rispetto al picco raggiunto a dicembre 2014. Ciò in larga parte dipende dal ribasso dei prezzi del petrolio, visto che le produzioni shale ai prezzi attuali sono totalmente fuori mercato. La strategia Opec, insomma, sembra aver funzionato. Le compagnie di shale, peraltro pesantemente indebitate, hanno iniziato a licenziare e a chiudere i battenti, contagiando indirettamente quelle dell’acciaio, che sono grandi fornitori di queste aziende, e adesso si trovano ancora più in eccesso di produzione.
Anche l’Arabia Saudita sta pagando un costo salato. Un report di S&P diffuso di recente solleva pesanti interrogativi sullo stato di salute delle banche saudite. «Il 2016 – scrivono gli analisti – sarà un anno difficile» e anche il prossimo è previsto complicato se i prezzi non torneranno a livelli sostenibili. Il paper di Bankitalia, infatti, osserva a tal proposito che il break even fiscale per l’Arabia Saudita si raggiunge con un greggio a 98 dollari, mentre il 75,6% delle entrate fiscali saudite dipendono dal petrolio, che pesa oltre l’84% delle esportazioni. Le banche in qualche modo dovranno farsi carico di questo stress finanziario, per quanto ammortizzato dai 748 miliardi di riserve che il paese contava nel 2014.
I tassi di interesse locali sono già in crescita, alcuni settori come quello delle costruzioni sono in difficoltà – molti contractor stanno ritardando i pagamenti – e la liquidità inizia a mancare. Lo scorso 30 ottobre, sempre S&P aveva deciso di abbassare il rating sull’Arabia, mantenendo l’outlook negativo, dopo aver osservato che il paese rischiava di vedere esplodere il suo deficit fiscale al 16% del Pil nel 2015 dall’1,5% del 2014. Tale deficit, a prezzi petroliferi invariati, era previsto al 10% quest’anno e ancora al 5% nel 2018. All’epoca dell’emissione del rating il petrolio era quotato a 49 dollari e S&P prevedeva un livello medio di 63 fino al 2018. Numeri finora smentiti dalle cronache.

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