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MONITOR


gio 19 maggio 2016

I PAESI RICCHI FUGGONO DAGLI EMERGENTI

Ma servirà a poco riportare i soldi indietro dalla Cina. Stiamo crescendo dentro le nostre mura intere generazioni di poveri

19 MAGGIO 2016 – E’ una transizione epocale quella che dai paesi cosiddetti avanzati si sta consumando ai danni dei paesi Emergenti, alle prese con la crisi terminale del loro capitalismo cresciuto a debito e domanda estera. Ormai da mesi si assiste a una gigantesca transumanza di capitali che, ora sotto forma di investimenti diretti, ora di portafoglio, si stanno spostando in massa da questi paesi, piegati da problemi interni, verso i legittimi proprietari, ossia i paesi ricchi, che tanto furono generosi nei primi anni del XXI secolo, quanto oggi, spinti dalla paura, si scoprono prudenti.
Ciò che ne risulta è un aggravarsi delle tensioni internazionali che minaccia di trasformarsi in un gigantesco boomerang. La recente vocazione neocurtense dell’Occidente ricco tralascia la circostanza che i paesi dai quali stanno richiamando i soldi sono gli stessi sui quali contavano le sue fabbriche per piazzare i loro prodotti. Perciò qualora questa migrazione di ricchezza finanziaria dovesse proseguire, ciò che ne risulterà sarà un ulteriore calo della domanda globale. Difficilmente, infatti, gli abitanti dei paesi avanzati potranno compensare la spinta recessiva che arriva dagli Emergenti. Le popolazioni ricche, alle prese con un’altra transizione, quella demografica, si scoprono più deboli laddove si dovrebbe scommettere sul futuro, quindi le coorti più giovani, in debito di occupazione e di ricchezza e perciò incapaci di spingere l’economia quanto sarebbe necessario. Sicché due storie ne formano una sola. I capitali tornano a Occidente a lì rischiano di stagnare in una sterile autocontemplazione di ricchezza, virtuale perché non spesa ma solo fatta circolare nel circuito avaro d’una finanza che ormai garantisce rendimenti miserevoli.
La prima storia ce la raccontano i dati recenti diffusi da Ocse e poi dalla Banca centrale europea e dalla Bis. L’istituto parigino registra il controesodo degli investimenti diretti e già illustra con dovizia di dettagli quale sia lo spirito del nostro tempo. Il dato, paradossale, è che si assiste da una parte a un aumento in valore assoluto degli investimenti diretti, aumentati del 25% nel 2015 rispetto a un anno prima, e dall’altra però si osserva che il flusso si orienta verso i paesi benestanti, in particolare Stati Uniti, Irlanda, Olanda e Svizzera. Il dato, riferito ai paesi del G20, arriva all’81% se si considerano tutti i paesi Ocse, mentre per i paesi non Ocse, fra i quali si annoverano molti paesi emergenti, gli investimenti diretti segnano un deflusso del 13%. In conseguenza di questo calo, la quota di investimenti diretti per questi ultimi paesi è diminuita da un terzo del totale a un quarto. Degna di nota, poi, la circostanza che questo aumento di investimenti diretti, in buona parte, non è motivata da ragioni squisitamente produttive, ma, spiega l’Ocse, sono “il risultato di ristrutturazioni finanziarie e societarie piuttosto che investimenti produttivi. Ad esempio, l’aumento globale è stato in gran parte dovuto a movimenti transfrontaliero di M&A progettati per ridurre gli obblighi fiscali delle imprese statunitensi”. La logica, insomma, è quella dell’arrocco.
Se dagli investimenti diretti passiamo a quelli di portafoglio, la tendenza cambia poco. Se concentriamo l’analisi sull’eurozona, i recenti dati della Bce ci dicono due cose. La prima è che l’eurozona è sempre in eccesso di risparmio sugli investimenti, e ciò comporta che aumenta la quota di questo risparmio che va all’estero. Solo che l’estero non include certo i paesi emergenti. Al contrario: buona parte di questi afflussi riguardano gli Stati Uniti e la Svizzera. Se guardiamo agli andamenti degli investimenti portafoglio dell’eurozona verso l’estero, scopriamo che, oltre ad essere in crescita dal 2014, ossia da quando la Bce ha iniziato a spingere sul pedale dell’allentamento monetario, questi flussi di denaro si sono concentrati “in larga parte verso le altre economie avanzate”, come riporta la banca centrale nel suo ultimo bollettino economico. In particolare, il 45% ha interessato gli Stati Uniti, l’11 per cento il Regno Unito, il 10% altri paesi dell’Ue, il 10% il Canada e il 5% il Giappone, mentre “sono quasi completamente cessati gli acquisti netti di strumenti di debito emessi da Brasile, Cina, India e Russia, in concomitanza con il venir meno della fiducia nei confronti di questi mercati”. Anche su questo fronte, insomma, la logica prevalente è quella dell’arrocco.
Se allarghiamo lo sguardo a livello globale servendoci delle statistiche bancarie della Bis, rilasciate poche settimana fa e relative all’ultimo trimestre 2015, osserviamo che la retromarcia del credito è durata per tutto l’anno scorso e nei paesi emergenti ha segnato un arretramento pari all’8%, il calo più pronunciato dal 2009, l’anno orribile del dopo crisi. La grande protagonista di questa retromarcia è stata la Cina, dove solo nell’ultimo trimestre 2015 i prestiti sono diminuiti di 114 miliardi. Sempre la Cina ha visto diminuire il suo stock di crediti, che a settembre 2014 aveva raggiunto i 1.061 miliardi, fino ai 756 miliardi di dicembre 2015. E non c’è bisogno di aggiungere altro. Mentre si arroccano, i ricchi capitalisti d’Occidente devono fare i conti anche con i loro problemi interni che sono finanziari – un notevole incremento del debito totale, privato e pubblico, e sociali. La disuguaglianza, in crescita dal 2008 in poi, si sta segmentando non più o non solo lungo l’articolazioni delle classi, chiamiamole così, ma più segnatamente lungo le differenze generazionali. L’epopea dei Millenials, le persone nate dal 1980 in poi, racconta proprio la storia della notevole difficoltà che stanno incontrando queste coorti anagrafiche a non arretrare nella scala sociale rispetto ai loro predecessori. Un recente studio della Bce (“A lost generation? Education decisions and employment outcomes during the U.S. housing boom-bust cycle of the 2000s”) svolge un’interessante analisi microeconomica sugli effetti del boom immobiliare sulle scelte di vita dei giovani statunitensi – ma l’analisi vale anche per quelli di paesi come la Spagna e l’Irlanda, che hanno vissuto un boom analogo – a cominciare da quelle più strategiche, come quelle sull’istruzione.
Dall’analisi emerge che in questi paesi il boom ha favorito l’ingresso nel mondo del lavoro di lavoratori meno qualificati e, insieme, ne ha scoraggiati altri a qualificarsi ulteriormente, visto che il mercato premiava anche i low skilled. Salvo poi, una volta scoppiato il bust, ritrovarsi molti disoccupati proprio in questa categoria di lavoratori che oltre a perdere il lavoro si sono trovati privi del denaro da investire sulla propria formazione a causa della crisi. Questo curioso paradosso, per il quale gli investimenti in formazione vengono di fatto scoraggiati durante i boom, e ardentemente incoraggiati dopo i bust dice molto delle nostre società, sempre in debito di tempismo e poco avvedute. Il risultato è che oggi all’interno dei paesi ricchi stanno diventando adulte intere generazioni che rischiano di essere i futuri anziani poveri di domani. Servirà a poco riportare i soldi indietro dalla Cina. Gli Emergenti li stiamo crescendo dentro le nostre mura.

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