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MONITOR


mer 20 luglio 2016

GERMANIA E FRANCIA RISCHIANO DI PAGARE IL COSTO PIÙ SALATO DI BREXIT

Si tenta di capire quanto e come Brexit impatterà sulle economia europee, ma l’unica certezza disponibile è che non vi è alcuna certezza

Si tenta di capire quanto e come Brexit impatterà sulle economia europee, ma l’unica certezza disponibile è che non vi è alcuna certezza. Non solo perché il processo della previsione è di per sé frutto di congetture, ma soprattutto perché non è ancora nemmeno chiaro come e quando si consumerà l’uscita dell’UK dall’UE. C’è una trattativa da incardinare e soltanto allorquando si raggiungerà l’esito finale sarà possibile iniziare a fare stime credibili. Fino ad allora ciò che può farsi, e che di recente ha fatto Bankitalia nel suo ultimo Bollettino economico, è stimare quello che potremmo chiamare rischio potenziale, partendo dai pochi dati certi di cui possiamo disporre: ossia l’entità dell’esposizione commerciale e finanziaria che i paesi europei hanno nei confronti dell’UK, nella consapevolezza che “nel breve e medio periodo i contraccolpi di questa transizione si potranno trasmettere all’economia italiana attraverso diversi canali”.
Poco ci serve osservare la reazione furiosa dei mercati all’indomani del referendum. L’isteria della speculazione non è mai un buon viatico per chi debba prendere decisioni nel tempo medio-lungo. Ma al tempo stesso sono gli effetti di breve che non si possono trascurare, capaci per loro natura di generare quelle che la teoria chiama profezie auto avveranti, per il tramite delle crisi di fiducia.
I dati aggiornati all’8 luglio, raccolti da Bankitalia, mostrano che le quotazioni azionarie italiane sono ancora il 6% inferiori rispetto al pre Brexit, i rendimenti dei bond pubblici decennali hanno perso 25 punti base mentre l’euro si è al tempo stesso apprezzato dell’8% rispetto alla sterlina e svalutato del 2% rispetto al dollaro. “L’impatto di queste variazioni sul prodotto dell’Italia è sostanzialmente nullo”, sottolinea Bankitalia. E ciò nondimeno “permane il rischio che nei prossimi mesi si verifichino ulteriori ripercussioni del referendum britannico, dalle quali potrebbe discendere una contrazione dell’attività economica nel Regno Unito, che avrebbe effetti negativi sugli scambi internazionali e sulle scelte delle imprese”.
Da qui l’esercizio previsionale che la Banca ha sviluppato pur nella consapevolezza che tutti gli osservatori sono disorientati. La maggior parte si aspetta “una possibile perdita di prodotto nell’economia britannica compresa tra due e cinque punti percentuali, distribuita nell’arco dei prossimi anni”, e questo potrebbe impattare significativamente sulle importazioni britanniche, e quindi sulle esportazioni dei loro partner, compresa l’Italia. Nel nostro caso “qualora si registrasse un calo del livello delle importazioni del Regno Unito del 10% (un valore compatibile con i livelli massimi dell’intervallo delle stime dei principali analisti), ne deriverebbe una riduzione della domanda estera rivolta ai prodotti italiani di circa l’1%, in virtù dei legami commerciali diretti dell’Italia con il Regno Unito”. A conti fatti, ne deriverebbe una perdita di prodotto dello 0,25% nel triennio 2016-18, che non tiene conto però del possibile calo di investimenti delle imprese italiane esportatrici in UK.
Questa stima tiene conto di alcune grandezze reali, che è bene conoscere. L’Italia, a differenza della Germania e della Francia, non ha legami particolarmente intensi con l’economia britannica. Come si può osservare dalla tabella (Tavola A) predisposta da Bankitalia, sia sul lato dell’interscambio commerciale, che sul canale degli investimenti diretti e di portafoglio, il nostro paese è ben lontano dai livelli della Germania, che ha un interscambio commerciale con l’UK pari al 3,4% del pil in esportazioni, o della Francia, che ha l’11,1% del pil investito in strumenti di portafoglio britannici oltre a un ulteriore 4,9% in investimenti diretti. E’ evidente che questi investimenti sarebbe i primi a soffrire in caso di perdita di valore della valuta.
Per il nostro paese le vendite verso il Regno Unito rappresentano il 5,4% del totale delle esportazioni per i beni e dell’8,4% per i servizi. Il saldo dei beni è positivo per l’Italia, quello dei servizi sostanzialmente in pareggio. Sul versante degli investimenti finanziari, gli ultimi dati mostrano che i residenti italiani, alla fine del primo semestre 2015, avevano 62,4 miliardi di euro investiti in UK, il 3,4% del Pil, quasi la metà dei tedeschi e quasi un quarto dei francesi. Circa la metà di questi investimenti è detenuta da intermediari finanziari, poco meno di un terzo dalle famiglie. La quota attribuibile alle banche è inferiore al 10%. Va sottolineato che solo un quinto di queste attività è denominato in sterline, e quindi esposto al rischio di cambio.
Quanto all’esposizione bancaria, le italiane hanno concesso prestiti per circa 35 miliardi all’UK, circa l1% del totale dei prestiti. Infine, gli investimenti diretti pesavano appena l’1,3% del Pil.
Se questo è il quanto – che non è certo esorbitante almeno se confrontato con i nostri cugini europei – rimane il fatto che “nel breve periodo un eventuale forte deprezzamento della sterlina o un rallentamento dell’economia britannica avrebbero ripercussioni dirette sfavorevoli anche se di entità contenuta”. Il che certo non è il migliore dei viatici in un momento in cui tutte le previsioni degli osservatori internazionali sono orientate al ribasso. L’ultimo in ordine di tempo a darne conto è stato il Fmi, nel suo aggiornamento di luglio del World Economic Outlook, che esordisce proprio sottolineando come il referendum inglese abbia sostanzialmente peggiorato le prospettive per l’economia internazionale. Il fatto che l’Italia sia poco esposta, infatti, se si considerare la fitta interrelazioni fra la nostra economia con le altre, può mitigare gli effetti del peggioramento, ma non certo farli scomparire. A conclusioni simili è arrivato anche un recente paper della Commissione europea che tenta un assessment del rischio Brexit, dovendosi arrendere anch’essa alla grande incertezza che circonda l’intera questione. Sicché sarà strategico capire quando e soprattutto come verranno concluse le trattative per definire il nuovo quadro di relazioni fra UK e UE.
Sul come, è ovvio che ogni parte cercherà di massimizzare la propria utilità, e questo rischia di condurre a scelte disgreganti. Sul quando si può solo ricordare che la trattativa può teoricamente durare fino a due anni. Fino ad allora rimarrà in vigore il quadro vigente. Quanto ai possibili sviluppi, sempre Bankitalia ha analizzato tre possibili scenari istituzionali. Il primo è che l’UK decida di aderire allo Spazio economico europeo (SEE) sul modello di Norvegia, Islanda e Liechtenstein. Il secondo è che si arrivi a un’intesa bilaterale nell’ambito dell’associazione europea di libero scambio (European Free Trade Association, EFTA), come si è fatto con la Svizzera. Il terzo che si decida per un accordo di libero scambio indipendente, come quello al momento vigente fra UE e Turchia, Messico, Corea del Sud e Canada. Le tre possibilità hanno un livello decrescente di integrazione. Le prime due opzione prevedono che il Tesoro britannico versi delle quote al bilancio comunitario. Se poi non si raggiungesse alcuna intesa, i rapporti commerciali fra le due aree verrebbero regolati alle norme del WTO. In tal caso le esportazioni britanniche verso l’UE sarebbe soggette alle tariffe doganali Ue e anche alle barriere non tariffarie.
Dal punto di vista finanziario, tema assai delicato, se l’UK aderisse allo SEE le banche inglesi potrebbero operare sui mercati UE in virtù del principio di mutuo riconoscimento. Se invece si arrivasse a un accordo bilaterale, “verrebbero verosimilmente introdotte limitazioni all’operatività delle istituzioni finanziarie britanniche nell’Unione”. La qualcosa, per i sudditi di Sua Maestà, rischia di essere assai più grave di una semplice tariffa doganale.
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