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MONITOR


lun 6 novembre 2017

DUE SECOLI PER COLMARE LA DISUGUAGLIANZA DI GENERE E DI PAGA

L’ascensore sociale si muove o si arresta in base a un criterio di genere, oltre che di classe. Le donne dovranno aspettare più di due secoli per vedere riconosciuto nella pratica quotidiana il diritto alla parità salariale. Lo raccontano i numeri dell'ultimo rapporto del World Economic Forum. E l'Italia è messa male.

“La rivoluzione culturale è un’impresa a lungo termine, l’impresa più importante. E infatti la grande questione “di vita o di morte” del nostro tempo consiste nell’identificare quale dei due intervalli – quello della sostenibilità del pianeta e quello di rivedere il nostro modo di vivere – durerà più a lungo”. Conversazione con Zygmunt Bauman
“Dato che il divario economico di genere continua ad allargarsi, per chiuderlo ci vorranno 217 anni”. Ergo: le donne dovranno aspettare più di due secoli per vedere riconosciuto nella pratica quotidiana il diritto alla parità salariale.

Le parole, e i dati, sono del World Economic Forum che ha redatto il Global Gender Gap Report 2017, passato quasi inosservato nel tritacarne delle news che sembrano autodistruggersi in pochi secondi. Eppure quei numeri raccontano che sono novantanove gli anni necessari perché la disuguaglianza basata su criteri legati al genere venga colmata nella dimensione politica; tredici ne serviranno, invece, nel campo dell’istruzione.
Il problema non è e non deve essere la definizione della donna rispetto all’uomo né l’identificazione di genere, ma la partecipazione alle attività della comunità e un giusto riconoscimento retributivo che esuli dai pregiudizi e dalle costruzioni sociali legate al genere. Ad oggi, la distribuzione delle risorse non è equa nel mondo del lavoro. Nella consapevolezza che il principio di uguaglianza non sia la via unica di rivendicazione delle istanze femminili e dell’emancipazione delle donne nella collettività, lavorativa e non, la differenza – intesa à la Carla Lonzi – non è motivo d’orgoglio se viene declinata in uno scarto sistematico di stipendio.
Su 144 Paesi analizzati, l’Italia si piazza all’82esimo posto nella classifica complessiva, al 118 esimo quando si tratta di disuguaglianza economica e partecipazione attiva ai processi decisionali, al 126esimo se si stringe la lente sugli stipendi a parità di posizione.
In prima posizione c’è l’Islanda, seguita dalla Norvegia e dalla Finlandia. Se la Gran Bretagna è 15esima, gli Stati Uniti occupano la casella numero 49 e potrebbero risalire la classifica – fa notare il WEF – se solo garantissero il congedo di maternità. Negli Usa esso di fatto non esiste, eccetto per quelle lavoratrici che sono occupate in aziende che lo offrono volontariamente. Il Family and Medical Leave Act prevede dodici settimane di congedo non retribuito [ecco come funziona, ndr].

“Un brutto anno in un buon decennio”, scrive il WEF. Significa che molti Paesi sono tornati indietro e hanno fallito in termini di welfare e pari opportunità. Se le maglie del cosiddetto gender gap si sono ristrette “per il 68%, il trend in declino rispetto alla parità di genere riguarda il mondo della lavoro e la partecipazione politica”.

“Nel 2017 non dovremmo assistere a una retromarcia rispetto alla parità di genere. L’uguaglianza di genere è un imperativo morale ed economico. Alcuni paesi lo hanno capito e hanno intrapreso misure proattive per affrontare queste lacune “, sostiene Saadia Zahidi, responsabile della divisione Istruzione, Genere e Lavoro del World Economic Forum.

Il divario, la disparità e l’esclusione femminile affondano le radici tanto nel lavoro quanto nella precarietà.
Era il 1970, invece, quando Carla Lonzi, Carla Accardi ed Elvira Banotti scrivevano: “La parità di retribuzione è un nostro diritto, ma la nostra oppressione è un’altra cosa. Ci basta la parità salariale quando abbiamo già sulle spalle ore di lavoro domestico?” E quell’interrogativo è ancora valido.
Ma c’è un altro scoglio. Se già – come scriveva il Sole 24 Orequalche mese fa – in Italia “le donne in età lavorativa (15-64 anni) con una occupazione a giugno hanno sì raggiunto il record del 48,8%, ma restano ancora lontani dal 66,8% degli uomini”, è il lavoro precario a creare una differenza pericolosa e asfissiante per le donne, che mina l’indipendenza personale. In Europa, è il 27% delle donne contro il 15% degli uomini a non avere un impiego stabile.
La disuguaglianza è sintomo di un pregiudizio di fondo, di una costruzione sociale in cui – nota la Commissione europea in un report del 2016 – “le donne stanno raccogliendo i benefici dell’istruzione, ma sono ancora pagate il 16% in meno degli uomini per ora di lavoro”.
E se “negli ultimi 20 anni, ci sono più donne che uomini tra i neolaureati e, di conseguenza, le donne dipendenti sono generalmente più istruite” dei colleghi maschi, ci sono “persistenti gap di retribuzione” che “non possono essere spiegati dalle differenze nelle qualifiche”.

Il divario retributivo di genere è, dunque, questione assai complessa, che deve necessariamente passare da una revisione dei criteri di valutazione e da politiche adeguate che inizino a smantellare una sistemica predisposizione alla disparità di trattamento. Perché ancora, purtroppo, l’ascensore sociale si muove o si arresta in base a un criterio di genere, oltre che di classe. E la differenza resta odiosa quando è in busta paga, nella nostra società, signora delle disuguaglianze.

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