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MONITOR


mer 20 settembre 2017

IL CAPITALE DIGITALE IN ASIA TRA AFFARI E CENSURA

Mentre la digitalizzazione di massa è ancora in corso con la costruzione di una classe media votata al consumo, i governi preferiscono una Rete in stile cinese: business, controllo e repressione. Una internet funzionale al capitale, che faccia girare tanti soldi e poche idee selezionate. Il resto, meglio estirparlo sul nascere.

La classifica delle Fab 50 Companies asiatiche di Forbes è divisa da un’enorme voragine che separa le due compagnie al comando dal resto delle gregarie continentali. Un divario che supera i 300 miliardi di dollari e che segna le ambizioni di chi, nel continente asiatico, vede in Alibaba (prima posizione, valutata 399 miliardi di dollari) e Tencent (seconda, valutata 387 miliardi) modelli aziendali di successo replicabili su scala nazionale. Catalogate rispettivamente come compagnia di retailing e di IT & Software Services, Alibaba e Tencent rappresentano banalmente la spina dorsale dell’esperienza online di 1,4 miliardi di cinesi e, sempre più, influenzano o intervengono direttamente in quella del resto del mondo. Specie quello asiatico.

I gangli di Alibaba e Tencent coprono, in potenza, qualsiasi attività umana svolta attraverso la rete, dagli acquisti ai social network, dai videogiochi alla musica in streaming, dai pagamenti online alla messaggistica istantanea. Il tutto all’interno della gigantesca intranet cinese, i cui confini e divieti sono regolati dalle maglie dell’arcinota censura di stato.
Nella retorica un po’ naif dell’internet come piattaforma di liberazione ed emancipazione sovranazionale – un non luogo virtuale libero dalle costrizioni della macchina statale e che, per antonomasia, non fa altro che «connettere il mondo» – la declinazione cinese della Rete fino a qualche tempo fa appariva un’anomalia balzana, una goffaggine tecnocratica che presto sarebbe stata spazzata via dal potere dirompente della libertà.
Come evidenza Douglas Rushkoff, pioniere dell’idea di open source, in un recente articolo pubblicato dal Guardian:
«Noi cyberpunk vedevamo la legge come un nemico. Arrestavano i migliori di noi per aver “hackerato” delle cose. Adolescenti venivano sbattuti in galera nell’operazione Sun Devil [1990]. Così, con Barlow [Johnny Perry Barlow, co-fondatore di Electronic Frontier Foundation], decidemmo di fare della Rete una “government-free zone” con la dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio. […] Ciò che non avevamo calcolato era che spingere fuori i governi dalla Rete avrebbe dato il “liberi tutti” alle corporation, dando vita a una nuova forma di capitalismo digitale».
Rushkoff, attenendosi largamente alle dinamiche del mondo occidentale, fa riferimento allo strapotere sovranazionale esercitato principalmente dal diumvirato Google – Facebook che da sole, evidenzia il Guardian, ricevono oltre il 70 per cento di tutti gli investimenti pubblicitari negli Usa. Tendenza in crescita anche solo per il fatto che oggi essere su Facebook e Google, avere una presenza virtuale, equivale all’Essere in senso assoluto: vita e azioni online e offline sono ormai francamente indistinguibili.

Con la diffusione delle controindicazioni fisiologiche dell’online – propaganda estremista, violazioni della privacy, fake news – i governi occidentali da qualche anno hanno iniziato a porsi la questione del controllo della Rete, avendo a che fare con fenomeni capillari dovuti all’alta digitalizzazione della propria popolazione.
In Asia, dove la digitalizzazione di massa è ancora in corso e va a braccetto con la costruzione di una classe media incentivata al consumo, si ha invece l’impressione che i governi preferiscano l’adozione di una Rete alla cinese piuttosto che quella sognata dai cyberpunk degli anni Novanta. Una rete funzionale al capitale, che faccia girare tanti soldi e poche idee selezionate. Il resto, meglio estirparlo sul nascere.

Un continente in via di digitalizzazione

Scrive il South China Morning Post (Scmp): «Secondo l’istituto di ricerca CB Insights di New York, nei primi sette mesi dell’anno quasi 5 miliardi di dollari di investimenti hanno ricoperto le start-up del Sudest asiatico, già superando i 3,1 miliardi dell’anno scorso. L’India, nel frattempo, ha fatto registrare il record di 5,2 miliardi di dollari di investimenti nelle proprie start-up già nel mese di giugno, eclissando i 3,39 miliardi di dollari dell’intero 2016».

Soldi pompati in gran parte da compagnie cinesi – Alibaba e Tencent su tutte, ma anche JD.com e Didi Chuxing, dice il Scmp – ben consce del potenziale gigantesco di un continente in via di digitalizzazione: solo in India si sfiorano 500 milioni di utenti, cui se ne aggiungono altri 300 milioni nel Sudest asiatico, in maggioranza consumatori «entry level», che accedono alla Rete attraverso smartphone a buon prezzo.

Capitalismo, controllo e repressione

L’aumento degli utenti asiatici rappresenta un’enorme opportunità di business per compagnie e governi locali, ben felici di potenziare le infrastrutture necessarie a garantire una connessione continua, stabile e affidabile, pietra angolare del «digital capitalism».
Ma quando le medesime piattaforme vengono utilizzate per attività «anti-nazionali», i governi reclamano il primato del controllo, imponendo l’estensione di «law and order» anche al web: condizione imprescindibile posta a chiunque voglia partecipare alla cuccagna digitale del millennio.
Le conseguenze del connubio capitale digitale e controllo governativo sono già materiale per storici della repressione.

In Thailandia, ad esempio, la dittatura militare al potere ha imposto ai provider e alle compagnie telefoniche di collaborare con la giustizia in casi di presunta lesa maestà, la legge che tutela il monarca thai da critiche e insulti da parte dei suoi sudditi e che, di fatto, rappresenta lo strumento ideale per reprimere il dissenso. Si va dall’oscuramento di pagine «infamanti» all’analisi delle attività pubbliche e private condotte dagli utenti sui social network, in particolare su Facebook, dove secondo le regole di Menlo Park è obbligatorio iscriversi con nome e cognome. Negli ultimi tre anni, secondo Open Democracy, in Thailandia ben 285 persone sono state processate per il reato di lesa maestà, che prevede pene dai tre ai quindici anni di reclusione per capo d’accusa, cumulabili. In diversi processi, come prove a carico dell’accusato, sono stati utilizzati estratti di chat, messaggi privati e post di Facebook, portando a sentenze esemplari come quella comminata lo scorso giugno a un residente di Chiang Mai che aveva mancato di rispetto al re sul proprio profilo Facebook: 70 anni di detenzione, ridotti a 35 perché l’accusato si è dichiarato colpevole.

In Vietnam, racconta il New York Times, qualche settimana dopo l’accordo raggiunto tra il governo di Hanoi e Facebook per la rimozione dei contenuti che violano le leggi nazionali, l’autore di una poesia «contro il governo» è stato arrestato il giorno dopo averla postata sul proprio profilo.

In India, dove la censura online si abbatte sistematicamente in nome del «rispetto delle sensibilità delle comunità» – concetto estremamente vago che si presta alle preferenze di questo o quel governo locale – l’esecutivo ha direttamente normato una pratica di routine ampiamente adottata nelle zone più calde della federazione, dove i social network e le applicazioni di messaggistica istantanea cifrata possono essere utilizzate dai terroristi o rivoltosi per azioni «anti-nazionali». Secondo le nuove regole del ministero delle comunicazioni, il governo può «staccare internet» in una determinata area durante «emergenze pubbliche» o per ragioni di «sicurezza pubblica». Nel solo 2017, indica Hindustan Times, in India è già successo 40 volte. Nel Kashmir indiano, territorio pesantemente militarizzato da settant’anni teatro di scontri tra gli indipendentisti locali e le forze dell’ordine di New Delhi, negli ultimi cinque anni la spina di internet è stata staccata 30 volte.

Il «connect the world» di Facebook si applica a meraviglia entro gli steccati del capitale digitale. Fuori, anche in Asia, rimane il buio.

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