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MONITOR


mar 10 maggio 2016

BREXIT GUERRA E PACE

«Il Brexit è stato la leva politica con cui il governo Cameron è riuscito a spuntare un accordo vantaggioso per preservare la funzione di calamita dei capitali. Mani libere e laissez-faire, insomma. Tutto rimane così com’è e si rifugge l’eventuale adeguamento a un’unione bancaria europea» – da un’intervista al professor Philip Wade
10 MAGGIO 2016 – «Possiamo essere sicuri che la pace e la stabilità del nostro continente siano garantite senza dubbio? Vale la pena correre questo rischio?». Con queste parole, ieri il premier britannico David Cameron ha agitato lo spettro di una guerra europea intervenendo al British Museum di Londra. A poco più di un mese dal referendum del 23 giugno sulla Brexit, il leader conservatore si schiera dunque apertamente a favore della permanenza del Regno Unito nei Ventotto e dichiara che «il nostro Paese è sempre stato una potenza europea e lo sarà sempre», ribadendo a più riprese che «l’isolazionismo non ha mai giovato a nessuno». Dopo aver sventolato la bandiera del referendum per l’uscita dall’Unione e aver avuto in questo modo la possibilità di sottoscrivere lo scorso 20 febbraio un accordo con Bruxelles che riformula i rapporti tra Londra e l’Unione, Cameron schiera quindi l’artiglieria pesante per contrastare i venti di scissione.
Anche se secondo gli analisti della City alla fine sarà il “no” a spuntarla, con tutta evidenza il premier non dorme sonni tranquilli: ad alimentare le paure, i risultati raggiunti alle recenti amministrative dallo Ukip di Farage, avamposto del fronte euroscettico, e la spaccatura all’interno del suo partito con Boris Johnson arroccato su posizioni nettamente anti-UE e pronto a correre per la leadership dei Tory. Il laburista Sadiq Khan, il primo sindaco musulmano di Londra, ha invece dichiarato che sosterrà la campagna per il “sì” assieme al premier conservatore: «Penso che l’uscita dalla UE diventerebbe catastrofica per la nostra città» – ha spiegato nel corso di un’intervista rilasciata al Times, avvertendo che oltre mezzo milione di posti di lavoro sarebbe a rischio solo nella capitale, nel caso di una Brexit. A proposito degli effetti di segno negativo risultanti da un’eventuale uscita dalla UE, l’Ocse ha stimato che una vittoria del “Brexit” costerebbe il 3% del pil britannico fino al 2020 e il 6% fino al 2030, per un costo medio annuo a famiglia di 3200 sterline, circa 4600 euro. Per la Confindustria britannica, si perderebbero circa 100 miliardi di sterline, mentre per il governo di Londra, a seconda delle modalità di uscita, si va da un minimo di 3,8 ad un massimo di 7,5 punti di crescita persi. Ma non solo, con l’incombere del referendum, il valore della sterlina è sceso del 16%, un’oscillazione più adatta ad un paese emergente che del G8. Allo stesso modo, tra l’estate 2015 e il febbraio 2016 la Borsa di Londra ha perso il 20%. E quest’ultimo aspetto è senz’altro uno di quelli che più pesa nella politica pro Europa di Cameron: se la City dovesse trovarsi al di fuori dell’eurozona, la piazza londinese non conterebbe più nulla.
«Una piena svolta isolazionista avrebbe conseguenze nefaste per il Regno Unito. Londra diventerebbe la Dubai atlantica, una piazza offshore a tutti gli effetti, con eclatanti ricadute sull’indotto. La City dovrebbe licenziare migliaia di persone, ad esempio. E non a caso tutte le lobby bancarie si stanno schierando contro il Brexit» – Turisti del welfare e turismo del capitale, I Diavoli

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