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lun 7 maggio 2018

AIRBNB, TASSELLO DELLA GENTRIFICATION

Nel 2011 il «New York Times» lo presentava come “un sito Web che semplifica il processo d’affitto di camere extra ai viaggiatori”. A distanza di qualche anno, Airbnb è molto di più. Un simbolo della Sharing Economy che invita a un turismo sostenibile. Un gigante che riduce i costi e getta un’ombra sul mercato tradizionale degli alloggi per vacanze. Un brand che racconta una Win-Win Situation: facciamo guadagnare chi affitta il suo bene privato (molto più di quanto otterrebbe da una locazione a medio o lungo termine); facciamo risparmiare chi va in affitto, e noi prendiamo una commissione per il disturbo. In questo senso, un tassello fondamentale del processo di gentrification.

Nel 2011 il «New York Times» lo presentava come “un sito Web che semplifica il processo d’affitto di camere extra ai viaggiatori”. A distanza di qualche anno, Airbnb è molto di più. Un simbolo della Sharing Economy che invita a un turismo sostenibile. Un gigante che riduce i costi e getta un’ombra sul mercato tradizionale degli alloggi per vacanze. Un brand che racconta una Win-Win Situation: facciamo guadagnare chi affitta il suo bene privato (molto più di quanto otterrebbe da una locazione a medio o lungo termine); facciamo risparmiare chi va in affitto, e noi prendiamo una commissione per il disturbo. In questo senso, un tassello fondamentale del processo di gentrification.
Ma c’è dell’altro. Perché la mediazione tra domanda e offerta si direbbe tutta a vantaggio di Airbnb: da una parte ha un costo, seppur relativo, dall’altra i contenziosi devono essere risolti tra proprietario e affittuario.
Perché la piattaforma incide sulle dinamiche dell’abitare di un territorio, come vedremo, finendo per partecipare a un processo di displacement. E perché estrae valore dall’ospitalità senza produrre. Qualcuno arriva a definirla una forma di mezzadria.
Tre milioni di annunci nel mondo. L’Italia è terza, dopo Stati Uniti e Francia.
Airbnb nasce a San Francisco, in un loft, e chi conosce i processi di gentrification riconoscerà due elementi-spia.
È l’estate del 2008, in città c’è una convention che ha riempito le strutture ricettive, e i fondatori del portale, per pagarsi le spese che faticano a sostenere, mettono in affitto lo spazio dove vivono.
Una manciata di anni dopo, in un’altra situazione di pressione sulle strutture ricettive, il portale Airbnb sarà tanto forte da ottenereuna commessa per coprire ventimila alloggi in occasione delle Olimpiadi estive di Rio 2016.
Proprio a San Francisco, nell’estate 2016 succede qualcosa di significativo. Sui muri della mitica Chinatown della città, la più grande comunità cinese fuori dall’Asia, la più antica degli Stati Uniti, compaiono manifesti con la fotografia, il nome e il cognome degli affittuari di Airbnb del quartiere.
Dodici persone, rappresentate come banditi, con tanto di scritta “Wanted” sopra la testa. Le scritte, in lingua inglese e cinese, accusano: “Gentrification of Chinatown”, “Airbnb’ing our Community”, “Distruggono l’accessibilità degli alloggi per immigrati, minoranze e famiglie a basso reddito”.
Un attacco che affonda le basi nell’impennata di prezzi degli alloggi del quartiere e nella sua storica resistenza alla gentrification, già dimostrata nella vittoriosa opposizione alla vendita del Fong Building sul finire degli anni Novanta.
Pur senza negare l’evidente rapporto tra Airbnb e gentrification, si può provare ad assumere un’altra prospettiva. Chi mette sul mercato il proprio spazio non è necessariamente il benestante proprietario che le proteste lasciano intendere. Nel caso viva nello stesso appartamento di cui affitta una stanza, per esempio, sta rinunciando a qualcosa che potremmo chiamare vivibilità. Certo, magari ha piacere ad avere compagnia e incontrare persone di tutto il mondo. Ma magari no, ha solo bisogno di quei soldi.
Un argomento alla base della violenta protesta di San Francisco è senza dubbio fondato: la Win-Win Situation della relazione col turista porta a trascurare la relazione (meno remunerativa) con l’affittuario a lungo termine.
Emerge dalle ricerche del LADEST dell’Università di Siena, un centro che da tempo segue il fenomeno Airbnb. Nello specifico emerge dal lavoro sul caso italiano di Capineri, Picascia e Romano, i quali partono da un assunto semplice: ogni appartamento sul portale è un appartamento sottratto al mercato degli affitti a lungo termine, quindi per residenti stabili.
E in Italia, dove gli affitti a breve termine continuano a crescere da anni, questo sta producendo disuguaglianza.
Allo stesso modo, la presenza di Airbnb ha un ruolo nell’emergenza abitativa di Los Angeles e nel boom del prezzo degli affitti a Berlino (dove peraltro le restrizioni applicate negli ultimi due anni, per contrastare il problema, sono in corso di smantellamento). Proprio riguardo Berlino, nel 2016 l’azienda sosteneva di non controllare abbastanza appartamenti per poter influenzare il mercato.
Lo Short-Term Renting è concentrato nei centri storici ma tende a espandersi al di là, secondo la ricerca del LADEST. Per aumentare la presenza di Airbnb nelle periferie urbane, un elemento-chiave è la capacità attrattiva del quartiere, “in funzione di processi di riqualificazione urbana, del decentramento dei servizi (università, ospedali), della presenza di reti di trasporto veloci e così via”.
In questo senso è interessante quanto successo negli ultimi mesi a Roma, nel quartiere del Pigneto, luogo di gentrification e di vita notturna, dove a novembre 2017 le squadre di Retake si sono rimboccate le maniche e hanno fatto grandi lavori di pulizia.
L’obiettivo era la solita “riqualificazione” che vuole scacciare i poveri e li chiama degrado. Insieme ai volontari di Retake c’erano gli host di Airbnb, in un’alleanza con il sigillo del decoro. Ha osservato in proposito Sarah Gainsforth: “Se lo spazio privato sostituisce quello pubblico a colpi di retorica della condivisione, lo spazio pubblico diventa estensione del privato, condito con la retorica della partecipazione”.
Tutto questo di fronte a un futuro prossimo che si annuncia nel segno della locazione, per una città che dal 2008 ha visto precipitare il mercato delle compravendite e che ha dedicato il suo centro al turismo come un parco a tema.
Come ha osservato Alison Griswold nel 2016, a partire dal valore di 30 miliardi di dollari attribuito da Yahoo Finance, Airbnb “continua a presentarsi come un’azienda paladina della classe media […] la buona della situazione, mentre i cattivi sono quelli che intralciano la strada dell’innovazione, in particolare la lobby alberghiera. […] Questa narrazione in realtà mostra qualche crepa”.
In effetti gli ultimi anni stanno segnando un passaggio. Da un lato le voci di una quotazione in Borsa, che ormai non fanno neanche più notizia.
Dall’altro le polemiche, le multe, gli ingarbugliamenti riguardo la concentrazione di alloggi e la regolamentazione fiscale. Soprattutto, un cortocircuito tra l’auto-narrazione e i volumi che Airbnb muove.
Nel frattempo, dal 2017 ha raggiunto un risultato impressionante: controlla più alloggi di quanti ne controllino le cinque maggiori catene alberghiere del mondo messe assieme. E San Francisco, dove tutto è nato, è la città con il mercato immobiliare più caro degli Stati Uniti.

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