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RECENSIONE


ven 11 gennaio 2019

“VICE”: L’UOMO NELL’OMBRA È IL NEOLIBERISMO

“Vice” di Adam McKay, pur non splendendo come il gemello “La grande scommessa”, ha il merito di raccontare in maniera memorabile le ragioni che hanno portato alla più grande crisi economica di sempre, quella del tardo capitalismo. E di disegnare i contorni del vero “uomo nell’ombra” che si aggira ormai da tempo nei corridoi e nelle stanze del potere di Washington: il neoliberismo, rappresentato per l’occasione dai corpi satanici e mefistofelici di Christian Bale e Amy Adams.

Premiato ai Golden Globes per la sua straordinaria performance, Christian Bale ringrazia, come fonte primaria d’ispirazione per il suo ruolo nel film, niente meno che Satana.

Qui è racchiuso il senso di Vice – L’uomo nell’Ombra (scritto e diretto da Adam McKay, ora nelle sale italiane), la biografia non autorizzata di Dick Cheney, ex operaio alcolizzato del Wyoming diventato il più giovane capo dello staff della Casa Bianca negli anni ‘70, deputato e portavoce repubblicano negli anni ‘80, segretario della Difesa con George Bush e CEO della potentissima compagnia petrolifera Halliburton negli anni ‘90, e infine il più influente vicepresidente della storia degli Stati Uniti negli anni Zero.
Un lunghissimo arco di tempo in cui Dick Cheney ha avuto grossa voce in capitolo nelle stanze del potere.
Perché Vice è a suo modo un biopic, che guarda a Oliver Stone quanto a Orson Welles, un saggio hollywoodiano che cita a piene mani Martin Scorsese e Sidney Lumet, ma è soprattutto un grandissimo film di attori.

Dal titanico Christian Bale (Dick Cheney) all’immensa Amy Adams, che interpreta la moglie Lynne ed è capace di disegnare con il compagno di set – che stiano recitando a letto un dialogo di Shakespeare o si stiano scambiando sguardi silenziosi nel privato del bagno mentre si lavano i denti – la più sublime rappresentazione della coppia bramante il potere fino a impadronirsene.
Come nemmeno Satana, appunto, è stato in grado di fare.
La sceneggiatura di McKay e il montaggio di Hank Corwin sono totalmente al servizio della recitazione – facendo risaltare anche i ruoli del luciferino Donald Rumsfeld di Steve Carell e dell’idiota George “dabliu” Bush di Sam Rockwell – ma finiscono con il togliere spazio al film, che presto si sgretola e frantuma.

Adam McKay prova infatti a rifare il meraviglioso La grande scommessa (The Big Short, 2015) che gli valse una serie di candidature e l’Oscar alla miglior sceneggiatura non originale, abbattendo il quarto muro che separa schermo e spettatori grazie al sapiente uso di voci fuori campo e di attori che si rivolgono alla camera, utilizzando cartelli e didascalie, infrangendo ogni linearità spazio-temporale.

Ma stavolta non gli riesce altrettanto bene. Tutti questi artifici danno il senso di un’opera incompiuta, che non sa mai quale strada prendere.
Troppo lungo e retorico per essere una scoppiettante commedia hollywoodiana, troppo guizzante e autocompiaciuto per essere il solito banale film liberal di denuncia sociale, troppo solare per essere il ritratto del potere assoluto, troppo cupo per farti ridere mentre ti spiega come il capitalismo ti ha fottuto la vita.
Il film ha però un pregio enorme, racconta infatti come nessuno era mai riuscito prima, nemmeno il gigantesco The Wolf of Wall Street (2013) di Scorsese, quella che è la “Nuova ragione del mondo”, per dirla col titolo di un saggio di Pierre Dardot e Christian Laval.
Ovvero di come al termine di un lungo percorso, cominciato agli albori del secolo, nel dispiegarsi del tardo capitalismo le ragioni economiche abbiano sostituito i processi politici.
La scena che racconta il tramonto di Henry Kissinger, il premio Nobel per la pace cui possono essere tranquillamente attribuite più vittime di quelle fatte dalle peggiori dittature novecentesche, e l’affermarsi di Cheney, è la trasposizione su celluloide della fine della politica e dell’affermarsi della razionalità neoliberista, che si dispiega poi tanto nella “Reaganomics” quanto nella sua veste giuridica nella “Teoria dell’Esecutivo Unitario”, tanto agognata e infine raggiunta dallo stesso Cheney.

Se le straordinarie performance attoriali impediscono all’opera di arrotolarsi su se stesso in una stanca autocitazione del precedente capolavoro, e anche una certa propensione al didascalico va perdonata – come ricorda lo stesso film il 70% della popolazione americana era convinta che Saddam Hussein fosse dietro gli attentati dell’11 settembre e l’americano medio era favorevole alle invasioni di Afghanistan e Iraq non sapendo nemmeno localizzare questi paesi sul mappamondo –, quello che salva la pellicola è raccontare come “l’uomo nell’ombra del potere” non sia Dick Cheney, ma il neoliberismo.
O meglio, come Dick Cheney non sia nient’altro che un agente dei nuovi padroni del mondo, le multinazionali dell’energia e dell’hi tech, che oltrepassano il consueto lavoro di lobbying e arrivano a ridisegnare la struttura giuridica di una potenza mondiale.
Il “Defense Planning Guidance” che Cheney, Lewis Libby and Paul Wolfowitz disegnano anticipando il collasso dell’Unione Sovietica, e che sarà alla base delle guerre unilaterali degli Stati Uniti, non è una semplice dottrina di politica estera che va a sostituire quella oramai usurata di Kissinger, ma una vera e propria ristrutturazione interna della forma dello Stato.

La cura spasmodica e maniacale con cui Cheney cerca e trova appigli legali al potere dell’esecutivo, e quindi del presidente o di chi ne fa le veci (ovviamente lui), in realtà non è brama di potere personale.
È invece la porta d’ingresso del potere economico nelle stanze del legislativo.
È il primo vicepresidente che vuole un ufficio alla Camera dei Rappresentanti, dove passano le leggi finanziarie, e non al senato. È la star dei think tank repubblicani che con la scusa della lotta alla tassazione detta l’agenda economica al parlamento. È l’uomo che l’11 settembre parla con gli avvocati prima che con i militari, perché è sempre in punta di diritto che, cambiando la legge sulla par condicio, si permette la nascita dei media conservatori.

E ancora: è il CEO di Halliburton che disegna la mappa dell’estrazione petrolifera dell’Iraq americano ben prima dell’11 settembre e della Seconda Guerra del Golfo. Non perché abbia organizzato tutto lui, o ci sia chissà quale complotto, ma perché la strada è segnata: la politica estera è decisa dalle compagnie energetiche e la pistola fumante, sia un tragico attentato o un ridicolo discorso di Colin Powell alle Nazioni Unite con la boccetta di antracite in mano, prima o poi la si trova.
In questo senso Vice – L’uomo nell’Ombra, partendo dalla “trickle down economy” di Ronald Reagan e arrivando all’abrogazione del Glass-Steagall Act (la separazione delle banche di affari dalle banche di investimento, in voga dal 1933) operata da Bill Clinton, è il prequel di La Grande Scommessa.
Pur non raggiungendo la compiutezza del suo film gemello, riesce però a raccontare in maniera memorabile le ragioni che hanno portato alla più grande crisi economica di sempre, quella del tardo capitalismo.

E a disegnare i contorni del vero “uomo nell’ombra” dei corridoi e delle stanze del potere di Washington: il neoliberismo, rappresentato per l’occasione dai corpi satanici e mefistofelici di Christian Bale e Amy Adams.

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