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gio 24 ottobre 2019

Vedere l’epoca in cui si vive. Intervista a Philip Di Salvo

“Big data”, IA, capitalismo di sorveglianza. L’avanzamento tecnologico è accompagnato da brucianti contraddizioni, quali le nuove forme di sfruttamento, i “pregiudizi algoritmici” e il controllo pervasivo. Ne abbiamo parlato con Philip Di Salvo, esperto di whistleblowing, sorveglianza e hacking.

Diavoli: Dopo aver esaurito le risorse del pianeta, l’essere umano è passato a estrarre valore da se stesso, dai suoi comportamenti, dai suoi desideri, dai suoi sogni. Cosa sono i big data, a cosa servono e perché tutti li inseguono?


Philip: La metafora ambientale è molto efficace per illustrare come funziona la creazione di valore dai dati personali degli utenti. Evgeny Morozov, non a caso, parla di data extractivism per spiegare questa logica.

Le grandi aziende tech dipendono letteralmente dall’estrazione di dati da quante più fonti possibili, al fine di poterli monetizzare. Il modello di business di piattaforme come Facebook o motori di ricerca come Google è la pubblicità targettizzata. Dopo averla inventata e portata alle masse, hanno di fatto monetizzato il settore della pubblicità online facendo della sorveglianza un modello di business.

In quest’ottica è vitale per loro trovare costanti fonti di estrazione di dati per accrescere la loro capacità di analisi, targettizzazione e vendita agli inserzionisti. Come per l’estrazione delle materie prime, questo avviene anche per i dati, in modi non sempre del tutto trasparenti, e spesso anche in modalità dannose per l’ecosistema che ospita quelle risorse.

I dati non sono il nuovo petrolio – la metafora non regge fino all’ultimo – ma la corsa alla loro estrazione ricorda quella all’oro nero.

La trasformazione della sorveglianza nel modello di business de facto di Internet, ha cambiato la rete, facendo sì che le dinamiche del surveillance capitalism prendessero il sopravvento su quasi tutti gli spazi abitabili del web. Come i combustibili fossili che dovremmo abbandonare per salvare l’ecosistema dalla catastrofe climatica, anche il modello della pubblicità targettizzata andrebbe progressivamente smantellato, in favore di alternative più sostenibili.


Diavoli: Dai dati alla guerra dei dati. Questa nuova dimensione del conflitto globale che segna l’età contemporanea è una guerra tra bande, tra multinazionali, tra stati, o tutto insieme? Si può ancora fare una differenza? Si pensi alla dimensione “elettrificata” e complessa della Via della Seta e alle legislazioni mancanti – per incapacità o per interesse – a livello nazionale e sovranazionale.


Philip: Per anni si è ritenuto che l’economia e la politica non avessero residenza in rete e che il cyberspace vivesse effettivamente di regole sue, distanti. Il “Manifesto per l’Indipendenza del Cyberspazio” di John Perry Barlow è un capolavoro poetico-tecnologico-utopico, ma è anche il manifesto di un’utopia fallita.

Oggi viviamo in una rete ampiamente militarizzata, costantemente sorvegliata per motivi commerciali e di business. I confini tra i due mondi, come hanno dimostrato i file di Snowden, sono estremamente labili ed è chiaro che le trivelle di dati delle grandi piattaforme siano una risorsa primaria per le agenzie di intelligence.

Esistono varie guerre dei dati. Le prime sono quelle tra le piattaforme stesse, per consolidare posizioni dominanti sui mercati di riferimento. Quando Facebook lancia il suo servizio d’incontri per cuori solitari – la definizione di distopia, per quanto mi riguarda – lo fa per appropriarsi di una fonte ulteriore di dati e per diventare un’infrastruttura sociale anche in quell’ambito, ai danni degli altri colossi della rete.

Un’altra guerra dei dati è quella hardware tra superpotenze: la centralità della Silicon Valley nelle dinamiche di potere della rete di oggi è messa in discussione dall’ascesa dei produttori cinesi.

Un terzo conflitto in corso invece vede gli strumenti della rete diventare armi di propaganda e influenza politica. Niente di nuovo, ma i terreni digitali sono zona di conflitto in questo senso: quanto avvenuto nel grande caos del Russiagate ad esempio. O i tentativi di hackeraggio di infrastrutture energetiche o militari sensibili, che sono oramai una realtà.


Diavoli: Uno degli utilizzi principali che sono fatti dei big data, se non il principale considerando gli investimenti, è sull’intelligenza artificiale. Ci spieghi che cosa l’AI è cosa può diventare? Anche questa corsa s’inserisce nel contesto di guerra globale sopra descritto?


Philip: Occorre innanzitutto ricordare che buona parte dell’intelligenza artificiale che stiamo sviluppando, o che è già disponibile, è fatta di dati e della loro analisi. Le applicazioni in questo senso possono essere molteplici, in diversi settori.

Chiaramente in alcuni di questi vedo quasi esclusivamente benefici, come nella medicina, in altri alcuni sbocchi interessanti, come nella musica, in altri ancora vedo pesanti ripercussioni sociali ed etiche.

Gli algoritmi e il decision making data-driven, ad esempio, iniziano a essere utilizzati anche in ambiti di policing e di giustizia. Qualche anno fa ProPublica fece un’inchiesta su un software utilizzato negli Usa come appoggio alle decisioni dei tribunali, rivelando importanti problemi di equità dei dati e di bias razziali.

Di fatto, gli algoritmi prendevano decisioni sulla base dei medesimi pregiudizi di chi li aveva programmati, replicandoli con la falsa promessa di trasparenza e razionalità.

Mi preoccupa, in quest’ottica, l’affidarsi a strumenti di questo tipo attribuendo loro connotazioni “sublimi” di efficienza e precisione che invece non hanno. La datafication di un numero crescente di ambiti sociali sensibili mi spaventa soprattutto perché questi sistemi operano spesso senza reale trasparenza e accountability, senza che ai cittadini sia data la reale possibilità di guardarci dentro per capire come funzionino e sulla base di quali regole.

L’era dell’efficienza algoritmica è in realtà molto più oscura di quello che si potrebbe pensare. E non annulla i conflitti, ma se possibile li esaspera.


Diavoli: Gli algoritmi sono la base per la trasformazione degli strumenti di dominio del Capitale, siamo passati dalla forma della disciplina a quella al controllo. Tanto che questa è stata definita “l’epoca del capitalismo di sorveglianza”. Come abitare questi tempi e, soprattutto, come uscirne vivi?


Philip: Il libro di Shoshana Zuboff è un testo molto importante perché tiene insieme molte prospettive critiche su questo discorso relativo alla datafication che non erano mai state affrontate in modo altrettanto olistico.

Il suo merito è di analizzare con il medesimo cappello teorico quello che sta avvenendo in economia, nella politica e in tutti i settori in cui questo sistema trova oggi applicazione.

L’arma nelle mani dei cittadini è quella della consapevolezza, in primis. Troppo a lungo la retorica dell’innovazione ha messo a tacere o ha escluso dal dibattito i temi sociali, di equità e di classe che il capitalismo della sorveglianza solleva.

Occorre sviluppare una prospettiva critica reale nei confronti di questo esistente e che guardi oltre quello che Lina Dencik, citando espressamente Mark Fisher, ha definito «realismo della sorveglianza». Nessuna tecnologia è un destino ineluttabile, come non lo è alcuna sua applicazione.
Occorre immaginare nuovi scenari per guardare oltre l’esistente egemone e stabilire collettivamente quali forme di raccolta e monetizzazione dei dati siano accettabili, e quali siano giudicate eccessive. Questo, ovviamente, non può avvenire senza uno sforzo di regolamentazione dei poteri delle grandi piattaforme.

In questo ambito, trovo molto significativo che Elizabeth Warren stia portando la questione al centro dei temi della politica USA, e che anzi ne faccia un caposaldo della sua proposta per le primarie Dem.

Sarebbe comunque miope pensare che questo possa essere sufficiente. Non stiamo parlando di aziende normali in settori industriali definiti. Stiamo parlando delle infrastrutture sociali entro cui viviamo e che plasmano l’intera sfera pubblica.


Diavoli: Attraverso dati, algoritmi e dispositivi si ripropongono, a partire dalle stesse aziende che la rete controllano, le medesime discriminazioni economiche, etniche e di genere che sono nella società. Per sconfiggerle bastano i vecchi metodi di lotta o ne servono di nuovi?


Philip: La crittografia e le altre pratiche di difesa digitali, in questo senso, sono alleate importanti perché rendono le pratiche di sorveglianza più difficili e più costose. È significativa, ad esempio, l’ascesa spedita dell’uso degli ad-blocker da parte degli utenti, perché vanno a mitigare sensibilmente il tracciamento dei dati personali mentre si naviga nel web, in particolare sui siti di news.

Spesso si tende a riferire il problema dell’eccessiva raccolta dei dati a fini commerciali solo alle piattaforme, quando in realtà esso è ben presente – ed è anche più complesso e meno indagato – anche altrove. Di fatto è la pratica che sostiene il business della pubblicità online, che è ancora centrale per l’informazione nella rete.

È un sistema disfunzionale che peggiora l’esperienza di navigazione, espone gli utenti a un tracciamento pervasivo e a vari altri rischi. Molte testate giornalistiche si stanno finalmente muovendo in direzioni diverse, al fine di diminuire il peso della pubblicità online nei loro bilanci, aprendosi a soluzioni di finanziamento diretto, chiedendo ai lettori contributi in forma di abbonamenti e membership.

Credo che quella per superare il modello “gratis in cambio dei dati” sia una battaglia importante, ed è fondamentale per tentare di costruire un web diverso, che torni ad avere al centro in primis le necessità degli utenti stessi.


Diavoli: Uno dei numi tutelari dei Diavoli è Aaron Swartz. La sua fine è nota. Ora abbiamo Chelsea Manning, Edward Snowden e migliaia di altri nomi meno o più noti. Ci viene da pensare che combattere per la libertà di accesso alle tecnologie e all’informazione è altrettanto pericoloso che combattere per la libertà della propria terra. E che i nemici siano sempre gli stessi…


Philip: I whistleblower sono stati fondamentali negli ultimi dieci anni nel far partire dibattiti cruciali attorno alla società dei dati in cui viviamo. Il tema della sorveglianza è un argomento di dibattito pubblico per via delle rivelazioni di Snowden. Prima del 2013 era una questione accademica o da esperti.

Anche WikiLeaks, con le sue disfunzionalità e controversie, ha portato al giornalismo le potenzialità dell’utilizzo della crittografia e di altre tecnologie di hacking come strumenti di reporting. Le storie che citiamo qui, come quelle di altri, sono emblematiche.

Il whistleblowing in linea di principio non è cambiato molto per via della rete, che ne ha però ampliato le potenzialità e l’impatto. Basta pensare alla frequenza con cui si sono manifestati i “Megaleak”, fughe di notizie che interessano enormi quantitativi di dati, come è stato per le rivelazioni di Manning, Snowden, ma anche per i “Panama” e i “Paradise Papers”: ad oggi le inchieste giornalistiche basate sui più grandi database della storia del giornalismo.
Il whistleblowing è il sintomo di un sistema che non funziona o che è avvolto da eccessiva segretezza, come è per le attività di intelligence. Non sono un sostenitore della trasparenza totale, ma in troppi casi è servito il whistleblowing per disvelare pratiche o situazioni illegittime o illegali: come è stato per le vittime civili dell’attacco aereo ripreso in “Collateral Murder” e fornito da Manning o i programmi di sorveglianza della NSA, svelati da Snowden, poi giudicati illegali dalla giustizia Usa.

Nell’intervista che mi ha concesso per Wired, Snowden mi ha detto di non credere negli eroi – lui ha sempre rifiutato questa etichetta – ma di credere nelle scelte. I whistleblower compiono scelte cruciali, da cui non c’è ritorno, spinti da motivazioni di ordine morale ed etico.

Snowden è costretto dal 2013 a un esilio involontario per non dover passare qualche decennio in carcere, mentre Chelsea Manning è di nuovo in prigione da oltre 200 giorni perché si è rifiutata di rispondere alle domande di un grand jury in relazione al suo coinvolgimento con WikiLeaks, tema su cui ha già dato ampia testimonianza e per il quale ha trascorso 7 anni in carcere.

Abbiamo un grande debito con queste persone, la mia generazione in particolare. L’artista Trevor Paglen parla spesso della necessità di imparare a vedere l’epoca in cui si vive: io credo che queste persone abbiano fornito un aiuto molto importante in questo senso.


Philip Di Salvo è ricercatore post doc e docente presso l'Istituto di media e giornalismo dell'Università della Svizzera italiana e la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Si occupa di giornalismo, whistleblowing, sorveglianza e hacking. Scrive per Wired, Esquire, Motherboard e Il Tascabile. Ha pubblicato Leaks. Whistleblowing e hacking nell'età senza segreti (Luiss University Press, 2019), in cui indaga il lato oscuro della rete: chi sono i padroni e chi è che li combatte.
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