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MONITOR


lun 16 settembre 2019

Uomini che “amano” le donne

Vi siete mai chiesti perché i serial killer sono in maggioranza uomini, bianchi ed eterosessuali? È difficile rispondere. Per capire le ragioni di chi uccide, è necessario considerare tante variabili. Tra queste, tuttavia, ricorre senza dubbio la cultura. Alla radice di un femminicidio, ad esempio, c’è anche la distorsione culturale – e relativa narrazione – che riduce la donna a oggetto di cui appropriarsi, colpevolizzando le espressioni di autonomia e libertà femminili.

Opinioni

Vi siete mai chiesti perché i serial killer sono in maggioranza uomini, bianchi ed eterosessuali? È difficile trovare una risposta soddisfacente. Per capire le ragioni di chi uccide senza un movente di utilità materiale, infatti, è necessario considerare tante variabili e adottare un approccio interdisciplinare. La criminologia moderna ci informa che potrebbero esistere delle predisposizioni di natura clinica, indubbiamente incidono i vissuti traumatici, cosi come i trigger, cioè fattori di stress che fanno precipitare l’equilibrio del soggetto verso la realizzazione del crimine.

Altrettanto certo, tuttavia, è che la cultura giochi un ruolo nel determinare i pattern e le modalità con cui un’azione violenta si realizza. Alla radice di un femminicidio, ad esempio, oltre a tutti i fattori precedentemente elencati, c’è anche la distorsione culturale che riduce la donna a oggetto di cui appropriarsi, colpevolizzando le espressioni di autonomia e libertà femminili.

Fatti

Massimo Sebastiani, uomo di 45 anni, eterosessuale, uccide tramite strangolamento Elisa Pomarello, lesbica, donna di 28 anni. Il fatto avviene nel pollaio di una casa a Campogrande di Carpineto, tra le 14.11 e le 14.21 di domenica 25 agosto. Dopo aver ucciso, secondo la ricostruzione istruttoria, l’uomo ha caricato il cadavere della ragazza nel bagagliaio e l’ha successivamente occultato sotterrandolo in una località boschiva. In seguito a una latitanza di 15 giorni, Massimo Sebastiani è stato fermato e tratto in arresto dalla polizia. Durante il primo interrogatorio ha confessato di aver ucciso Pomarelli.
Il movente accertato è il rifiuto della donna a intraprendere una relazione di natura sentimentale e sessuale con lui.

Opinioni

Tutti abbiamo bisogno di evadere. L’umanità alle prese con esistenze faticose e isolate, impotenti e ripetitive, ha bisogno di fantasticare ed è proprio lo spazio dell’immaginazione quello maggiormente infestato dalle ombre danzanti dei nostri archetipi culturali. Figure primarie e tipizzate, la cui forma giace come un calco nei meandri dell’inconscio, e il cui contenuto si nutre di molteplici strati di storia.

Parliamo di schemi culturali che ereditiamo dai nostri predecessori, e tra questi ci sono anche quelli che definiscono la nostra idea di “amore”. La parola «amore» racchiude una pluralità di forme e sentimenti, è uno stato psichico, una reazione chimica, una molla biologica verso la riproduzione della specie, o la decisione razionale di soddisfare dei bisogni affettivi. Ma nell’idea che abbiamo dell’amore sono anche inevitabilmente riflessi i rapporti materiali e di potere, che si esprimono in una data società. È infatti difficile relazionarsi sentimentalmente all’altro senza attingere dall’esperienza che abbiamo dei ruoli di genere, cosi come li abbiamo conosciuti dai primissimi istanti di vita.

Ruoli che ancora oggi sono modellati attorno a un rapporto gerarchico, di dominio, dell’uomo sulla donna. Per capire a fondo il ruolo giocato dalla cultura nelle relazioni umane basta gettare uno sguardo ai processi di colonizzazione delle Americhe che hanno rappresentato il primo vero incontro tra due universi culturali rimasti separati per secoli.

La cristianizzazione forzata dei Montagnais-Naskapi – una nazione semi-nomade indiana che occupava la penisola del Labrador orientale nell’attuale Canada – da parte dei coloni francesi, si è scontrata infatti con alcuni elementi culturali propri delle popolazioni soggiogate. Come riporta la sociologa Silvia Federici, citando lo studio antropologico di Myths of Male Dominance di Eleanor Burke Leacock, i nativi di questa area erano estremamente generosi e collaborativi, risultavano disinteressati al potere, non riconoscevano il concetto di proprietà privata e autorità, né tantomeno concepivano la superiorità maschile e la pratica di punire i più piccoli.
Ecco lo scambio tra padre Paul Le Jeun e un uomo naskapi, riportato dal prete gesuita in un suo diario privato: «Gli dissi che non era decoroso per una donna amare qualcuno che non fosse suo marito e che, a causa di questa perversione, lui non poteva essere sicuro che suo figlio fosse davvero suo. Mi rispose “quello che dici non ha senso. Voi francesi amate solo i vostri bambini ma noi amiamo tutti quelli della tribù”.»

Fatti

L’apice dell’attenzione mediatica si riversa sull’uccisione di Elisa Pomarelli tra il 6 e il 7 settembre, quando Sebastiani viene arrestato e confessa il delitto. Diventa in quel momento chiaro che si è in presenza di un femminicidio, cioè dell’uccisione di una donna per ragioni inquadrabili in una sovrastruttura di matrice patriarcale.

Ma, nonostante il termine sia ufficialmente entrato a far parte del dizionario italiano da quasi dieci anni, sono pochi i media che usano questa definizione per descrivere i terribili fatti. Le espressioni utilizzate, nei titoli e nel corpo degli articoli della maggioranza delle testate nazionali, sono invece spesso riconducibili al concetto di “amore”. Da «Repubblica» al «Messaggero», passando per le agenzie di stampa, come riportato con puntualità da Valigia blu, i riflettori sono puntati sul dramma interiore dell’uomo, dell’assassino.

Titoli strazianti sulle lacrime di Massimo Sebastiani si avvicendano a disamine dettagliate sul senso di delusione e frustrazione che i continui rifiuti della ragazza avevano suscitato nell’animo semplice del carnefice. Elementi come l’ambiguità, l’equivoco, l’incomprensione vengono presentati come causa scatenante della violenza, nonostante le informazioni concrete sul caso evidenzino che i due si conoscevano da diverso tempo e che la giovane aveva fin da subito chiarito di non essere interessata a una relazione di natura sentimentale. Elementi di imprevedibilità e perdita del controllo, inoltre, sono altri grandi protagonisti della narrazione mediatica.

Il “raptus”, l’“impeto d’ira” e l’“accecamento”, nonostante, stando alla mera lettura dei fatti non ci fosse alcuna prova di perdita della ragione. Tanto che l’uomo, in seguito all’uccisione, prende tutte le precauzioni per occultare il corpo della vittima e cancellare le prove, compreso il tentativo di costruirsi un alibi e una latitanza di oltre due settimane. L’apice del parossismo lo tocca «il Giornale», che titola «Il gigante buono e quell’amore non corrisposto». Quasi nessuno fa riferimento all’orientamento sessuale della vittima, che era lesbica, tranne pochissime eccezioni, come il «Corriere» che però evita oculatamente di usare la “L word”, e preferisce romanticizzare con una perifrasi allusiva, «la ragazza che amava le donne».

La terribile realtà di una violenza è manipolata e plasmata nei termini di un romanzo d’appendice, in cui ogni lettore è chiamato a identificarsi con una piccola quanto terrificante e familiare parte di sé.

Opinioni

L’informazione, come racconto della realtà, è uno dei campi di battaglia principali nella guerra tra la riproduzione della cultura dominante e le istanze trasformative che fioriscono tra gli agglomerati umani. Il modo di raccontare una vicenda può deformare la visione che ne abbiamo e incidere sulla nostra interpretazione dei fatti. Allo stesso tempo gli schemi narrativi del giornalismo sono condizionati dagli archetipi culturali prodotti e sedimentati in secoli di storia.

La polemica scaturita sulla copertura mediatica del femminicidio di Elisa Pomarelli è sintomo di questa tensione tra i retaggi della cultura patriarcale e il processo di liberazione che a livello globale sta coinvolgendo milioni di donne in una proliferazione di movimenti politici di denuncia e rivendicazione. Ma questa dialettica non esaurisce la comprensione della pessima figura del giornalismo italiano su questo caso di cronaca.

Le testate giornalistiche e i brodcaster sono oggi quasi interamente regolati dalle leggi del mercato. Con il crollo delle vendite dei giornali di carta e l’abitudine a fruire gratuitamente delle notizie online, l’informazione digitale si trova oggi sotto il giogo del clic, del like, del commento e dello sharing. L’uso di archetipi culturali noti – l’uomo pazzo d’amore, la donna indecisa e ambigua che conduce all’esasperazione, il pentimento disperato per un atto compiuto mentre si è accecati dalla passione – sono coloriture di una vicenda che vista da vicino rimanda a tutt’altro, e non sono soltanto utili a riprodurre la cultura maschile del possesso, ma servono anche a vendere.

Queste figure narrative, con la loro lunghissima carriera evocativa nel nostro immaginario, da William Shakespeare a Walt Disney, mirano dritte al cuore, attivando immediatamente delle reazioni che si trasformano in azioni, online. Non a caso l’imperativo categorico di tutto il marketing contemporaneo è proprio questo: emozionare, attivare l’empatia, e di conseguenza l’identificazione.

Il 25 novembre del 2017 è stato varato il Manifesto di Venezia, una convezione promossa da alcuni sindacati del settore e dalla rete di giornaliste Giulia, che prova a gettare le basi di una deontologia professionale nel trattamento della violenza di genere. Il testo è stato firmato da centinaia di giornalisti e giornaliste ed inserito nel contratto Rai. Eppure la violenza di genere rimane uno degli argomenti più bistrattati dai media.

Tra le ragioni di questo, c’è la pervasività del fenomeno, diffuso, ricorrente e al tempo stesso (reso) invisibile. Radicato nella cultura come una conseguenza diretta, un danno collaterale, una declinazione estrema, dell’amore maschile.

Fatti

Fino al 1981, il Codice penale italiano all’articolo 587 contemplava una pena ridotta per chi uccidesse la moglie, la figlia o la sorella al fine di difendere l’onore proprio e della sua famiglia. Come ci aiutano a capire gli studi e i movimenti femministi degli anni ‘70, e autrici come Mariagrazia Dalla Costa e Selma Jones, dall’avvento dell’economia monetaria e di mercato, e con il superamento dell’economia di sussistenza, il lavoro dell’uomo smette di essere legato alla terra e ricompensato col godimento diretto dei suoi frutti e inizia a essere remunerato col salario.

Parallelamente il lavoro casalingo femminile, che pure contribuisce tanto quanto quello maschile alla riproduzione della vita familiare, smette di essere considerato un lavoro e viene riassorbito nell’impianto ideologico patriarcale, che lo interpreta come una conseguenza della vocazione femminile alla cura della casa e alla maternità.

Nel 2017, tra le donne vittime di omicidio, il 43,4% muore per mano del partner o ex partner. In Italia dall’inizio di quest’anno sono 49 le vittime accertate di femminicidio.

Opinioni

L’oppressione di genere è ancora un fenomeno reale e trasversale nel mondo contemporaneo e, fatte poche eccezioni, riguarda tutti i contesti socio-culturali. Lea Melandri in un articolo uscito nel 2016 entra nel vivo delle implicazioni culturali e piscologiche della concezione di “amore” che abbiamo, a partire dall’analisi del rapporto madre/figlio: «L’amore come sogno fusionale, prolungamento della fase narcisistica originaria. È questo modello d’amore che stringe vincoli di indispensabilità reciproca, al di là del bisogno reale, appropriazione, cancellazione dell’individualità e dell’autonomia dell’altro».

Il “potere” materno, la capacità che una donna, in quanto madre, ha di incidere sulla soddisfazione dei bisogni primari di un bambino, viene in qualche modo riassorbito e ribaltato sul piano sociale, dove l’uomo si riappropria del controllo sulla realtà attraverso il dominio sulla donna. Scardinare alla base questo imprinting culturale è un compito che richiede l’impegno costante, diffuso e duraturo di tutti e tutte coloro che hanno a cuore la realizzazione di una convivenza umana libera e armoniosa. Per farlo, tuttavia, non si può prescindere dal linguaggio.

Audre Lorde, autrice femminista, lesbica e nera, i cui scritti sono oggi oggetto di grande attenzione, nel suo saggio breve The transformation of silence into language and action riconosce proprio nella verbalizzazione, e nell’invenzione di parole ed espressioni nuove, uno dei grimaldelli più efficaci contro il perdurare degli stati di oppressione. Tanto per cominciare, ad esempio, si potrebbe decidere di non includere mai più nella lista dei moventi di un omicidio, la parola “amore”.
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