Decodificare il presente, raccontare il futuro

TREDICESIMO-PIANO


lun 19 dicembre 2016

TRUMP: TRAMONTO A NEW YORK

Derek Morgan faccia a faccia con Donald Trump. Sullo sfondo c'è New York, all'orizzonte il tempio laico della finanza: gli Stati Uniti, e non solo. Negli ultimi anni gli Usa hanno trainato l'economia mondiale per limitare gli effetti della crisi dei subprime, hanno importato ogni cosa da ogni parte del mondo, il nostro deficit commerciale ha salvato il pianeta. Trump adesso si trova di fronte a un nodo cruciale: la politica commerciale americana sarà il pivot del mandato. Nel mirino ha messo Cina e Germania, e con loro l'austerity europea e la globalizzazione.

New York City, 15 dicembre 2016

Donald Trump mi fissa.
La sua faccia a pochi centimetri dalla mia. La sua espressione beffarda di fronte alla mia, impassibile.
Vis-à-vis, io e il presidente eletto degli Stati Uniti d’America.
Ha le sopracciglia aggrottate e gli occhi vivaci. Le labbra contratte e allungate in una smorfia. Il quarantacinquesimo inquilino della Casa Bianca si prende gioco di me, Derek Morgan. Si prende gioco del burattinaio che regge i fili dell’Occidente, del tessitore di destini, della figura nascosta fra le pieghe del potere. Nella luce morente su Sunset Park, Donald Trump si prende gioco di me.
Poi una mano interviene ai bordi del campo visivo. La faccia del presidente si deforma, si ribalta all’indietro, come se la pelle fosse sciolta dalle ossa. E sotto il volto rugoso dell’Avventuriero, sotto il ciuffo rossiccio, vedo spuntare il sorriso furbo di un ragazzino. La zazzera nera, gli occhi scuri, un lampo di divertimento nelle iridi.
Mi fa una linguaccia, da sotto la maschera. Lo osservo fuggire via, raggiungere il prato e due compagni di giochi. Si rincorrono tra gli alberi spogli dell’inverno gelido.
Che succede? Il diavolo non fa più paura?
Medito. Con lo sguardo abbraccio il panorama di Sunset Park, e medito.
Una linea di case basse dai colori pastello, i profili delle ciminiere e dei grandi serbatoi che lasciano intuire l’Atlantico e sullo sfondo i grattacieli di Wall Street. Una prospettiva sugli elementi architettonici che accoglie temporalità diverse: i docks, i comignoli delle manifatture e i templi della finanza.
Ieri, oggi, domani. Tutto in uno sguardo.
Medito. Ieri, oggi, domani: lo spazio maschera il tempo. La nostalgia di un luogo è sempre nostalgia di un tempo. E i grattacieli di Manhattan, solidi bluastri in questa luce, nascondono la mia ansia per il futuro.
Abbasso lo sguardo. Noto qualcosa ai piedi di un albero, mi incammino in quella direzione. Lo spazio, il tempo. Le ombre si fanno più lunghe, i tronchi sono spettrali, i rami nudi come braccia. Non mi sento a mio agio, e ho freddo. Per me è strano. Non ho il cappotto, ma non lo porto da quando lavoravo nella grande banca, a Londra. Continuo a rispettare le vecchie usanze della City.
Raggiungo l’albero, poggio una mano aperta sulla corteccia. È un modo per prendere contatto con qualcosa di saldo. Abbasso lo sguardo, mi lascio andare a un sorriso.
C’è il volto sfatto di Donald Trump, per terra, la maschera caduta al ragazzino.
La maschera, per terra. Mi piego a raccoglierla: nelle orbite vuote non c’è alcuno sguardo da incrociare. Infilo una mano dentro l’apertura, in corrispondenza del collo.
Trump è un contenitore vuoto. Va riempito con molta cura.
Sollevo gli occhi all’orizzonte. Mi concentro sui comignoli, i serbatoi da questa parte del mare. Vestigia di un altro tempo, si stagliano contro i grattacieli.
A riempire il contenitore Trump sarà il vecchio comparto militare-industriale. Se il CEO di Exxon Corporation, Rex Tillerson, viene nominato Segretario di Stato, la politica estera è in mano a una delle sette sorelle del petrolio.
Sollevo gli occhi. Tramonto. A Oriente già incombe la notte. Il cielo… Il cielo di New York solcato dagli aerei la mattina di 9/11. Il cielo dove sono cominciati gli anni Zero, il secolo XXI, il Terzo Millennio. Il cielo sopra Kabul e Baghdad. Il cielo attraversato dai cacciabombardieri americani durante le guerre di Enduring Freedom, quando il vecchio Comparto stava con quelli come Derek Morgan. Ci chiamavano neo-conservatori, siamo stati gli ultimi interpreti di una sovranità imperiale. In guerra per la democrazia e la civiltà.
Già, e adesso?
Abbasso lo sguardo sulla maschera, muovo la mano dentro, il faccione vuoto e floscio. Un sorriso beffardo sulla maschera, un sorriso triste sul mio volto.
Credevano che Trump fosse il paladino dei dimenticati, degli ultimi, dei reietti. Contro il sistema, l’establishment, le élite. Non hanno capito lui, e nemmeno il contesto. La democrazia americana è fondata sull’alternanza al comando di fazioni di capitale. Questa è la novità di Trump: essere vicino a industrie vecchie, superate. Contro di lui, la fazione di Hillary: sharing economy, cibo biologico, eco-industria. Non sono altro che pezzi di una stessa macchina. Nessuno è anti-sistema. Non esiste niente fuori.
Molti presumevano che Hillary fosse la donna di Wall Street. In realtà la finanza è un tempio laico: può fingere di sbilanciarsi in un endorsement, ma deve assicurare sempre la continuità dell’accumulazione. In questo senso il vero pericolo sarebbe stato Bernie Sanders. Se avesse vinto le primarie, l’avremmo fronteggiato noi. Perché Trump non avrebbe potuto farlo: contro di lui Sanders avrebbe vinto.
Lo spazio maschera il tempo, ma a volte le maschere non servono. Studio quella che ho in mano. Sono arrivato qui, a Sunset Park, in cerca di una prospettiva diversa per ragionare sul tempo. Dal mio ufficio nella grande banca di Murray Street o dal Tredicesimo piano del grattacielo di Midtown, da lì non potevo guardarmi. Non potevo guardare le architetture del nostro potere.
Per questo ho scelto di venire qui. Brooklyn, un luogo in bilico tra ieri, oggi e domani. I comignoli, i serbatoi e i grattacieli di Wall Street. Tutti nello stesso sguardo.
Per questo ho scelto il momento che resta sospeso fra il giorno e la notte. Così simile alla transizione che dovremmo governare. Dovremmo…
La finanza è stata a lungo in grado di reggere il mondo occidentale, e il pianeta. Ora quella fase è finita. La politica sta tornando centrale e non vuole delegare le sue funzioni.
Il 2007 ha segnato una crisi devastante. L’abbiamo risolta fra noi, con strumenti monetari.
Trump, invece, avrà l’effetto di una scossa sulla politica. Radicalizzerà le sinistre globali, le sposterà sui movimenti di protesta, lontano dalle narrazioni liberal degli anni Novanta. Trump è il carnefice del centrismo, simbolicamente lo cancella. Proprio quello che temevamo. Con Hillary speravamo di nascondere il conflitto, di fermare il tempo: una democratica, ma completamente devota alla causa, una di noi. Ci avrebbe consentito di riorganizzarci, precedere il futuro, restare avanti nella curva. Con Hillary avremmo dilatato l’istante nella permanenza, annullato l’entropia, congelato il divenire. Qui e ora, ora e per sempre: l’utopia dei Diavoli, l’unico ordine possibile che alcuni denunciano come regno dell’ingiustizia.
Ma non è stata eletta, Hillary. E il conflitto non si può più nascondere. Questo tramonto si allunga da New York sull’Occidente intero.
Trump è l’accelerazione del tempo, è il tempo stesso che ci sfugge di mano. Ci costringe a rincorrere, ad affrontare le contraddizioni politiche e finanziarie che si faranno esplicite in tutto il mondo. Disuguaglianze, migrazioni di massa, inquinamento globale, tentativi d’egemonia di Cina e Russia. Sul tavolo ora ci sono rompicapi che Hillary, col suo riformismo furbo, non avrebbe risolto, ma avrebbe occultato. Ora, invece, il re è nudo, il pianeta può curvarsi in modi inaspettati, anche drammatici. Noi dovremo essere lì, a limitare i danni. Non sarà facile.
Trump non è Reagan. Trump è un presidente post-moderno, disilluso, senza narrazione. Questo genere di politica ha un ciclo di vita brevissimo: presto sarà odiato dai suoi stessi elettori. Un anno, forse. E tra dodici mesi entreremo di nuovo in campagna elettorale. Di nuovo, perché la storia americana non finirà con Donald John Trump.

Alcuni minuti dopo

Un filo appena. L’ultima, sottile luce di questo giorno. L’acqua dondola contro il waterfront di Sunset Park, mentre New York accende il suo skyline con l’illuminazione artificiale che l’ha reso celebre. Pulsazioni, che un braccio di mare tiene lontane da Brooklyn. L’acqua che è stato l’elemento della prima globalizzazione. L’acqua su cui i grandi imperi hanno edificato la propria potenza.
La partita, la vera partita, si gioca ancora sulle rotte globali…
Negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno trainato l’economia mondiale per limitare gli effetti della crisi dei subprime, hanno importato ogni cosa da ogni parte del mondo, il nostro deficit commerciale ha salvato il pianeta. Trump adesso si trova di fronte a un nodo cruciale: la politica commerciale americana sarà il pivot del mandato. Nel mirino ha messo Cina e Germania, e con loro l’austerity europea e la globalizzazione. In forme e modi diversi sarebbe accaduto lo stesso con Hillary. In un caso e nell’altro, la variabile indipendente del futuro prossimo riguarda gli assetti del commercio mondiale. Quegli assetti che hanno sospinto l’american dream a tramontare a Nordest, all’orizzonte della rust belt.
I rischi sono enormi. Una brusca interruzione del processo di globalizzazione innescherebbe effetti depressivi. Croce e delizia degli Stati Unti d’America, questo procedere in bilico sul filo della Storia del mondo: sospesi tra le spinte a destrutturare norme, cornici valutarie, relazioni commerciali, da un lato, e contro-tendenze a ripristinare nuovi equilibri, altri assetti, diverse regole. Alternanza di fasi, procedere dei cicli. Così è stato, così sarà. L’abbiamo sempre fatto: a Bretton Woods, dopo la guerra, con l’armonico avanzare della ricostruzione, prima che nel 1971 il Nixon shock e la linea di Paul Volcker inaugurassero l’età del grande disordine planetario al tempo dell’inconvertibilità del dollaro in oro. Ed è accaduto ancora con il great crash dei subprime e il Quantitative easing: continuità da infrangere, discontinuità da ricomporre. Di nuovo, come sempre, nell’eterno ritorno dell’identico.
Da questo fronte del porto, a Brooklyn, misuro l’amara consapevolezza dei limiti: oggi i nostri dispositivi di controllo hanno margini esigui innanzi alla nuova centralità del politico. Dal Tredicesimo piano di un grattacielo a Midtown, i Diavoli dovranno attendere il volgere della fase, quando arriverà il momento dell’azione per riportare gli assetti globali in un ambito di sostenibilità e cercare un nuovo bilanciamento dei rapporti di forza.
Nel frattempo, bisogna aspettare.
Impugno la maschera, l’apro all’estremità, la faccio scivolare. Poi la calco sulle mie sembianze. Con la faccia di Donald Trump, arrampico lo sguardo sullo skyline di Manhattan ormai immerso nella notte.

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