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ven 14 dicembre 2018

TRADE WAR: CON LA CINA NON SI SCHERZA

A meno di due settimane dai tentativi di distensione andati in scena a Buenos Aires, lo scontro a distanza tra Washington e Pechino è entrato in una nuova fase di rappresaglie incrociate, inasprite dall’arresto di Meng Wanzhou, vertice di Huawei. Una fase della trade war a dir poco tempestosa perché, a riavvolgere il nastro sugli ultimi anni di offensive commerciali, con la Cina non si scherza.

A meno di due settimane dai tentativi di distensione andati in scena a Buenos Aires, lo scontro a distanza tra Washington e Pechino è entrato in una nuova fase di rappresaglie incrociate, inasprite dall’arresto di Meng Wanzhou, vertice di Huawei. Una fase a dir poco tempestosa perché, a riavvolgere il nastro sugli ultimi anni di offensive commerciali, con la Cina non si scherza.
Il primo dicembre, dietro richiesta di Washington, le autorità canadesi hanno arrestato a Vancouver Meng Wanzhou, figlia del fondatore del colosso delle telecomunicazioni cinese Huawei.
La hanno accusata di aver aggirato le sanzioni Usa contro l’Iran e invischiato la compagnia in un giro di affari con Teheran, forte della carica di chief financial officer che Wanzhou ricopre per l’azienda di famiglia.
L’arresto di Meng, come prevedibile, ha fatto andare su tutte le furie la dirigenza di Pechino, che nel giro di una settimana ha risposto alla “violazione dei diritti umani” della propria cittadina arrestando a sua volta due cittadini canadesi residenti in Cina: l’ex diplomatico (e membro del think tank International Crisis Group) Michael Kovrig e l’uomo d’affari, esperto di rapporti commerciali con la Corea del Nord, Michael Spavor.
Per entrambi, secondo Pechino, è scattato il fermo a seguito di indagini intorno ad “attività che mettono a repentaglio la sicurezza nazionale cinese”
Nel frattempo, Meng è stata liberata su cauzione e non potrà lasciare il Canada finché il ministro della giustizia canadese non prenderà una decisione circa la richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti.
In caso di estradizione, Meng dovrebbe rispondere dell’accusa di associazione a delinquere di fronte alle autorità Usa, rischiando una pena detentiva di trent’anni per capo d’imputazione.
Seguendo a menadito il brogliaccio della sua “bullying policy”, Donald Trump si è dichiarato pronto a intervenire presso lo U.S. Justice Department nel caso una sua intercessione potesse essere d’aiuto per raggiungere un accordo commerciale definitivo con Pechino.
Che un approccio estorsivo simile darà i frutti sperati da Trump – piegare definitivamente Xi Jinping e imporre alla Cina un set di profonde riforme del proprio assetto economico –, resta ancora tutto da vedere.
Ma di certo nessuno, almeno nella storia recente, aveva mai osato alzare così tanto il livello dello scontro con Pechino, intuendo di cosa la Cina è capace di fronte a provocazioni anche di gran lunga meno pirotecniche del caso Meng.
D’altronde, come spiega senza peli sulla lingua il direttore di «Global Times» Hu Xijin in questo video, la rappresaglia cinese può spingersi molto oltre l’arresto di due cittadini canadesi, pescando da un mazzo di misure poco ortodosse ma utilizzate nel passato recente per rispondere a episodi giudicati “provocatori” da Pechino.
Può spingersi molto oltre
Norvegia, 2011. Un anno prima il dissidente cinese Liu Xiaobo, promotore del pamphlet pro diritti umani Charter 08, vince il premio Nobel per la Pace. La Cina, che dal 2008 teneva Liu Xiaobo in stato d’arresto accusato di cospirazione, protesta con veemenza, censurando la notizia e convocando l’ambasciatore norvegese.
Nello stesso anno, le autorità cinesi introducono controlli più stringenti per le importazioni di salmone norvegese, facendo crollare le esportazioni di pesce da Oslo del 62 per cento nel giro di soli sei mesi.
Il bando al salmone norvegese rimarrà in vigore per ben sei anni.
Giappone, 2012. Nel mese di settembre il governo giapponese dichiara unilateralmente la nazionalizzazione delle isole Senkaku, attribuendole alla prefettura di Okinawa.
Le isole sono da anni al centro di una contesa territoriale tra Repubblica popolare cinese e Giappone (e Taiwan, considerata però da Pechino una parte integrante della Cina continentale, “temporaneamente ribelle”).
La Cina risponde incoraggiando un boicottaggio popolare dei marchi giapponesi, in particolare delle case automobilistiche Honda e Toyota.
Si registrano proteste violente in tutto il paese, con auto Toyota e Honda prese d’assalto dalla folla e stabilimenti dei marchi giapponesi dati alle fiamme.
In un mese di proteste, poi sedate dalle stesse autorità cinesi, i marchi giapponesi perdono il 50 per cento delle vendite nel paese. Secondo JP Morgan, la rappresaglia cinese è costata a Tokyo quasi un punto percentuale di Pil. La disputa territoriale è ancora in corso e la prefettura di Okinawa non ha ancora dato il via libera a nessun progetto infrastrutturale che interessi le isole Senkaku.
Hong Kong, 2015. In seguito all’elezione di Xi Jinping a presidente della Repubblica popolare cinese (novembre 2012), una serie di autori e librai vicini alla libreria indipendente Causeway Bay Books, ad Hong Kong, pianifica la pubblicazione di alcuni libri critici nei confronti del neo presidente cinese; attività teoricamente tutelata dall’articolo 27 della Basic Law locale che garantisce, nell’isola, la piena libertà d’espressione.
Due anni dopo, tra l’ottobre e il dicembre del 2015, cinque uomini legati alla Causeway Bay Books spariscono improvvisamente dall’isola, prelevati da agenti cinesi in borghese.
Lui Bo, Gui Minhai, Lam Wing-kee, Cheung Jiping e Paul Lee riappaiono alla spicciolata nel 2016, tutti detenuti dalle autorità cinesi o per coinvolgimento in “attività illegali” o per “collaborare” a non meglio specificate indagini.
Al momento, in seguito a “confessioni spontanee” trasmesse dalle reti nazionali cinesi, sono tutti in libertà condizionata ma non possono lasciare la Repubblica popolare, salvo brevi visite “per motivi personali” ad Hong Kong.
Corea del Sud, 2017. Seul accetta di installare sul proprio territorio il Thaad, un sistema antimissilistico ideato, gestito e pagato dagli Stati Uniti. La Cina considera il Thaad una minaccia diretta alla propria sovranità, accusando Washington di voler spiare Pechino con la scusa del contenimento della minaccia nordcoreana.
Pechino intima a Seul di bloccare l’installazione del sistema antimissilistico, richiesta che la Corea del Sud non vuole – o non può – soddisfare.
La dirigenza di Pechino, allora, dal mese di marzo incoraggia ancora una volta un boicottaggio a tappeto dei marchi sudcoreani, colpendo il settore dell’automobile (Hyundai, – 64%), della rivendita al dettaglio (Lotte, – 95%) e scoraggiando il turismo verso la Corea del Sud.
In sei mesi, il turismo cinese verso la Corea del Sud –  che equivale a metà delle visite complessive – si dimezza. Il presidente sudcoreano Moon Jae-in annuncia lo stop all’upgrade del Thaad e apre un’indagine sui danni ambientali causati dall’installazione del sistema antimissilistico americano. Pechino e Seul normalizzano ufficialmente le relazioni bilaterali nell’ottobre dello stesso anno.
Una serie di precedenti, quella su cui si è appena riavvolto il nastro, per cui è opportuno chiedersi se e come la Cina di Xi Jinping intenda rilanciare di fronte alle provocazioni di Trump, spostando il mirino della rappresaglia dal Canada agli Stati Uniti.
Da un lato, Donald Trump, perennemente impegnato su più tavoli sovrapposti tra vicende private, dubbi rapporti con Putin, escandescenze razziste e un gabinetto di governo gestito come un’infinita sessione di sedie musicali, sembra non aver niente da perdere e nessuno in grado di consigliarlo.
Dall’altro, Xi Jinping, alle prese con una Via della Seta più difficile da realizzare del previsto e fiaccato dagli effetti dei dazi Usa, si ritrova per la prima volta costretto in una disputa in cui potrebbe non avere la meglio.
In mezzo, spettatrice impotente e campo di battaglia, c’è la comunità internazionale col suo sistema economico direttamente dipendente dagli umori di Washington e Pechino.
Grande è la confusione sotto il cielo, avrebbe forse commentato il “grande timoniere” Mao, ma stavolta la situazione non sembra eccellente.

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