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RECENSIONE


mer 14 aprile 2021

THE SERPENT

“The Serpent” racconta la storia vera di Charles Sobhraj, criminale che alla fine degli anni Settanta, in Thailandia, ha irretito, ucciso e occultato un numero ancora oggi imprecisato di hippie occidentali. È una serie su una vicenda strana e inquietante, forse l’ennesima, ma che in questo caso per risvolti e cifra stilistica apre una serie di riflessioni inedite su crisi d’identità e rimossi di matrice colonialista.

- You’re dutch, right?
- Yeah
- But not entirely kwailo, are you? You’re like me.
- Yeah, my father is from indonesia
- Mine is Indian, and my mama is from Vietnam. But listen to me and I’m French. It can be confusing sometimes
[Charles Sobhraj/Alain Gautier e Willem Bloem, Episodio 1]


The Serpent, miniserie di otto puntate co-prodotta da BBC e Netflix, si inserisce facilmente nel fortunato filone del non-fiction crime: senza scavare nemmeno troppo in profondità, la cronaca nera mondiale serba storie di crimine – soprattutto quelle irrisolte – pronte per la catena di montaggio della serializzazione.

Eppure la storia vera del serial killer Charles Sobhraj, che alla fine degli anni Settanta in Thailandia ha ucciso e occultato i cadaveri di un numero ancora oggi imprecisato di hippie occidentali, si presta a diversi livelli di analisi non solo ancora attuali, nella società odierna, ma utili. Potenzialmente, formativi.
Spezzettando la linea temporale degli eventi con continui flashback, The Serpent racconta la storia del criminale carismatico Sobhraj (Tahar Rahim), in grado per anni di alimentare il proprio giro di contrabbando di gioielli dall’Asia all’occidente assumendo di volta in volta le identità delle sue vittime: fricchettoni sprovveduti, la “meglio gioventù” che dai primi anni Sessanta, a ciclo continuo, ha calcato le rotte mistiche del viaggio in oriente, in cerca di “sé stessi”.
Lo fa con l’aiuto della sua compagna, Marie (Jenna Coleman), e del braccio destro Ajay (Amesh Edireweera), il giovane indiano che accalappia i backpackers bianchi tra le strade di Bangkok per condurli a Kanti House: un comprensorio con piscina dove Sobhraj vive e organizza feste alcoliche e psichedeliche per occidentali.

Nella seconda metà degli anni Settanta, quando si svolge The Serpent, il viaggio e il crimine erano accomunati dalla quasi totale mancanza di controlli alle dogane. Era un mondo analogico in cui bastava sostituire una fototessera a un passaporto per cambiare nome e nazionalità. Un mondo in cui le distanze tra il punto di partenza e il punto d’arrivo del viaggio erano concrete, misurate in giorni di tragitto, travel cheques, recapiti temporanei in uffici postali, monete in valuta locale spese ai chioschi per le telefonate a lunga distanza. Un mondo che oggi possiamo guardare con nostalgia, dove, chi voleva, poteva perdersi e far perdere con facilità le proprie tracce.

The Serpent ci ricorda che si perdeva anche chi non voleva, e che il sogno di libertà e spiritualità degli hippie si districava in ambienti rischiosi per definizione, a cavallo tra escapismo e illegalità. Una catena di situazioni lisergiche e naif sempre a un passo dalla fatalità.

Crescere a Parigi come figlio di una coppia asiatica mista, padre indiano, madre vietnamita, lascia in Sobhraj cicatrici indelebili: una gioventù attraversata col marchio di reietto, discriminato per le proprie origini asiatiche in un occidente che ieri, come in gran parte oggi, non ha voluto ricalibrarsi alla realtà postcoloniale. Lo stesso pedigree che in Europa rappresenta un ostacolo, nel contesto asiatico di quegli anni diventa per Sobhraj un punto di forza.

L’uomo naviga la propria identità ibrida tenendosi sempre a metà del guado: mai abbastanza asiatico per destare sospetti, mai abbastanza occidentale da non essere in grado di leggere e piegare a proprio favore un contesto locale in cui gli hippie si lanciano senza paracadute, entusiasti e ignari di vagare indifesi e impotenti in un mondo di cui non percepiscono i pericoli.
In questa moltitudine di giovani aspiranti spiriti liberi affetti dalla sindrome del parco giochi, Sobhraj e i suoi complici hanno gioco facile nel tessere una rete di dipendenza in cui cadono i più sprovveduti. L’uomo bianco si ammala in terra straniera, non conosce né la lingua né i costumi locali, ed ecco comparire un uomo della provvidenza ibrido, pronto a offrire il proprio aiuto e il proprio porto sicuro al viaggiatore in difficoltà. In questo, The Serpent rappresenta una lieve variazione sul tema di Wild Wild Country, altro prodotto seriale che ben indaga i danni collaterali dell’incontro tra una generazione di bianchi in cerca di sé e un non-bianco abbastanza furbo da approfittarne.

The Serpent si spinge però oltre, estendendo la crisi di identità a ogni singolo personaggio della serie. Sobhraj, il meticcio respinto dalla high society europea, in Thailandia diventa Alain Gautier, commerciante di pietre preziose; Marie, giovane canadese casa e chiesa, incontra Sobhraj e si trasforma in Monique, il suo alter ego oscuro e criminale. Secondo lo stesso schema di alterità, anche il compassato burocrate olandese Herman da passacarte all’ambasciata si trasforma in detective sulle tracce del serial killer. Così come sua moglie, Angela, abbandona i panni della mogliettina del diplomatico tutta botanica e circolo del tennis, aiutando e spronando Herman quando le indagini sembrano terminare in un vicolo cieco.

Il sottotesto angosciante che ci indica The Serpent, in parallelo alla scia di morte lasciata da Sobhraj, è la totale insoddisfazione di chiunque compaia sullo schermo. È il motore che spinge Sobhraj al crimine e alla vendetta sull’uomo bianco, giustificata qua e là con monologhi da applausi sul post-colonialismo, come strumento per ottenere ciò che gli è sempre stato negato: soldi, potere, status. E che, uguale e contrario, spinge migliaia di figli di papà occidentali con soldi, potere e status – letteralmente, i boomer – a lasciare l’occidente per calcare le strade dell’Asia in cerca di qualcosa – spiritualità, libertà, droghe, sesso – che aiuti a riempire il vuoto.

A coronamento di questa saga dell’irresolutezza esistenziale, ha un che di sublime il fatto che alla fine della vicenda nessuno sia riuscito a ottenere nemmeno un briciolo di quanto desiderato.

Un’ultima nota sul personaggio principale di tutta la serie, che occupa lo schermo nella sua assenza. Seppur la vicenda si svolga quasi interamente nel continente asiatico – tra Thailandia, Hong Kong, India e Nepal, escluse le parentesi europee – in The Serpent è proprio l’Asia a mancare.

Sempre sullo sfondo, mai meritevole di approfondimenti, il totale disinteresse degli sceneggiatori per l’ambiente in cui si svolgono gli eventi forse può essere una scelta stilistica non casuale.

Come per la stragrande maggioranza degli hippie sedotti dal fascino orientale, l’Asia è sempre stata un contorno, la scenografia muta e multicolore in cui poter mettere in scena, indisturbati, sé stessi.
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