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TREDICESIMO-PIANO


mar 27 novembre 2018

TERTIUM NON DATUR

Trarre profitto da una grande crisi è il tocco magico di Bruno Livraghi. Così si mosse ai tempi della guerra ai debiti sovrani della periferia europea, e così si è mosso quando montò il trade-monstre dei crediti deteriorati che gravavano sui bilanci delle banche italiane. Per questo, quando si parla di “spread”, Livraghi sa spiegare bene le regole del gioco: forzare la mano, per testare i limiti, e quindi ripristinare l’assetto, per estrarre di nuovo valore. Agli occhi del trader, dunque, la sedicente svolta sovranista è l’ennesima forzatura strumentale che precede il ripristino della tecnocrazia, tertium non datur.

Trarre profitto da una grande crisi è il tocco magico di Bruno Livraghi. Così si mosse ai tempi della guerra ai debiti sovrani della periferia europea, e così si è mosso con gli NPL, quando montò il trade-monstre sui non performing loans, i crediti deteriorati che gravavano sui bilanci delle banche italiane.
Ogni volta che si levavano le voci allarmate sull’imminente collasso, lui rilevava le potenzialità di guadagno celate nell’instabilità politica. Dove tanti vedrebbero lo strapiombo, Livraghi, il finanziere di origini italiane a capo della sede londinese di M*** L***, prestigioso hedge fund a stelle e strisce, vede un trampolino di lancio per aumentare gli utili.
Per questo, quando si parla di “spread”, Livraghi sa spiegare bene le regole del gioco: forzare la mano, per testare i limiti, e quindi ripristinare l’assetto, per estrarre di nuovo valore. Agli occhi del trader, dunque, la sedicente svolta sovranista è l’ennesima forzatura strumentale che precede il ripristino della tecnocrazia, tertium non datur.
Lo abbiamo incontrato ancora, per farci illustrare questa ineluttabile ciclicità.
Livraghi, ci risiamo: si parla di spread ormai da mesi ma nessuno sembra realmente preoccupato di quello che succede. Il governo ostenta calma, il Paese non sembra terrorizzato come nel 2011 e ormai pare che lo spread si sia assestato sopra i 300 punti base.
Lo spread ora rappresenta il livello al quale gli investitori comprano la carta italiana. Non è più funzione di grandi speculazioni, è semplicemente un assessment del rischio dell’Italia all’interno di questa cornice politica.
Lo spread è un mix di entità del debito, prospettive di crescita futura, percezione della gestione politica domestica e, non ultimo, contesto internazionale.
Mischiando tutti gli elementi e shakerando, esce fuori il numerino magico.
Ma allora uno spread così alto chi danneggia davvero?
Lo spread a questi livelli, se l’Italia non dovesse fare default, si tramuterebbe in un trasferimento di ricchezza da parte  dei nullatenenti verso i rentier che dispongono di risparmi.
Il meccanismo è molto semplice: chi investe in titoli di Stato ottiene una rendita molto superiore a quella che riflette la crescita economica e l’inflazione, mentre il soggetto privo di risparmi paga queste rendite superiori con un eventuale deterioramento dei servizi futuri e il peso della  spesa improduttiva in interessi eccessivi da parte dello Stato, che vengono saldati attraverso la tassazione del lavoro vivo.
Ergo, alcuni risparmiatori perdono in conto capitale, ossia nel mark to market delle loro posizioni, ma gli investitori di lungo termine aspettano fiduciosi la scadenza dei titoli… sperando che non ci sia la bancarotta.
D’accordo, Livraghi. Quindi chi potrebbe guadagnarci sono i cosiddetti “long term investors” in cerca di rendite allettanti…
Più facile è identificare chi sicuramente ci perde, ovvero la parte produttiva del Paese, che lavora o che si deve indebitare per mandare avanti la propria attività.
Ci guadagna, ancora una volta, la parte del Paese che vive di rendite a lungo termine. I trader di breve termine, infine, guadagnano e perdono a seconda delle loro mosse. Lo spread incide direttamente sulla pelle dei meno abbienti che allo Stato delle cose attuali pagano interessi superiori quando sono costretti a chiedere prestiti.
In altre parole il soggetto indebitato si impoverisce ulteriormente senza che la crescita economica lo possa aiutare a pagare più velocemente i suoi debiti.
L’allargamento dello spread in una cornice di stagnazione economica non fa altro che acuire le diseguaglianze di ricchezza tra gli individui, tra le classi e tra le generazioni.
Poi ci cono le banche che, in questo scenario, sono l’anello di congiunzione tra l’allargamento dello spread e il danno subito dai soggetti indebitati o che devono accedere al credito bancario. Prestano a tassi più alti o addirittura sospendono l’erogazione dei prestiti nel momento in cui esse stesse hanno difficoltà a finanziarsi sul mercato. Inoltre lo spread alto rende meno competitive le banche domestiche, che subiscono per prime l’aggravarsi del rischio sul Paese.
Ricadute sociali, dunque, oltre a quelle finanziarie… Ma lo spread ha anche delle ricadute politiche?
Sì, è una vera e propria sorta di equalizzatore politico: le fluttuazioni sono strumentali a quella alternanza infinita tra governi populisti e governi tecnocratici senza nessuna possibilità di un terza via. “Tertium non datur”, come si dice.
Il sistema capitalistico italiano si nutre di questa alternanza in modo esemplare: i governi che condonano, cioè che sanano l’evasione fiscale pregressa, sono sempre succeduti da governi tecnici (non politici) che scaricano sulla collettività i danni dell’evasione precedente, erogando aiuti occulti o espliciti alla classe imprenditoriale.
La politica vive di questa alternanza in modo spudorato: la tecnocrazia crea consensi per il populismo che a sua volta le cede il passo quando il suo compito sanatorio di restituzione ai più abbienti si esaurisce.
E così una parte della popolazione non paga mai il costo di queste oscillazioni, mente l’altra parte è destinata a saldarlo sempre e senza soluzione di continuità. L’impoverimento costante, inesorabile della classe media degli ultimi trent’anni è avvenuto ininterrottamente dentro la cornice di queste oscillazioni.
Le crisi finanziare sono l’orologio politico del Paese: dettano i tempi e le condizioni di questa alternanza.
È evidente allora che l’attuale governo sta ponendo le basi di un ritorno tecnocratico, che può benissimo arrivare con gli stessi protagonisti normalizzati. Pertanto una convergenza tra sovranisti e mercati non è affatto da escludere a priori, anche se molto difficile da immaginare.
Difficile perché il tecnocrate serve al populista da capro espiatorio contro cui lanciare gli strali dello scontento generale.
Alla fine è una grande commedia in cui ognuno ha un ruolo predefinito da recitare, inconsapevolmente, alla perfezione.
Ma per un trader quale sarebbe lo scenario migliore?
Senza dubbio lo è già questa alternanza. Il mercato ciclicamente va sotto pressione e quando risale ci sono sempre opportunità di profitti. Quello che non mi auguro, da trader, è un collasso del sistema che porterebbe alla chiusura totale del mercato.
Vede, l’Italia da anni è un mercato molto redditizio per i trader, grazie alla sua altissima volatilità.
All’inizio dei ’90, con la svalutazione della lira e i primi approcci alla moneta unica, l’Italia è sempre stata un bacino d’estrazione gigantesco per la finanza, così come durante la crisi del 2011 e l’introduzione del quantitative easing.
Deleuze e Guattari, i due filosofi, parlavano dei concetti di “deterritorializzazione” e “ri-territorializzazione” nei loro scritti. Ecco, nei mercati è ciò che avviene regolarmente: si creano delle vie di fuga dal percorso predefinito, se ne testano i limiti, e infine si torna sulla via maestra con un piglio solo apparentemente nuovo.
Il trader davvero in gamba è quello che individua le vie di fuga, ne prevede i limiti e investe e disinveste di conseguenza.
E per fare questo gioco, l’Italia è un mercato quasi perfetto, perché vive di un continuo ribilanciamento. Quindi il vero trucco è non far saltare mai il banco, mai.
Tutto chiaro, Livraghi.  Prima di lasciarci, può azzardare qualche ipotesi sugli scenari futuri?
Per come la vedo io, un ritorno alla pseudo-normalità in tempi medi. I limiti non li abbiamo ancora testati.


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