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RECENSIONE


gio 29 aprile 2021

RICONOSCERE IL DOMINIO, RIPRENDERSI LA VITA

“Dominio”, l’ultimo libro di Marco D’Eramo, racconta di come la nuova guerra di classe – quella dichiarata dai ricchi contro i poveri, e vinta dai ricchi contro i poveri – sia stata una guerra combattuta sul piano dell’ideologia, volta a imporre la ragione neoliberale sul mondo e nella mente di ognuno di noi, lasciandoci credere all’impossibilità di un’alternativa.

Quello che dobbiamo fare, se vogliamo riprenderci una minima parte di quello che i padroni ci hanno tolto in questi anni, è comprendere come e perché siamo stati noi a darglielo. E come siamo stati pure contenti di farlo, regalando loro diritti e tutele faticosamente conquistate nel passato.

Simili agli indigeni che salutavano lo sbarco dell’uomo bianco come epifania della divinità, e a lui offrivano i migliori doni e frutti della propria terra, prima di farsela espropriare e di farsi trucidare, così noi, esseri liberi del mondo occidentale, da quando il capitalismo estrattivo ha cominciato a ricavare valore da sentimenti, emozioni e desideri, diventate lavoro tout court, abbiamo offerto noi stessi in sacrificio alle divinità neoliberali.

Ma come è potuto succedere tutto questo? «Una spiegazione», scrive Marco D’Eramo, «ce la fornisce Wendy Brown. Detta brutalmente: la vittoria della controffensiva ideologica dell’ultimo mezzo secolo, della counter-intellighentsia, non ha privatizzato solo ferrovie, scuole, sanità, eserciti, polizia, autostrade, ma ci ha privatizzato il cervello».

Di questo si occupa Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi (Feltrinelli 2020), il nuovo libro di D’Eramo, giornalista, già laureato in fisica teorica e autore di due opere-culto come Il maiale e il grattacielo (1995) e Il selfie del mondo (2017). Si occupa di come la nuova guerra di classe, quella dichiarata dai ricchi contro i poveri, e vinta dai ricchi contro i poveri (copyright di Warren Buffet, una delle persone più ricche del pianeta) sia stata una guerra combattuta sul piano dell’ideologia.

Non servono le armi da fuoco, se possiedi un armamentario ancora più letale: le idee. Non serve colonizzare gli spazi pubblici e privati, in cui si esercita il potere, quando sei già riuscito a colonizzare lo spazio più importante: il cervello, appunto, dove si esercita il dominio.

Partendo dai lavori di Louis Althusser e Pierre Bourdieu sull’ideologia, ovvero sul potere coercitivo del discorso dominante, l’arma più potente in mano ai padroni, ben oltre i droni o le bombe nucleari, D’Eramo scrive un’approfondita genealogia del dominio che deve molto a Michel Foucault ma da cui si distacca in maniera netta. Lo fa storicamente, dando per avvenuto il passaggio dalla società della disciplina alla società del controllo, come già aveva fatto Gilles Deleuze, e soprattutto lo fa affrontando la questione dell’impero, e quindi del dominio fuori dal potere.

Per questo, come già aveva fatto Toni Negri, D’Eramo guarda all’Impero Romano e al suo ordinamento giuridico. Per osservare come il paradigma della modernità sia mutato quando il diritto pubblico è stato sostituito con il diritto privato, nelle relazioni umane e sociali prima ancora che in quelle mercantili, nella struttura sociale e urbana prima ancora che nei codici e nei manuali. E individuo, merito e concorrenza siano diventate le nuove parole d’ordine della schiavitù contemporanea.

Sulla scia di un altro importante volume che indaga la radice delle diseguaglianze come La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista di Pierre Dardot e Christian Laval (DeriveApprodi 2013), D’Eramo scrive:
Ma come è avvenuto questo capovolgimento totale? (la guerra di classe dichiarata e vinta dall’alto, ndr.) Noi tendiamo ad attribuirlo a megatrends, alla globalizzazione, alla nuova rivoluzione industriale dei computer, a fenomeni oggettivi e statistici, alle lunghe durate, anche perché quest’interpretazione consola quanto di marxista c’è ancora in noi. Invece il fatto è che una guerra è stata combattuta. Se non ce ne siamo resi conto, è perché nell’opinione cosiddetta progressista prevale la tendenza a sottostimare gli avversari, a rubricarne le vittorie sotto le voci “mal di pancia”, “esasperazione”, “risentimento”, “ignoranza”, non accorgendosi così delle tendenze di lungo periodo, come se i singoli successi della destra fossero alberi che ci nascondono la foresta.

Questo è il dominio, ed è diverso dal potere, scrive l’autore, in quanto in ogni lingua il dominio prevede il participio passato del dominato, del suddito quindi, dell’impero, che non necessariamente appartiene al potere, il cui significato è sempre quello delle possibilità, non necessariamente del suo esercizio. Mentre il mondo in cui viviamo noi è quello in cui è il dominio, ancora più che il potere, a essere esercitato in ogni singolo istante, pervadendo ogni nostro desiderio e bisogno.
Lo spiega bene Francesca Coin, nella sua recensione su Jacobin quando scrive che quella del dominio «è la storia degli ultimi cinquant’anni, in cui la vita sociale si è trasformata gradualmente in una macelleria, la stessa che abbiamo visto dipanarsi in questi mesi di pandemia, uno spettacolo della morte che si dispiega dallo smantellamento della sanità, dall’assenza di tutele per i lavoratori, dall’aumento di persone sulla strada, da un’idea legittima di sacrificabilità che non annerva più l’indignazione».

E allora come ci siamo arrivati a questo punto? Come hanno fatto a fotterci in questo modo? A costringerci a valutare se è meglio lasciar morire migliaia di anziani o proteggere il debito pubblico? A considerare sacrificabile la vita dei nostri amici e familiari in nome del pareggio di bilancio da rispettare?

La genealogia del dominio proposta da D’Eramo trova le sue fondamenta nel pensiero neoliberale, quello dei Von Hayek, e la sua messa a terra nel lavoro delle fondazioni americane: i famosi think tank. Con dovizia di esempi e documenti l’autore ci racconta come questi miliardari, spaventati dalle libertà che passo dopo passo, centimetro dopo centimetro, erano conquistate dalle donne, dai lavoratori, dalle minoranze etniche e di genere, abbiano messo in campo una controffensiva ideologica di tipo militare: in cui la counter-insurgency combattuta con le armi nei territori coloniali si trasformava in una counter-intellighentsia da combattere in casa.

Prima cosa: andavano occupate le università, i mass media, l’editoria, il mondo dell’arte, i luoghi di produzione e di dibattito culturale. Comprando tutto, ça va sans dire. Ecco allora che scuole, college, fondazioni, circoli, giornali, televisioni, tutto quello che pensavamo portasse dibattito e spirito critico, sono stati progressivamente acquistati, prodotti e infine egemonizzati dalla ragione neoliberale. Dal dominio. A partire dalle facoltà di legge, con il diritto che, come anticipato da Dardot e Laval, diventa per il pensiero neoliberale il campo di battaglia decisivo, in grado di influenzare tutti gli altri.

Ribaltare l’impeto del nemico a proprio vantaggio, studiare i grandi classici del pensiero rivoluzionario e libertario per piegarli ai propri interessi, questo è avvenuto. «Come un vero e proprio bolscevico i grandi capitalisti d’oltreatlantico affermavano senza esitazioni e con ogni mezzo necessario il loro “punto di vista di parte” come unico e indiscutibile “interesse generale”» scrive Marco Bascetta su «il manifesto».

Tra gli altri numerosi terreni di conflitto esposti nel libro, c’è quello del debito, cui sono dedicati ben due capitoli. Il debito come motore immobile e necessario del capitalismo, che «diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria», scriveva già Karl Marx in Das Kapital. Il debito come “strumento di controllo”, come scriveva il compianto David Graeber. E il debito – in particolare quello degli studenti, il famigerato student loan per potere accedere all’istruzione superiore – come strumento di costruzione della personalità dell’individuo.

Perché, scrive D’Eramo citando Maurizio Lazzarato: «il debito è la tecnica più adeguata per produrre l’homo oeconomicus neoliberale. Non solo lo studente considera se stesso un capitale umano che egli deve valorizzare per i suoi propri investimenti (i debiti che contrae per studiare), ma inoltre si sente obbligato ad agire, a pensare, a comportarsi come se fosse un’impresa individuale. Il debito impone a persone che non sono neanche entrate nel mercato del lavoro un addestramento ai comportamenti, alle regole di contabilità, ai principi di organizzazione di solito messi in atto in seno alle imprese».

L’ultima parte si concentra sull’urgenza di rovesciare questo dominio, di demolire il mantra thatcheriano secondo cui alla ragione liberale “there is no alternative”. Ovvero prendere coscienza di quello che Mark Fisher definisce “realismo capitalista”, e immaginare i modi di rovesciare i rapporti di forza. Anzitutto studiandoli ed esponendoli, questi rapporti di forza, come fa l’autore di Dominio.

Scrive Francesco Pacifico su Il Tascabile: «D’Eramo non ci dà solo le parole d’ordine a cui siamo assuefatti, ma tanti appigli storici e narrativi cui ancorare la rabbia e la voglia di cambiamento. Non predica, ma avvince con il suo romanzo realista fatto di archivi e libri fuori catalogo. Da quella polvere fa riemergere l’avventura dei vincitori per far tornare la voglia di avventura agli sconfitti. […] Onorando l’intelligenza dell’avversario – detesta l’atteggiamento di sinistra di trattare sempre gli avversari come degli stupidi – ne sfrutta la forza e la fa sua».

Riprenderci una minima parte di quello che ci è stato tolto in questi anni, vuole dire anche e soprattutto riappropriarci dei nostri manuali di guerriglia culturale e ideologica, dei nostri pensieri sulla libertà ed emancipazione collettiva. Idee colpevolmente abbandonate, saccheggiate dai padroni, che hanno saputo studiarle meglio e tradurle in armamentario per la loro egemonia.
Riconoscere la struttura del dominio, individuarne la genealogia, studiarne la disposizione in campo, e sferrare il contrattacco. Per non essere più participi passati – i dominati – ma agenti del tempo presente.
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