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lun 10 dicembre 2018

PARIGI: “STA PRECIPITANDO TUTTO”

Succede a Parigi, ancora una volta dopo la prima sortita del 17 novembre: i “gilet gialli” hanno invaso le strade per manifestare contro gli aumenti delle accise sul carburante stabiliti dal governo Macron. Proteste dure e repressione altrettanto feroce. È il sintomo di un collasso sistemico in cui crisi economica e miopia politica si alternano senza soluzione di continuità. Sintomo che ben intercettava il romanzo dei “Diavoli” (Rizzoli, 2014), ormai quattro anni fa, quando il protagonista Massimo, trader dell’alta finanza, fissando le immagini di un’insurrezione che si scatenava proprio nella capitale francese, le constatava con una sentenza tanto amara quanto fatale, rivolta al mondo e a sé stesso: “sta precipitando tutto”.

Succede a Parigi, ancora una volta dopo la prima sortita del 17 novembre: i “gilet gialli” hanno invaso le strade per manifestare contro gli aumenti delle accise sul carburante stabiliti dal governo Macron. Proteste dure e repressione altrettanto feroce. Ma al di là delle riflessioni dovute intorno alle contraddizioni e sorti di questo “movimento”, il dato tangibile riguarda il sintomo di un collasso sistemico in cui crisi economica e miopia politica si alternano senza soluzione di continuità. Sintomo che ben intercettava il romanzo dei Diavoli (Rizzoli, 2014), ormai quattro anni fa, quando nel sedicesimo capitolo – intitolato “Fare e disfare” – il protagonista Massimo, trader dell’alta finanza, fissava le immagini di un’insurrezione dilagata in tutta Europa e il cui culmine emblematico si scatenava proprio nella capitale francese, e le constatava con una sentenza tanto amara quanto fatale, rivolta al mondo e a sé stesso: “sta precipitando tutto”. Di seguito pubblichiamo l’estratto dal libro.
Il corteo sfila lento. È una marea umana che occupa l’intero fronte del boulevard. La Colonne de Juillet di Place de la Bastille sovrasta l’imponente manifestazione. In cima al monumento, l’angelo color oro contrasta con le basse nuvole autunnali. Le Génie de la Liberté su un piede solo regge la fiaccola della civiltà, sbeffeggiando uomini e donne che in basso sventolano bandiere e agitano cartelli.
Il sarcasmo della Storia, pensa Massimo mentre fissa le immagini che scorrono nel rettangolo del televisore.
I cori saturano l’aria insieme alle percussioni di tamburi. Scandite da migliaia di voci, rimbombano tre parole che compongono un mantra ossessivo. «Cosa dicono, papà?» gli domanda Roberto. On lâche rien. «Non mollare.» Il ragazzo si protende in avanti sul bordo del divano. «E che vuol dire?» «Che non vogliono smettere.» Roberto annuisce, sforzandosi di comprendere quelle parole. «E perché?» chiede però un attimo dopo.
Massimo esita prima di rispondere. «Perché vivono male» mormora lentamente, attento a scegliere le parole giuste.
Il ragazzo vorrebbe chiedere altro, è evidente dall’espressione perplessa del suo viso, ma le immagini del telegiornale vincono la curiosità. On lâche rien. Una delle tante parole d’ordine che da mesi volavano di bocca in bocca, propagando l’incendio. ¡Que se vayan todos! Youths of Europe rise up! Noi la crisi non la paghiamo!
Il continente stava bruciando. La babele, unita per la prima volta quando era ormai troppo tardi, sfogava la sua rabbia in una sola lingua: quella della rivolta.
Massimo si concentra sui volti. Espressioni di sfida. Occhi duri. Bocche distorte da urla che si levano alte. Sono uomini, donne, ragazzi. Poi, all’improvviso, i Neri escono dal corteo. «Guarda!» esclama Roby. Tiene il braccio dritto e lo stupore gli incrina la voce.
Sì, sta guardando, Massimo. Gli occhi incollati allo schermo, catturati dal prologo di una scena di cui conosce già l’epilogo.
Al bordo dell’inquadratura ha notato le vetrine di una filiale della Société Marseillaise de Crédit. Sono in cinque, tutti smilzi, tutti vestiti di scuro: felpe e giacche a vento col cappuccio alzato, passamontagna. Hanno i caschi allacciati alle cinture con dei grossi moschettoni. Al collo maschere antigas, ai piedi anfibi o scarpe da cantiere. Tra le dita mezzi manici di piccone, bastoni e sampietrini.
Si muovono lenti, decisi. Assomigliano a spettri. Massimo ricorda l’intervista che ha letto qualche tempo prima su un quotidiano. Era la testimonianza di un casseur che aveva partecipato a una manifestazione nelle strade di Roma, culminata – come ormai accadeva con regolarità – in devastazioni e scontri violentissimi.
«Parli come fossi in guerra» aveva osservato il cronista. «Sono in guerra, ma non l’ho dichiarata io. L’hanno dichiarata loro» era stata la risposta. Guerra. Loro.
Aveva chiuso il giornale e il passato gli aveva sommerso il cuore come l’alta marea. Ora stava accadendo di nuovo. Scuote la testa e torna a fissare la scena. Tre casseur hanno puntato le vetrine della banca. Iniziano a colpirla con ogni arma a loro disposizione. Gli altri due raggiungono un segnale stradale. Una manciata di secondi dopo cominciano a scuoterlo con violenza per divellerlo. Nessuna traccia dei CRS: i reparti mobili della celere francese sembrano svaniti.
«Allez!» L’urlo precede il fragore del cristallo in frantumi. Il cartello rosso e bianco è posato sull’asfalto. Il palo conficcato in una vetrina accanto a quella appena disintegrata. Intorno al foro si irradia una tela di crepe. La scena è un coacervo di geometrie sghembe: la verticalità del segnale stradale è ribaltata. Il divieto di transito divenuto arma per infrangere, per aprire un varco.
Il capovolgimento dell’ordine. C’era stato un tempo in cui quell’immagine gli avrebbe procurato un moto di repulsione, un disgusto quasi fisico derivante dal caos. Ora non prova nulla.
Sul muro accanto alla banca, uno dei Neri sta componendo l’ennesima scritta con uno spray rosso: “Fuck the bank. Take back time. No capitalism. Acab”. Poi un fumo denso si leva dall’interno del locale. Sull’asfalto piovono i trofei del saccheggio: monitor di computer, risme di fogli, dépliant pubblicitari, alcune poltroncine fissate a una barra di ferro.
I Neri hanno i volti coperti, nel giro di qualche minuto scompariranno nel ventre della manifestazione. Qualcuno accenderà dei fumogeni per confondere le telecamere. Al riparo della fitta cortina colorata, si cambieranno rapidamente d’abito, infileranno felpe e cappucci negli zaini e torneranno a essere quello che erano prima di coprirsi i volti.
“Trent’anni, una laurea, un master e un lavoro precario per quattrocento euro al mese” aveva scritto il cronista presentando un anonimo interlocutore. Eccoli, i figli della classe media fatta a pezzi.
Ecco come, senza alcuna prospettiva di cambiamento, riescono a trasformarsi in guerriglieri, a vedere solo l’eterno presente della distruzione. E riappariranno ancora, davanti alla prossima banca, nel prossimo corteo. Se Massimo avesse dovuto scegliere il periodo della rottura del patto tra generazioni, non avrebbe avuto dubbi.
È questo. Vecchi contro giovani senza domani. Padri contro figli. Passato contro presente. E il futuro come un’ipoteca, ormai scoperta, sottoscritta da chi è venuto prima. Il servizio s’interrompe. Massimo si allunga sul divano mentre la linea torna in studio e lo speaker del telegiornale inizia a leggere la notizia.
«L’Europa scende nuovamente in piazza contro le politiche di rigore dei governi e della Trojka in una giornata segnata da mobilitazioni in molte città e dallo sciopero generale in Francia, Spagna e Italia, fra i Paesi più colpiti dalla crisi.
Picchetti di manifestanti hanno occupato i punti nevralgici di Parigi. Aeroporti, stazioni, depositi di mezzi per il trasporto urbano, mercati generali sono stati presidiati fin dalle prime ore della giornata.
Nel corso del corteo che ha attraversato le strade della capitale si sono registrati scontri pesantissimi. Il bilancio è di duecento feriti tra manifestanti e forze dell’ordine, sessantacinque fermi e ventisette arrestati.
La situazione è ora sotto controllo. In una nota ufficiale, il Ministero dell’Interno ha dichiarato che non tollererà ulteriori manifestazioni di violenza…»
Massimo spegne la tv e si alza sospirando. Sta precipitando tutto.

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