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lun 27 maggio 2019

LA LIBRERIA COME QUADRATO SEMIOTICO. DUE DIAPOSITIVE

È mezzanotte e non sono ancora usciti i risultati elettorali, siamo solo agli exit poll, alle prime indicazioni di voto, agli opinionisti televisivi che pontificano sul nulla, come facevano fino al giorno prima e continueranno a fare fino alle prossime elezioni. Ma due diapositive, già raccontano tutto.

«La libreria come quadrato semiotico. Due diapositive» scrive su Twitter la giornalista dell’«Espresso» Francesca Mannocchi, postando un’emblematica doppia immagine.
È mezzanotte. Non sono ancora usciti i risultati, siamo agli exit poll, alle prime indicazioni di voto, agli opinionisti televisivi che pontificano sul nulla, come facevano fino al giorno prima e continueranno a fare fino alle prossime elezioni. E le due diapositive già raccontano tutto.
O meglio, come scrive Mannocchi, non è il primo piano a parlarci.
Non sono il corpo strabordante e il sorriso goffo e tirato di Matteo Salvini, il cartello da ricevitoria paesana ad annunciare che lì, proprio lì, hanno venduto un gratta e vinci da mille euro o un biglietto della lotteria da diecimila, su cui è scritto con grafia infantile «1° partito in Italia, grazie».
E neppure i corpi eterei e sfocati di Paolo Gentiloni e Nicola Zingaretti che se la ridono, come se il primo avesse finalmente capito una barzelletta che gli hanno raccontato il mese scorso e il secondo applauda l’amico per l’acume dimostrato.
Non è il primo piano a parlarci, è lo sfondo a impadronirsi della narrazione. Sembra un film di Michelangelo Antonioni.
Il soggetto sono le due librerie alle spalle di questi maschi bianchi sorridenti e alienati nella notte elettorale. E nemmeno a farlo apposta rappresentano le due diverse declinazioni delle mitologie.
Il mito come presenza per Salvini, in quella libreria che sembra un mercatino delle anticaglie e deborda di una quantità insostenibile di cianfrusaglie, le «idee senza parole» (Furio Jesi) che fanno presa sulle maggioranze silenziose.
Il mito come assenza per Zingaretti, in quegli scaffali desolatamente sgombri che rappresentano il vuoto pneumatico in cui si è persa l’opposizione, «l’assenza sensibile» (Roland Barthes) che annulla le differenze per non scontentare nessuno.
Nel mercatino delle anticaglie di Matteo Salvini abbiamo Franco Baresi e Vladimir Putin, il Tapiro d’oro di Striscia la Notizia e un Cristo ortodosso, il cappellino con lo slogan trumpiano “Make America Great Again”, le ampolle con l’acqua del Po e un gufo di ceramica con la dedica per le elezioni dello scorso 4 marzo.
A guardare bene si trova anche La crociata di Himmler, un libro sulla spedizione nazista in Tibet alla fine degli anni ‘30 per trovare le radici della razza ariana, ma il (terribile) significato politico del tomo è presto diluito dalla presenza di un libro di immagini sulle “Leggende” del Milan e ribaltato dall’ultima fatica della giornalista “di sinistra” Lilli Gruber.
Salvini è un contenitore senza fondo, come dimostrano i suoi centinaia di post sui social mentre fagocita qualsiasi tipo di cibo a qualsiasi ora del giorno e della notte come in un film dei Monty Phyton. Le sue mitologie sono le nostre, che ci piaccia o meno, vengono dalla televisione e dalla pubblicità, ci inondano ogni giorno e ci definiscono come abitanti della nostra epoca.
Dall’altra parte nella sala riunioni del PD, fotografata male, sfocata, con le diverse sfumature di marrone come colore dominante e significante supremo, manca tutto. Non c’è nulla. Nemmeno un libro. E neppure un’enciclopedia, un peluche, una bottiglia di vino, un modellino della Ferrari. Una foto santino di Enrico Berlinguer o di Aldo Moro, una mortadella di Prodi, una gioiosa macchina da guerra di Occhetto, un paio di baffi di D’Alema.
Non c’è nulla. Solo l’assenza, il grande nulla dell’inconscio lacaniano che ci ricorda che noi (e loro, soprattutto) siamo effimeri e di passaggio su questa terra. Quasi che Zingaretti e Gentiloni volessero rassicurare i loro elettori che domani non ci saranno.
A furia di stilizzare il simbolo, di rimpicciolirlo, di nascondere radici e appartenenze, il partito dell’opposizione inerme e silenziosa ha deciso di seguire alla lettera le indicazioni della deputata Alessandra Moretti, che voleva coprire con una tendina i simboli religiosi dei cimiteri, per presentarsi esso stesso come un camposanto. Un luogo di riposo eterno.
Espulsi i corpi dalle due diapositive, e dalla campagna elettorale, l’elettore ha davanti a sé due strade: essere fagocitato dalla voracità spettacolare della prima libreria, dissolversi nel vuoto pneumatico della seconda.
In entrambi i casi, dopo avere svolto il suo compito, messo il segno sul simbolo a lui più vicino o meno lontano, è destinato a scomparire. Non c’è altra possibilità. La politica è altrove, forse a Strasburgo, forse no.
Nel quadro semiotico, le due diapositive raccontano la stessa cosa: la scomparsa dell’elettore. La sparizione di un Paese di votanti all’indomani delle elezioni, come in un libro di Saramago, Il saggio sulla lucidità. L’eclisse della polis e della politica, come in un film di Antonioni.
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