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lun 8 giugno 2020

L’ETÀ DELL’OIKOCRAZIA. INTERVISTA A FABIO ARMAO

Come in un’inquietante fusione tra i romanzi di Orwell e Huxley, stiamo per entrare in un nuovo totalitarismo: l’età dell’oikocrazia, neologismo che descrive l’ascesa del clan in quanto struttura sociale di maggior successo dell’epoca globale – non più solo in ambito criminale ma anche nella politica, nell’economia e persino nella società civile. Ce lo racconta Fabio Armao, che abbiamo incontrato di nuovo in occasione dell’uscita del suo ultimo libro.

In un’intervista di due anni fa, Fabio Armao, docente di Relazioni internazionali a Torino e uno dei massimi esperti italiani di criminalità organizzata, ci raccontava della crisi di legalità che investe l’Italia e del ruolo sistemico che ormai esercitano le mafie all’interno del capitalismo globale.

Lo abbiamo incontrato di nuovo in occasione dell’uscita del suo libro L’età dell’oikocrazia (Meltemi, 2020). Con questo neologismo Armao indica l’ascesa del clan come struttura sociale di maggior successo dell’epoca globale, non più solo in ambito criminale ma anche nella politica, nell’economia e persino nella società civile. La rete mondiale dei clan sta dando vita a una nuova forma di governo in cui si annidano i germi di un vero e proprio totalitarismo neoliberale.


Professor Armao, il suo libro inizia ripercorrendo ciò che succede nel mondo in “una giornata qualunque”. Dai morti della narcoguerra messicana agli scontri etnici in Nigeria, dalle stragi di civili in Siria al genocidio dei Rohingya in Myanmar, dalla recrudescenza del regime di Erdogan in Turchia all’unilateralismo dissennato di Trump, fino a un’Europa malata di populismo che lascia alla deriva migliaia di disperati nel Mediterraneo: l’impressione è che ormai da anni l’umanità sia piombata nel caos. Eppure lei rifiuta la chiave, così in voga, del “disordine globale”…

L’espressione “disordine globale” non spiega nulla. Peggio: è autoassolutoria, perché attribuisce al caso eventi che invece hanno cause precise, funzionali a specifici obiettivi. E che sono riconducibili alle scelte, altrettanto precise, di alcune élite politiche ed economiche.

Dopo la fine della Guerra fredda (e su stimolo dei Paesi maggiormente sviluppati), ha iniziato a prendere forma un sistema mondiale che ormai non è più riassumibile nella formula generica del trionfo del libero mercato, e tantomeno nel concetto passepartout di globalizzazione. Nel libro la descrivo come una rete, una sorta di trasposizione reale e quotidiana di Internet. Una trama di relazioni politiche, economiche e sociali i cui protagonisti non sono più soltanto gli Stati o i loro governi, ma gruppi a base clanica. Per questo parlo di “oikocrazia”: l’oikos rappresenta la famiglia e il clan e, non a caso, è anche la radice della parola “economia”.


In L’età dell’oikocrazia sostiene che la logica del clan non si limita alle mafie, alle gang giovanili, ai signori della guerra e al terrorismo, ma si estende fino alle alte sfere della politica, della finanza e delle grandi multinazionali. Che cosa accomuna soggetti così diversi tra loro?

Pensavamo che il clan fosse scomparso, sconfitto dall’affermazione dello Stato moderno, dalla crescita del capitalismo e dalla loro “santa alleanza”. Invece è rimasto sotto traccia, per poi riemergere da protagonista, e non solo in ambito criminale. Oggi ciò che accomuna i diversi tipi di clan è la capacità di concentrare nelle proprie mani risorse e “poteri” di varia natura, che vengono messi a disposizione esclusivamente dei propri membri. I clan hanno leader carismatici e costruiscono reti di seguaci che rispondono a regole spesso non scritte, ma efficaci al punto da garantire un controllo sociale. La loro vera forza sta nel saper operare sia a livello locale – sul territorio (in particolare le città) –, sia al livello globale della “grande politica” e, soprattutto, della “grande economia”.

Pensiamo alle cosiddette corporation e alle grandi banche d’affari: hanno budget a volte persino superiori a quelli di alcuni Stati. I loro top manager costituiscono un’élite clanica composta da individui retribuiti al di sopra di qualunque limite di decenza, che si conoscono tra di loro e non di rado si scambiano le posizioni nei diversi consigli di amministrazione; cittadini del mondo che frequentano a ogni latitudine gli stessi alberghi e gli stessi ristoranti.

Qualche giorno fa «la Repubblica» ha pubblicato un articolo intitolato “I signori del denaro”. Quasi due terzi degli investimenti globali nelle mani dell’1% dei gestori. E la concentrazione si è accentuata nei mesi della pandemia. Nel testo si specificava che si tratta di cinque gruppi. Non 500 e neppure 50, ma 5: BlackRock, Vanguard, UBS, State Street, Fidelity, tutti identificati con i nomi dei rispettivi fondatori o amministratori delegati. Non è un “complotto delle multinazionali”, è che il mondo globalizzato tende ormai a organizzarsi secondo logiche di tipo clanico.


Sul piano politico, invece, nel libro lei parla dell’Italia come di un caso paradigmatico di oikocrazia, al pari del Messico delle narco-guerre.

Italia e Messico rappresentano due diversi casi paradigmatici di oikocrazia, due modelli involutivi della democrazia che hanno visto crescere in maniera inarrestabile i profitti della criminalità organizzata. Sono i due estremi del “neoliberalismo criminale”. Da un lato abbiamo l’Italia, una democrazia a partecipazione mafiosa di tipo consociativo, che preferisce l’intimidazione alla violenza esplicita. Le mafie sono riuscite a riempire i vuoti dovuti alla crisi dei vecchi partiti: sono andate alla conquista del Centro e Nord Italia e sono diventate protagoniste di un nuovo, capillare, sistema clientelare. Dall’altro lato c’è il Messico, una democrazia a partecipazione mafiosa di tipo centrifugo, in cui la conflittualità tra i gruppi criminali è elevatissima e si accompagna di conseguenza a scontri armati molto più frequenti (ricordo che in Messico, nel 2019, si sono contati 35.588 morti nella guerra ai e tra i narcos).

Ma possiamo parlare di oikocrazia anche a proposito della Russia di Putin, dove negli anni ‘90 la rapida privatizzazione delle cospicue risorse del Paese ha scatenato una guerra tra bande che ha messo i migliori asset economici nelle mani dei cosiddetti oligarchi e dei loro clan. O della Cina, in cui già dalla metà degli anni ‘80 si assiste a un revival dei clan patriarcali soppressi in epoca maoista, i cui leader finiscono con l’integrarsi con i quadri del Partito.

E ritroviamo una sintesi ben rappresentativa dell’oikocrazia anche nella massima potenza e democrazia, cioè negli Stati Uniti dell’amministrazione Trump, in cui la gestione clanica del potere e il macro conflitto di interessi politico-economico-familistici che ne deriva fanno apparire il nostro vecchio Berlusconi un dilettante allo sbaraglio.


Si può affermare che i clan prosperano perché hanno riempito il vuoto lasciato dalla politica, che dall’89 in poi ha sostanzialmente deciso di ritirarsi in favore di un mercato ritenuto in grado di “autoregolarsi”?

Forse è più corretto dire che i clan prosperano perché consentono una diversa e più efficace dinamica tra politica e mercato. L’accelerazione prodotta dalla globalizzazione innesca un vortice di interazioni reciproche che coinvolge tutte le dimensioni: politica, economia e società civile. Le “correnti” così generate si scontrano, si mischiano, si propagano e si disperdono a seconda dei momenti, creando forme di aggregazione sempre nuove, e sempre capaci di rispondere alle esigenze di riorganizzazione del capitalismo globale dettate dal neoliberalismo.


Lei parla a questo proposito di “totalitarismo neoliberale”, arrivando a evocare le distopie di Orwell e Huxley e a tracciare un parallelo con l’immagine del Behemoth, la “bestia delle bestie” con cui fu iconicamente rappresentato il regime nazista. Questa visione ci ha sorpreso, per gli immaginari cupi a cui rimanda ma anche perché include regimi politici assai diversi come le democrazie atlantiche, il capitalismo accentrato cinese, gli Stati falliti africani.

È così. L’oikocrazia è un modello universale, trasversale alle tradizionali declinazioni della politica, dalla democrazia all’autoritarismo: semmai, di questi regimi tende a emulare le forme. Il nuovo mostro totalitario si manifesta allo stesso tempo in moltissimi luoghi differenti. Sgorga dal basso, dal territorio, generato da una logica di mercato, da una domanda ormai fuori controllo di denaro, indispensabile alla sopravvivenza stessa del capitalismo finanziario.

Poi si evolve costruendo reti transnazionali di oikocrazie che, diversamente dai totalitarismi del passato, non hanno bisogno di complessi apparati di propaganda e di sofisticate ideologie centrate sulla supremazia di una nazione o su una particolare dottrina politica. Sanno avvantaggiarsi dei moderni social media, che consentono di raggiungere e mobilitare “porzioni di masse” a chiunque: al politico populista, al leader di un gruppo terroristico o a un boss del narcotraffico. Il rischio è che questi “grumi” totalitari si aggreghino fino a formare, appunto, un nuovo Behemoth.


Nei paesi meno sviluppati, l’oikocrazia produce violenza. Dobbiamo temere che la violenza possa tornare a giocare un ruolo fondamentale anche nelle società occidentali?

Occorre fare tutti gli scongiuri possibili, visto l’acuirsi del conflitto Usa-Cina di questi ultimi tempi. Ma oggi l’uso della violenza, caratteristica imprescindibile di ogni totalitarismo, non prevede più lo scontro diretto e massiccio tra eserciti delle grandi potenze, ma piuttosto una proliferazione di conflitti interni agli stati combattuti da signori della guerra, mercenari, terroristi, narcos e mafiosi. L’ho definita una “guerra civile globale permanente”, che si trasforma nella condizione quotidiana di milioni di ignari cittadini nelle periferie del mondo, ma che ha riflessi ovunque a livello globale (basti pensare al fenomeno dei migranti in fuga dalla guerra).

Il mondo occidentale, peraltro, non è del tutto immune da questo tipo di violenza. I quartieri delle nostre città dominati dalle mafie o dalle gang – penso alle “stese” di Napoli o all’aumento esponenziale delle vittime degli scontri tra adolescenti in città come Londra – la vivono già quotidianamente. Oltretutto l’aumento delle diseguaglianze rischia di provocare tensioni e violenze nelle periferie urbane. La cronaca di questi giorni ci rimanda alla realtà delle aggressioni a sfondo razzista da parte della polizia nelle città americane, con l’esplosione di violente proteste in seguito all’uccisione di George Floyd a Minneapolis.


Nel libro sostiene la tesi di una “società auto-immune”: le democrazie occidentali producono da sé gli agenti patogeni che le stanno erodendo (su tutti, il populismo xenofobo). Difficile essere ottimisti sul futuro, ora che è un virus propriamente detto ad averci fatto precipitare in una crisi sanitaria ed economica senza precedenti…

Le nostre società mostrano un’incapacità ormai cronica di riconoscere i propri stessi agenti patogeni, la natura delle crisi che la attraversano, e di conseguenza stentano a trovare soluzioni adeguate alla loro gravità. Per questo parlo di una società autoimmune che alimenta i propri mali invece di debellarli. E la crisi generata da una “vera” pandemia, quella di Covid-19, rischia di accelerare ulteriormente la regressione.

I mezzi di informazione abbondano in questi giorni di metafore motoristiche: “bisogna rimettere in moto” l’economia, “bisogna cambiare marcia”. Dovremmo dire piuttosto che il motore della globalizzazione rischia di imballarsi, perché non è concepito per tenere il minimo. Con un’Harley Davidson si può riprendere in sesta marcia e a soli 1500 giri, senza strappi (e, anzi, esaltandone la “musicalità”); la globalizzazione invece non possiede questa elasticità di coppia, ha le marce corte e va sempre tenuta su di giri. Il mercato finanziario, poi, sembra adottare ancora i carburatori anziché l’iniezione elettronica: basta una difettosa regolazione dell’accesso dell’aria e il motore comincia a “singhiozzare”. E se poi il virus avesse l’effetto dello zucchero nel serbatoio, finendo nei cilindri e provocando il grippaggio del motore?


Eppure, nell’intervista che ci rilasciò due anni fa sosteneva che probabilmente «solo uno shock politico forte e traumatico potrebbe innescare un processo, questa volta virtuoso, di riaggregazione delle masse intorno a nuovi valori e ideali». Forse quello shock è arrivato, e alcuni studiosi stanno cominciando a parlare di de-globalizzazione e di ritorno dello Stato, dopo la pandemia. Che cosa ne pensa?

Lo shock, in effetti, lo stiamo vivendo, più traumatico che mai. E non sappiamo ancora quanto sarà grave la recessione mondiale causata dalla pandemia. La soluzione non può essere la riscoperta dei confini dello Stato, come piacerebbe ai sovranisti. Ma lo Stato può tornare a rivendicare un proprio ruolo, insieme alle altre istituzioni locali e internazionali cui, nel tempo, ha delegato una quota crescente dei propri poteri “manageriali”.

Il presupposto è che accetti di sostituire alle semplici funzioni di comando coercitivo quelle, ben più sofisticate, di governo. Ciò significa innanzitutto investire nella conoscenza: le malattie autoimmuni della società si possono sconfiggere soltanto attraverso la ricerca e l’istruzione, l’investimento nella scuola e nell’università. Ma per mettere la società e i cittadini nelle condizioni di combattere la proliferazione dei clan occorrerà riscoprire la comunità: anteporre il koinón all’oikos. Lo dico quasi provocatoriamente: lo Stato deve riscoprire e lasciare spazio alla città, ripartire dal territorio urbano, investendo nella ricostruzione delle comunità di vicinato.


Fabio Armao insegna Relazioni internazionali al Dipartimento inter-ateneo di “Scienze, progetto e politiche del territorio” a Torino. È stato visiting professor alla Cornell University e consulente dello United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute. Tra le sue pubblicazioni: Il sistema mafia. Dall’economia-mondo al dominio locale (Bollati Boringhieri, 2000); Inside War: Understanding the Evolution of Organised Violence in the Global Era (De Gruyiter, 2015); L’età dell’oikocrazia. Il nuovo totalitarismo globale dei clan (Meltemi, 2020).
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