Decodificare il presente, raccontare il futuro

RECENSIONE


mar 28 luglio 2020

LES MISÉRABLES – NEL PAESE DEI CATTIVI COLTIVATORI

Con il film “Les Misérables” Ladj Ly decostruisce in un colpo solo la spettacolarizzazione – diventata compiaciuta e apolitica – della violenza nel cinema e la narrazione – falsa e strumentale – di una Francia unita e pacificata, sempre pronta ad accogliere e integrare. Nella pellicola asciutta e sferzante di Ly nessuno si salva e tutti sono agenti attivi del disastro, ma forse soltanto attraverso queste miserabili esistenze si scorge un barlume di speranza.

“Non vi sono né cattive erbe né cattivi uomini: vi sono soltanto cattivi coltivatori.”
Victor Hugo, Les Misérables, 1862

La frase appare in chiusura dell’omonimo film, Les Misérables (2019) di Ladj Ly, scritto con Giordano Gederlini e Alexis Manenti, vincitore del Gran Premio della Giuria di Cannes e nella cinquina finale degli Oscar per il miglior film straniero, poi vinto da Parasite (2019) di Bong Joon-ho. Il film è una lucida e spietata microfisica del potere nelle banlieue parigine, un assalto a un tempo devastato e vile attraverso un occhio cinematografico totalizzante e alienante, da cui non è possibile fuggire. Comunque vada a finire, l’unica cosa certa è che non andrà tutto bene: l’arcobaleno è una fottuta illusione ottica.

Ouverture. Un ragazzino nero, avvolto nella bandiera francese, esce da un fetido palazzone di periferia. Incontra gli amici, giovani, maschi, meticci, tutti con una bandiera, un cappellino o la maglia della nazionale. Si mettono in viaggio, tra autobus e treni, per arrivare a Parigi città. Inquadratura davanti alla Torre Eiffel. C’è la finale del Mondiale 2018, in Russia, la Francia vince la Coppa del Mondo. Il ragazzino nero e i suoi amici festeggiano il trionfo patriottico della Repubblica imperiale, dove tutti i suoi sudditi amano il tricolore senza distinzione di classe, sesso, etnia. Inquadratura davanti all’arco di trionfo. Titolo del film.
L’ouverture è un manifesto programmatico. Il regista di origine maliana al suo esordio nel lungometraggio – dopo aver girato vari documentari tra cui 365 jours à Clichy-Montfermeil (2007) – cita apertamente il saggio in apertura delle Mythologies (1957) di Roland Barthes, in cui il semiologo destruttura la copertina della rivista Paris Match su cui appare la foto di un ragazzino nero in divisa militare che saluta la bandiera. Il significante – un ragazzino nero in atteggiamento patriottico – apre a tutta una serie di significati – in primis il mito della grande e magnifica Repubblica inclusiva. Come Barthes, anche Ly usa l’immagine per demolire il mito, scardinarlo dalle fondamenta.

Primo movimento. Dopo i titoli di testa, con la vittoria della nazionale meticcia – già la vittoria ai Mondiali del 1998 con la squadra di Zinedine Zidane che doveva esaltare il meticciato black blanc beur ebbe vita breve, con la rivolta tanto nelle banlieue dimenticate quanto nello stesso spogliatoio di quella nazionale – ecco i protagonisti del film, tre poliziotti della della Bac (Brigade anti-criminalité): Gwada, il nero musulmano; Chris, il bianco razzista; e Stéphane, il nuovo arrivato, il punto di vista, lo sguardo interno al film. Sono gli sbirri di strada di Montfermeil, hinterland parigino, 40 chilometri dalla capitale, dove nel 2005 sono scoppiate feroci sommosse. Dove il regista Ladj Ly è nato e cresciuto e ancora risiede, e per questo è ascoltato («forse proprio perché non sono mai andato via e questo fa la differenza»). Dove Victor Hugo ha ambientato alcune trame del suo capolavoro I miserabili – qui Jean Valjean incontra Cosetta – e dove oggi sorge una scuola a suo nome.

Il primo movimento ci introduce a quella che è la storia del film, ventiquattro ore nella vita di tre poliziotti che con la violenza e i soprusi controllano, gestiscono, compartimentano (à la James Ellroy) dividendo e imperando su una società rotta, sfilacciata, asfissiata, collassata, di miserabili: le famiglie degli alveari brutalisti; le piccole e grandi criminalità che gestiscono gioco d’azzardo, droga e prostituzione; i circensi nomadi; i venditori ambulanti; il sindaco informale del quartiere e la sua scalcagnata e autoproclamata giunta; l’ex jihadista diventato kebabbaro; i Fratelli Musulmani. Le madri abuliche e assenti, i padri reazionari e violenti, ragazzine molestate, ragazzini estraniati. Uno di loro, Issa, lo stesso dell’ouverture, rubando un piccolo leone dal circo dei nomadi darà il via alla storia, rapida, secca, emblematica, quasi iconica, osservata per tutto il tempo dal volo del drone manovrato da Buzz, socio di miseria di Issa. Appaiono i ragazzini, appaiono i poliziotti, è un film: lo spettatore intuisce, lo spettatore sa, come andrà a finire la storia. L’importante allora è come si racconta.

I protagonisti sono i tre luridi sbirri black blanc e beur. Tre pezzi di fango: quello (quasi) buono, quello brutto e quello (davvero) cattivo. Tra le mille citazioni, omaggi, accostamenti e confronti di questa pellicola ibrida che è forse più un documentario che un film, un saggio che un’opera letteraria, a venticinque anni di distanza dalla sua uscita non si può non notare il richiamo a La Haine (1995) di Mathieu Kassovitz, in cui i protagonisti erano, specularmente, tre ragazzi di vita black blanc e beur. Ma in Les Misérables Ladj Ly sembra lanciare una vera e propria sfida personale, culturale e politica – vinta, persa, non importa, non è questo il punto – con l’omologa pellicola di Kassovitz: in cui il ribaltamento della prospettiva dei tre protagonisti, dagli animatori del disordine ai tutori dell’ordine, è solo il più evidente dei richiami.
Ly opera infatti un lavoro di decostruzione – torniamo a Barthes – delle immagini spettacolari di Kassovitz, del videoclip astorico assunto a immagine dominante, del riot porn accumulato fino a diventare capitale, scrivendo da parte sua un testo per immagini in stile prettamente asciutto, antifrastico e, soprattutto, anti-climatico.

La violenza, i soprusi, sono nelle cose, non nei gesti eclatanti. Nella miserabile quotidianità, non negli avvenimenti epocali. Qui si potrebbe aprire un capitolo, e Ly lo fa all’interno del film, sulla spettacolarizzazione della violenza: se negli anni ’70 e ’80 (di Scorsese e De Palma, del cinema di Hong Kong) trovava il suo senso nel rivendicare la rabbia delle strade attraverso il punto più avanzato di sviluppo tecnologico disponibile, già nei ’90 e negli Zero diventa astorica e sensazionalista, impolitica – cosa di cui Ly sembra voler accusare le pellicole di Kassovitz o del nichilista Danny Boyle –, e dagli anni Dieci non è altro che il più alto grado d’involuzione del pastiche.

Non è detto che ci riesca, Ly. Il film risulta a tratti didascalico, telefonato. Il suo voler non essere un film a tesi non raggiunge le vette sublimi del cinema alienante e astratto di Haneke, Jarmusch e Kaurismaki, ma rischia di farsi a sua volta tesi. Il documentario non è mai stato neutro, non fosse altro perché lo sguardo è mediato da una macchina. Ma Ly, militante di lungo corso, non vuole certo essere neutro. Come la trama, anche le scelte estetiche – la combinazione straniante dell’intrusiva macchina a mano e dell’asettico drone – e poetiche – nessuno si salva nella claustrofobica microfisica del potere, né i singoli, né la comunità, né le strade o i palazzi – hanno un fortissimo valore politico.

L’alienazione costante della messa in scena, lo sguardo entomologico, il panottico extra diegetico che tutto osserva dall’alto senza mai rapire lo spettatore all’interno della trama, frammentata da continui cali di tensione appositamente studiati per dialogare e non per narcotizzare, la musica elettronica antinomica e anti-climatica, sono il grimaldello per scardinare la dittatura dell’immagine. Per far deflagrare il flebile collante di violenza e sopraffazione che tiene insieme brandelli di una società che è una pentola a pressione abbandonata nel deserto del reale e sempre sul punto di esplodere.

In questo sistema sociale, in cui anche i miserabili hanno introiettato la violenza dei rapporti umani necessaria alla sopravvivenza del capitale, la rivolta non è detto che arriverà. Figuriamoci la rivoluzione, ci dice con estremo pessimismo Ladj Ly, che però aggiunge, parafrasando Marcuse che cita Benjamin, «è solo per merito dei disperati che ci è data una speranza».
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