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MONITOR


ven 10 gennaio 2020

LE MASCHERE GLOBALI DELLA RIVOLTA: DALÌ E JOKER

Le nuove generazioni urbane e iper-connesse stanno re-inventando la politica dei secoli a venire su una prospettiva globale, attingendo a un ampio repertorio di pratiche, immaginari e simboli comuni. Tra quest’ultimi i più ricorrenti sono alcune maschere della cultura pop, la cui apparizione ha contraddistinto tre cicli diversi di lotte, a ogni latitudine. Se il primo è stato inaugurato nel segno di "V per Vendetta", i successivi portano i vessilli di Dalì e "Joker".

Gli anni Dieci del Ventunesimo secolo sono stati segnati da un’interminabile sequenza di sommosse e rivolte che hanno incamerato nel loro immaginario e nella loro estetica del conflitto una serie di maschere derivanti dalla cultura pop. Se a inaugurare questa simbologia è stata quella di V per Vendetta, il solco è stato proseguito nel segno di Dalì e Joker.

2. «Una mattina, mi son svegliato…»

Ricky Martin è in piedi sul tetto di un tir, con la mano sinistra che si stringe in un pugno vittorioso e la destra che sventola una bandiera della pace. Non è il frame di un videoclip musicale; è un momento di una delle più grosse manifestazioni mai avvenute a San Juan, la capitale di Porto Rico.

L’8 luglio del 2019 il Centro de Periodismo Investigativo aveva diffuso centinaia di pagine di chat private su Telegram, in cui il governatore Ricardo Rosselló ironizzava sul devastante uragano Maria del 2017 e faceva commenti misogini e omofobi (uno di questi rivolto proprio a Ricky Martin). Era semplicemente troppo: Rosselló doveva dimettersi.

Dopo due settimane di proteste ininterrotte, il cantante troneggia su quel tir alla testa di un corteo davvero immenso – si parla di un milione di persone. In mezzo alla folla, quattro manifestanti si mettono in posa davanti agli obiettivi dei cellulari e delle macchine fotografiche. Sono vestiti con una tuta rossa, e indossano una maschera di Salvador Dalì. Una di loro regge un cartello su cui è scritto in maiuscolo: SOMOS LA PUTA RESISTENCIA.
Su La casa di carta non ci sono mezze misure: o piace da matti, oppure fa completamente schifo.

Certo, la fortunata serie televisiva di Antena 3 – che racconta lo spettacolare assalto alla zecca spagnola ideato dal “Professore” e dalla sua banda di rapinatori con i nomi di città e la maschera di Dalì – di difetti ne ha a bizzeffe. I dialoghi sono spesso banali, i personaggi estremamente stereotipati, i colpi di scena telefonatissimi, la trama ha buchi enormi, e a volte sembra di guardare una soap opera.

Alcune critiche l’hanno pure accusata di scadere in un facile populismo, visto che il creatore Álex Pina ha voluto ammantare l’impresa criminale del “Professore” di un’aura vagamente rivoluzionaria e anticapitalista. Evidentemente, però, è proprio questa carica ad aver affascinato il grande pubblico.

La serie è costellata di riferimenti al concetto di resistenza: sia in senso figurato, quando ad esempio Berlino (uno dei rapinatori) dice che «siamo la resistenza»; sia quando i personaggi cantano “Bella Ciao” (persino in una discutibile versione eurodance).

Poi ci sono le implicazioni politiche delle azioni della banda. Almeno nelle prime due stagioni, l’obiettivo è stampare 2.4 miliardi di euro per arricchirsi – senza rapinare formalmente le banche, e dunque sottrarre soldi ai correntisti. Per giustificarsi, a un certo punto il “Professore” si rivolge all’ispettora di polizia Raquel Murillo dicendo:

«Nel 2011 la Banca Centrale Europea ha creato dal nulla 171mila milioni di euro. Sai dove sono finiti tutti quei soldi? Alle banche. Ai più ricchi. Qualcuno ha detto che la BCE è una ladra? L’hanno chiamata “iniezione di liquidità”. Io sto facendo un’iniezione di liquidità, ma non alle banche: all’economia reale di questo gruppo di disgraziati, perché è quello che siamo. Per scappare da tutto questo. Tu non vuoi scappare?»

Secondo Roberto Ciccarelli de «il manifesto», questo discorso è un ottimo riassunto della «politica monetaria delle banche centrali, il cosiddetto quantitative easing» nonché una critica al «salvataggio della finanza a mezzo della finanza, senza preoccuparsi delle crescenti diseguaglianze e neppure della reale efficacia delle politiche di austerità […] che stanno trainando una crescita basata sul lavoro precario e la messa al lavoro dei poveri».
Più in generale, nella serie ci sono palesi rimandi al 15-M – il movimento degli indignados che ha ispirato Pina ben più degli heist movie americani.

Come scrive J.M. del Olmo Piera su «Canino», La casa di carta fa leva su un «sentimento di insoddisfazione generalizzato» e di «disincanto» che deriva dal discredito che ha colpito le istituzioni (soprattutto le banche) dopo la Grande Recessione e la crisi europea dei debiti sovrani.

Infine, l’altro elemento iconico della serie è la maschera di Dalì. Non è mai spiegato perché sia stato scelto il pittore, quindi si possono solo fare ipotesi. Secondo del Olmo Piera, «molto prima di Warhol, l’eccentrico pittore surrealista è riuscito a monetizzare la sua propria immagine»; e per Dalì, a differenza degli altri surrealisti con cui ha rotto, «l’arricchirsi era un qualcosa di desiderabile». I creatori de La casa di carta potrebbero averlo messo sulle maschere dei rapinatori sia per «fare l’occhiolino all’arricchimento fine a sé stesso sia per rivendicare la rapina come un’arte».

Altre chiavi interpretative le hanno fornite l’attore Álvaro Morte (il “Professore”) e ’attrice Itziar Ituno (Raquel Murillo). Per il primo, «la maschera mostra lo spirito della resistenza che chiunque dovrebbe avere nei confronti dell’ingiustizia»; per la seconda, è un modo di «vedere il mondo in una prospettiva diversa» grazie alla «meravigliosa follia» di Dalì.

Fatto sta che, complice il passaggio su Netflix, le maschere di Dalì si riversano nel mondo reale.

In Italia fanno capolino sulle bandiere della curva sud del Milan, in un presidio di disoccupati davanti alla sede di Confindustria e in varie università. Il 24 aprile del 2018, alcuni studenti dei collettivi della Federico II di Napoli hanno protestato contro l’aumento delle tasse universitarie con la tuta rossa e la maschera; il 17 maggio altri studenti – questa volta alla Sapienza di Roma – hanno pubblicizzato allo stesso modo la notte bianca universitaria, interamente a tema La casa di carta.
L’iconografia dei personaggi della serie si è riversata anche nei volantini distribuiti dal centro sociale LuMe di Milano in vista del primo maggio del 2018. Uno dei militanti ha spiegato così il motivo dell’adozione: «Penso che La casa di carta metta in risalto alcune questioni che sono estremamente rilevanti per l’invenzione di un immaginario: quello della ridistribuzione della ricchezza, quello del consenso e quello della creazione di un’estetica del conflitto». Per questo, la serie a suo avviso «contiene in potenza aspetti di sinistra».

E ancora: in Francia, la maschera di Dalì appare in diversi cortei del movimento di studenti e ferrovieri contro Macron nel maggio del 2018; in Venezuela spunta nella primavera del 2019, alle proteste dell’opposizione contro Maduro; a Porto Rico nelle manifestazioni oceaniche che l’estate del 2019 hanno portato alle dimissioni del governatore Rossellò; e in Cile per la strade di Santiago, dove centinaia di migliaia di persone manifestano contro il governo dall’ottobre del 2019.

Insomma, è come se ci fosse stato un passaggio di consegne con la maschera di Guy Fawkes. Gli stessi sceneggiatori ne hanno preso nota, e all’inizio della terza stagione il “Professore” dice ai suoi complici che la loro divisa è ormai usata nelle piazze di tutto il mondo.

Il cerchio è completo: la finzione si insinua nella realtà, e quest’ultima viene a sua volta reincorporata nella finzione. L’allegoria della ribellione del “Professore” si rispecchia nelle vere ribellioni.

E poco importa che la serie non sia un capolavoro, come scrive Pauline Bock sul «New Statesman»: «Il pubblico si è riconosciuto in essa per il ritratto delle tensioni sociali ed economiche, e soprattutto per la soluzione utopica che viene offerta. I Robin Hood di adesso non rubano ai ricchi per dare ai poveri, sabotano direttamente il nucleo pulsante del capitalismo».

3. «Is it just me, or is it getting crazier out there?»

Per fronteggiare una pesante crisi economica, il governo libanese ha pensato di fare quello che fa qualsiasi governo in difficoltà: tassare i servizi essenziali, tra cui anche le chiamate online con WhatsApp, Messenger e Facetime.

Non appena è circolata l’ipotesi, verso la metà di ottobre 2019, la gente ha iniziato a riempire le strade di varie città. Per correre ai ripari, l’esecutivo di Saad al-Hariri ha ritirato la tassa. Non è bastato. I giorni successivi, centinaia di migliaia di persone sono tornate in piazza ancora più determinate di prima.
«Non siamo qui per WhatsApp» ha detto un manifestante, «siamo qui per tutto: la benzina, il cibo, il pane. Tutto». Ci sono stati scontri piuttosto duri con la polizia, e da Beirut sono arrivate le consuete immagini di barricate in fiamme. In una di queste, si vede una donna reggere la bandiera del Libano sopra la sua testa. Sta ridendo. Solo che non è il suo sorriso: è quello, rosso e sinistro, di Joker.

Ancora prima che uscisse al cinema, attorno a Joker di Todd Phillipps era montata un’incontrollabile ondata di panico morale.
Basandosi unicamente sui trailer, un fiume di articoli ne aveva sancito l’irredimibile pericolosità. La pellicola con Joaquin Phoenix, si diceva, era una sorta di manuale d’addestramento per incel – acronimo che designa i cosiddetti involuntary celibates, una sottocultura online misogina e violenta che si è resa responsabile di alcune stragi negli Stati Uniti e in Canada.

Oltre ad ammiccare agli incel, poi, il film glorificava la violenza di un personaggio psicotico, e poteva addirittura provocare sparatorie di massa. O almeno, questo era il timore delle forze dell’ordine e dell’esercito statunitensi.
Quando all’inizio dell’ottobre 2019 le persone hanno potuto vederlo in sala, non si è verificato nulla di tutto ciò. Del resto in due ore e mezza non c’è alcun messaggio appetibile per gli incel o l’estrema destra, e le scene davvero crude sono poche.

È semplicemente una origin story dell’antagonista di Batman, modellata su The Killing Joke di Alan Moore e Re per una notte di Scorsese, che contiene un giudizio molto duro sull’austerity americana: ossia «di come le persone più vulnerabili siano abbandonate al loro destino», ha scritto Micah Uetricht sul «Guardian», «e sulle terribili conseguenze che ne derivano per il resto della società».

Paradossalmente, a trarre ispirazione dal film non sono stati gli incel o i suprematisti bianchi; ma moltissimi manifestanti in tutto il mondo. Il caso ha voluto che l’uscita del film coincidesse in pieno con un altro ciclo di lotte scoppiato in diversi paesi – tra cui Hong Kong, Cile, Iraq e Libano.
L’interpretazione clamorosa di Phoenix e le scene finali – con Joker acclamato da persone che hanno maschere da clown, mentre Gotham City brucia ed è in subbuglio – hanno fatto il resto. «Il film di Philipps ha un potere evocativo molto forte», ha detto lo storico francese William Blanc a France24, perché «echeggia una forma di protesta contro un sistema politico ritenuto inflessibile e che non ascolta le persone».

Secondo il professore Mattias Frey dell’università di Kent, l’assenza esplicita di riferimenti politici nella pellicola ha lasciato un margine interpretativo «in cui proiettare le proprie preoccupazioni» e i «propri valori simbolici»: in questo senso, afferma, l’identificazione con Joker non riguarda i suoi atti criminali ma piuttosto «l’energia radicale espressa contro l’establishment».

Questo approccio al Joker di Phillips è stato particolarmente evidentemente in Libano (dove il premier al-Hariri è stato costretto a dimettersi). Lo street artist Mohamed Kabbani, autore di un famoso murales a Beirut con il personaggio e una molotov, ha dichiarato alla CNN che «Joker siamo noi, e Beirut è la nuova Gotham City».

La situazione sociale libanese, ha continuato, è molto simile a quella descritta nel film: «piena di persone oppresse ed estremamente frustrate alla ricerca di una speranza». Una delle tante manifestanti libanesi scese in piazza con il trucco di Joker, Cynthia Aboujaoude, ha spiegato che «le pareva la cosa giusta da fare» per «mandare un messaggio: siamo feriti e delusi».

A Hong Kong la maschera e il trucco di Joker sono stati usati anche per sfidare una legge emergenziale – risalente al 1922, cioè all’epoca coloniale – che punisce ogni tipo di travisamento. Per quanto controversa, la mossa non è affatto senza precedenti: anche le maschere di Guy Fawkes e di Dalì, infatti, sono state oggetto di provvedimenti simili nel corso degli ultimi dieci anni.
Nel maggio del 2013, l’Arabia Saudita aveva proibito la maschera di V per Vendetta in quanto promotrice di «una cultura violenta ed estremista»; e pochi mesi prima anche il Bahrein aveva fatto lo stesso. In Turchia, a finire nel mirino degli autoritari è stata La casa di carta: diversi commentatori e politici vicini a Erdoğan hanno accusato Netflix di aver diffuso un trailer che inviterebbe alla «ribellione contro il governo». L’ex sindaco di Ankara Melih Gökçek ha persino chiesto l’intervento delle forze di sicurezza.

Nonostante le controversie e i cortocircuiti che convivono con questi simboli (il più evidente dei quali è che aziende gigantesche come Time Warner di fatto incassano soldi da vessilli antisistema), i governi che devono confrontarsi con la rabbia dei propri cittadini conoscono perfettamente le implicazioni di questi simboli e reagiscono di conseguenza.

La messa al bando di queste maschere, argomenta la ricercatrice Jennifer B. Spiegel, risponde a diverse logiche. La prima è la più ovvia: evitare che le persone si rendano irriconoscibili. La seconda è mettere fuorilegge il dissenso, tentando di rimuoverlo dal resto della società. La terza è forse quella più importante: impedire che determinati artefatti culturali inneschino meccanismi di solidarietà diffusa e creino un’identità collettiva.

Gli anni Dieci si sono aperti con proteste e rivolte, e si sono conclusi allo stesso modo. Dopotutto, non c’è stata alcuna soluzione sistemica alla crisi finanziaria del 2008; nessuno è stato punito; e nessuno ha messo in piedi un meccanismo in grado di scongiurarne una replica, che sembra essere dietro l’angolo.

Il prossimo decennio promette di essere ancora più instabile e infuocato; la situazione sta effettivamente sbandando con sempre maggiore rapidità. E con ogni probabilità Guy Fawkes, Dalì e Joker saranno ancora lì, in prima linea, ad ammirare il rogo.
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