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VISIONI


ven 3 gennaio 2020

LA SVASTICA SULL’AMERICA LATINA

La Germania, ecco perché gli ricordava la Germania. Il bunker era il laboratorio segreto di quei gerarchi nazisti che dopo la Seconda Guerra mondiale si erano rifugiati in America Latina. La visionaria parabola sul Quarto Reich spingeva per chiudersi e diventare realtà.

Eppure gli sembrava di averla già vista. Claudio Borghi spense la sigaretta sul pavimento, ingollò un altro sorso di birra e cominciò a picchiare compulsivamente sui tasti del suo portatile.


La notte era calata densa sulla città, attutendo i rumori di proiettili e lacrimogeni, silenziando le esplosioni che brillavano in lontananza. Il pezzo sul discorso d’insediamento della nuova presidentessa andava mandato al giornale entro un’ora.



Certo che l’aveva già vista. Adele Maria Juana de Abascal y Sousa, per tutti Adele, appariva da anni su quotidiani e televisioni nazionali e internazionali. Ex campionessa di nuoto, modella, presentatrice televisiva, da pochi mesi Adele aveva deciso di entrare in politica con un nuovo movimento indipendente, né di destra né di sinistra.
E quindi fottutamente fascista, pensò Claudio Borghi.

Su di lei giravano un sacco di storie, più o meno vere. Figlia di un latifondista, discendente di una nobile famiglia di lignaggio aristocratico spagnolo, aveva ereditato una delle più grandi fortune del Paese all’improvvisa morte dei genitori, avvenuta in un misterioso incidente aereo.

Si diceva anche che dietro il suo viso angelico si celassero malvagità e perfidia. Racconti di ex domestici tenuti a pane e acqua nel bunker sotto la sua dimora, allusioni a pratiche esoteriche di stampo nazista, la morte violenta di almeno due suoi ex fidanzati, uno dei quali aveva annunciato la pubblicazione di un libro dai risvolti clamorosi, mai pubblicato.

La figura di Adele, insomma, era ammantata di mistero. Non era però questo genere di retroscena che interessava Claudio Borghi, firma di punta del giornale socialista del Paese. Lui era certo di dover scovare un’altra pista, anche se non sapeva quale.

Intanto aveva finito l’articolo per l’indomani. Il solito pezzo di denuncia che non avrebbe minimamente cambiato l’ordine delle cose. Schiacciò su un cucchiaino una pastiglia di antidolorifico a base di oppiacei, la mischiò con la birra, e si mise a rileggere.

[…] Dietro quei denti bianchi e scintillanti, quella pelle lattescente, schiarita ancora di più dalle luci abbaglianti dello studio televisivo, c’è la condanna a morte della popolazione indigena che rappresenta oltre la metà del Paese […] Il violentissimo colpo di stato sostenuto dagli Stati Uniti e portato avanti con tattiche e strategie militari che ben conosciamo dal secolo scorso […] Il discorso di Adele è il solito impasto di significanti vuoti per ammaliare il popolo e costruirlo. […] Il potere è già con lei. Non ha bisogno di essere sedotto. […]

Claudio Borghi ripensò a quegli ultimi concitati giorni. Il colpo di stato che aveva destituito il leader indigeno. L’arrivo di Adele Maria Juana de Abascal y Sousa e la sua autoproclamazione a presidente, appoggiata dai latifondisti locali e dai media internazionali. L’esercito che aveva cominciato a sparare nelle strade, i morti, i desaparecidos. Una storia vista mille e più volte in quel continente martoriato, pieno di risorse e privo di libertà.

Mentre la notte lasciava spazio alle prime luci del giorno, anticipate nel cielo dai bagliori dei mortai, e l’oppioide leniva i dolori del mondo, ricevette la notifica di una mail. E pochi secondi dopo, su Telegram, il codice per aprire il link ricevuto per posta elettronica: un messaggio che sembrava il tipico spam pubblicitario.

Tutto sarebbe sparito entro pochi secondi. Con la vista ancora annebbiata e il corpo indolenzito, Claudio Borghi riuscì ad aprire il link e a memorizzare delle coordinate GPS: un posto da qualche parte, su in montagna.

Qualche settimana dopo, mentre giornali e televisioni di tutto il mondo magnificavano la bellezza, la grazia e la generosità di Adele, come prima mossa il neo-presidente era andato a trovare le famiglie degli indigeni massacrati su suo ordine durante il colpo di stato. Poi si era recata alla Casa Bianca a omaggiare il suo datore di lavoro.

Altrove, Claudio Borghi si arrampicava oltre i quattromila metri di altitudine, sulla cordigliera, cercando di raggiungere il posto indicato dalle coordinate ricevute per email. Non aveva mai capito chi gli mandava quei messaggi, ma si erano sempre rivelati utili.

Dopo altri giorni di cammino e arrampicata raggiunse finalmente l’obiettivo. Superate rocce incandescenti e paesaggi brulli, distese ghiacciate e panorami deserti, davanti ai suoi occhi si aprì all’improvviso un’immagine da sogno: uno splendido lago montano immerso in una valle verdeggiante e rigogliosa, una vegetazione stranamente abbondante per l’altitudine.

Le coordinate GPS erano quelle. Adesso toccava a lui. Ingurgitò una pastiglia di idrocodone per schiarirsi le idee, ma tutto quello cui riusciva a pensare davanti a quel paesaggio montano era la Germania. La cosa lo disturbava un po’, non aveva senso. Decise di camminare per riprendere il filo dei pensieri e si trovò attratto, come da una forza magnetica, verso le sponde meridionali del lago, dove il sole riscaldava l’atmosfera.

Qui trovò una strana costruzione di pietre che ricordava alla lontana Stonehenge. Appena ne toccò una sentì un rumore di cingoli. Un antico meccanismo si mise in moto e davanti a lui si spalancò l’ingresso a un bunker sotterraneo. Dopo un attimo di esitazione, scese la scalinata di pietra e s’inoltrò in quella fortezza sotterranea. Simulacro di qualcosa che non doveva mai essere esistito.

Una teoria di macchinari abbandonati e impolverati, risalenti agli anni Sessanta o Settanta dello scorso secolo, riempiva le stanze del bunker. Sembravano apparecchi medici, ospedalieri. Alcuni di essi erano particolarmente strani, era quasi impossibile decifrarne una destinazione d’uso.

Cominciò a girare per il fortino fino a che non trovò quello che sembrava essere un ufficio, e da lì uno stretto corridoio che portava all’archivio. Dopo tre lunghissimi giorni riemerse alla luce del sole, si accasciò sulle sponde del lago e cominciò a urlare.

La Germania, ecco perché il lago gli ricordava la Germania. Il bunker era un laboratorio segreto per esperimenti di eugenetica, condotti su cavie umane da gerarchi nazisti che dopo la Seconda Guerra mondiale si erano rifugiati in America Latina, con l’aiuto della Chiesa e degli Stati Uniti. L’Operazione Odessa.

Quell’ospedale in particolare, aveva appreso dall’archivio, era la punta più avanzata dell’esperimento. Era stato dato in gestione a Klaus Barbie, il ferocissimo gerarca conosciuto come il Boia di Lione, famoso per essere stato assunto dalla Cia per addestrare alla violenza e alla tortura gli artefici delle varie dittature che avevano infestato l’America Latina.

Ma Klaus Barbie, cui la storia assegna almeno un paio di colpi di stato e qualche centinaio di migliaia di morti, non si limitava a riorganizzare l’internazionale nera nel “giardino di casa degli Stati Uniti”. Era il più visionario di tutti, aveva un sogno: l’edificazione del Quarto Reich.
Il nazismo era la fede, l’eugenetica la sua liturgia.


Quel che aveva visto in quel bunker lo avrebbe perseguitato per tutta la vita. Fotografie e filmati di esperimenti compiuti su uomini, donne e bambini, a inseguire un immenso delirio d’impotenza per la creazione della razza pura. Rapporti medici e descrizioni chirurgiche, fin nei minimi dettagli, che non avrebbero mai smesso di nutrire le sue visioni.
Devastato, Claudio Borghi riprese il cammino per rientrare a casa.

Per alcune settimane rimase chiuso in casa, le tapparelle abbassate, le luci spente, in preda alle più terrificanti allucinazioni. Le uniche immagini e gli unici suoni che si ripetevano incessanti erano quelli provenienti dal canale televisivo nazionale: dove il volto e la voce di Adele apparivano costantemente.

Si era creato un suo bunker personale, con l’unico scopo di sopravvivere. Finita la birra era passato al rhum, poi all’aguardiente, ora stava cercando di macerare frutta imputridita con zucchero e alcool denaturato. Il tutto sempre mischiato alle pastiglie di antidolorifici oppiacei.

Denunciata la scoperta del bunker al direttore del suo giornale, i media nazionali e internazionali avevano subito ricordato l’oscuro passato delle dittature sudamericane, in modo da rendere limpide e potabili quelle di oggi. Poi i più conservatori avevano cominciato a insinuare il dubbio, senza alcuna prova a sostegno, che quel bunker potesse essere stato usato dalle varie organizzazioni di estrema sinistra che avevano lottato negli anni contro le dittature. Presto anche i media presunti democratici seguirono questa scia.

E così il simulacro dell’orrore nazista divenne, nel senso comune, il mausoleo di tutti gli orrori – di destra e di sinistra – da non ripetere mai più. Non nel Paese che con Adele si apprestava a vivere il suo meraviglioso rinascimento.

Ma questi meccanismi perversi dei media Claudio Borghi li conosceva fin troppo bene. Non era questo a sconvolgerlo. Oltre al ricordo indelebile di quel che aveva visto, il tarlo che lo inquietava era altro. Era il perché del misterioso messaggio ricevuto via mail, che l’aveva mandato lassù. In quell’angolo di Germania ricreato sulla cordigliera. Che senso aveva?

Fino a che una notte, o un giorno, il senso del tempo era oramai smarrito, mentre ingurgitava i suoi cocktail all’alcol denaturato, ebbe un fremito, poi un’illuminazione. Vomitò e cadde a terra svenuto sul pavimento della cucina. Nella sua mente c’era solo un nome: Adele.

Ecco dove l’aveva già vista. La figura di Adele era uguale, identica e spiccicata, alla figura di Anni-Frid Lyngstad: la cantante degli Abba, famosissimo gruppo pop svedese degli anni Settanta e Ottanta. La madre di Anni-Frid Lyngstad, rifugiata in Svezia dopo la Seconda Guerra mondiale, aveva partecipato al Progetto Lebensborn, il programma eugenetico di riproduzione e selezione delle nascite messo in atto dai gerarchi nazisti. E il padre era tra quei gerarchi.

Si mise al computer a riguardare tutte le foto che aveva scattato nel bunker, ne stampò alcune, disegnò una mappa sul muro. Arrivò alla soluzione. In quel laboratorio non si conducevano solo esperimenti atroci sugli indigeni, come appariva appena entrati e come risultava negli archivi. Nel cuore del bunker, incastrato nelle viscere della terra, si era arrivati alla soluzione finale eugenetica. La creazione di cloni in provetta di pura razza ariana. La trasmissione ereditaria del male assoluto.

Adele Maria Juana de Abascal y Sousa, per tutti Adele, ex campionessa di nuoto, modella, presentatrice televisiva, e da pochi mesi presidente del suo Paese, era figlia di un esperimento genetico. Era nata in un laboratorio messo in piedi da Klaus Barbie: il gerarca nazista, il dipendente della Cia, l’uomo dietro le peggiori dittature militari dell’America Latina. Il visionario del Quarto Reich.

Claudio Borghi si alzò in piedi, spalancò le finestre e fu investito dalla tiepida luce del giorno. Si diede una ripulita, ingollò un altro paio di pastiglie, riportò i diagrammi della mappa che aveva disegnato sul computer, scaricò tutto su una chiavetta e chiamò il direttore del suo giornale per annunciargli che si sarebbe presentato in sede.

Non poteva rivelargli nulla per telefono. Anche se poteva provarlo, era assurdo da credersi. Mai come nel caso del ruolo dei nazisti dopo la guerra, soprattutto in America Latina, si rischiava di essere presi per pericolosi e paranoici agitatori.

Eppure i documenti erano lì, nella chiavetta. Male che vada, pensò mentre camminava sui marciapiedi della città, se non riuscirò a dimostrare che dietro Adele c’è la volontà di instaurare il Quarto Reich, otterrò comunque di farla dimettere, restituendo giustizia e dignità al popolo indigeno.

Dai conquistadores all’ennesimo colpo di stato, organizzato dagli Stati Uniti e subito riconosciuto anche dall’Europa e dalla Russia: erano un popolo massacrato, una terra vittima di ataviche espropriazioni. Questa era la storia del suo Paese. Questa era la sua storia.

Arrivato a pochi passi dall’ingresso della sede del giornale, si sentì spingere alle spalle, poi fu bloccato per le braccia e tirato su per le gambe. Gli infilarono un cappuccio nero in testa e lo sbatterono con violenza nella pancia di un furgone. Si risvegliò in una sala asettica da interrogatorio. Poteva trovarsi ovunque, nel suo Paese, in Mozambico o a Guantanamo.

Le gambe legate al tavolo e alla sedia. Di fronte a lui l’altrettanto tipico funzionario di una non meglio precisata agenzia di sicurezza, poteva esserne il capo come l’ultimo degli impiegati. Cortese e deciso, l’uomo cominciò l’interrogatorio. Non gli chiese nulla del lago, del bunker o di Adele. Dell’eugenetica o del Quarto Reich. Gli chiese invece della sua infanzia, dei suoi ricordi, dei suoi pensieri.

Come Claudio Borghi aveva sempre raccontato, faticava ad avere ricordi precisi, almeno fino all’adolescenza. Un incidente in macchina, a poco più di diciassette anni, da cui si era salvato per miracolo. Quindi la dipendenza da antidolorifici a base di oppio. Si era risvegliato in un ospedale nella capitale. Senza memoria e completamente solo.

Nessuno ne aveva mai reclamato la parentela, nonostante le lunghe ricerche effettuate in seguito. Tantomeno l’amicizia, o anche solo una lontana conoscenza. Nella stanza d’ospedale l’incontro fortuito con il suo compagno di degenza, un decano dei giornalisti del Paese, che lo aveva preso sotto la sua ala protettiva e gli aveva insegnato il mestiere.

Il funzionario però continuava a insistere. Ora, con tono inquisitorio, era passato a chiedergli dei suoi sentimenti e delle sue emozioni. Gli mostrò fotografie e filmati di macchie colorate, totalmente astratte, che avrebbero dovuto indurgli una qualche reazione emotiva. Gli chiese del suo amore e del suo odio, del profumo della pioggia e del colore del vento. Poi cominciò a urlare.

Il funzionario lo guardava. Gli diceva che almeno avrebbe dovuto ricordarsi del viso di sua madre, del calore del suo corpo. Di qualche episodio della sua vita da bambino, un bagno nell’acqua calda o una scottatura sulle mani. Una cicatrice da qualche parte del corpo, sulle gambe o nel cuore. Tutti gli umani ne avevano. Claudio Borghi fu sul punto di piangere, non ci riuscì.

Le uniche parole erano concetti astratti come rivoluzione, socialismo, colpo di stato, imperialismo. Si mise a farfugliare qualcosa sull’eugenetica e sul Quarto Reich. D’un tratto si bloccò. Il suo corpo s’irrigidì e non fu più in grado di muoversi. «Gli effetti dell’astinenza da oppiacei» disse tra sé.

L’unica cosa che riusciva a far funzionare era la testa, nonostante gli sembrasse come imprigionata in un involucro a lui estraneo, e i suoi occhi, che però si muovevano a loro piacimento in uno strano roteare meccanico, zoomando a caso in giro per la stanza. Il funzionario dell’agenzia di sicurezza gli sorrise. Fece scivolare un foglio davanti a lui, si sistemò il nodo della cravatta e uscì di scena. Non l’avrebbe mai più rivisto.

Dopo avere vagato a lungo per la stanza, gli occhi si posarono sul foglio: l’intestazione recava il suo nome. Il sommario riassumeva la sua identità.

Claudio Borghi cercò disperatamente di gridare, ma non riuscì a produrre alcun suono. Non era l’oppio. Nel suo cervello alle immagini del bunker di Klaus Barbie si sovrapponevano ora istantanee di un altro bunker, dall’altra parte del mondo. Periferia di Guangzhou, megalopoli della Cina meridionale. Alle fotografie dei corpi smembrati in quel laboratorio in riva al lago, sulla cordigliera, si aggiungevano i ricordi di altri corpi smembrati in un altro laboratorio. Ma questi erano copri diversi, erano corpi inumani. Erano corpi sintetici.

D’improvviso la sua vita prima dell’incidente gli apparve davanti in tutta la sua durata. Pochi secondi. Il tempo di assimilare un software dotato di abilità cognitive umane. Pensieri, parole, sentimenti ed emozioni. Tutto scritto con il medesimo linguaggio binario. L’attenzione per un materiale in particolare: il litio. Metallo fondamentale nell’industria bellica, informatica e biotecnologica, di cui il Paese degli indigeni aveva tra le più altre riserve del pianeta.

È il litio, non il socialismo, a destare l’interesse delle superpotenze globali e a farle parteggiare per l’uno o per l’altro dei contendenti in campo. Il vecchio spettro che si aggirava per l’Europa non spaventava più nessuno, la materia prima per vincere la guerra tecnologica faceva gola a tutti.

Claudio Borghi cercò di concentrarsi sul suo volto. Poi sul volto di Adele. Le uniche due immagini che riusciva ancora a riprodurre senza interferenze. Si aggrappava a qualsiasi cosa potesse restituirgli una parvenza di vita. Alla fine anche gli occhi si fermarono, puntati sul soffitto.

Claudio Borghi per un attimo riuscì a vedere oltre, a penetrare i muri e lanciare lo sguardo dritto verso il cielo. Verso un bagliore che brillava nell’infinito. Una luce che aveva le sembianze del suo viso, di quello di Adele. Infine i contorni del volto trasfigurato e il riso sardonico di Klaus Barbie: il profeta del Quarto Reich.

Un attimo dopo, la luce si spense.
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